Due libri per entrare nel mondo di Svevo

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GIANCARLO BARONI

Italo Svevo, a cura di Francesco Gallina e Paolo Briganti, Edizioni Unicopli, Milano, 2019, pagine 269.

In una rete di fili che si intrecciano. Sintomi dello squilibrio nel romanzo modernista, a cura di Paolo Briganti, UNI.NOVA editore, Parma, 2019, pagine 132.

Il libro curato da Francesco Gallina (dottorando di ricerca all’Università degli Studi di Parma)  e da Paolo Briganti (che nella stessa Università ha insegnato per cinquant’anni Letteratura italiana contemporanea) intitolato Italo Svevo, ci accompagna per mano nel mondo letterario e umano dello scrittore triestino. L’ampiezza e la vastità del capitolo relativo alla bibliografia un poco ci sgomenta (“Impossibile sarebbe fornire in questa sede una bibliografia anche solo minimamente esaustiva di tutte le esperienze critiche sveviane”). Francesco Gallina, che ha curato la maggior parte del volume, nel capitolo introduttivo benevolmente ci guida all’interno dell’universo sveviano. Scrive: “scaviamo nelle sue molteplici identità di uomo, imprenditore, scrittore; ripercorriamone la vita come fosse un itinerario costellato di contrattempi, inciampi, delusioni, all’interno di una galassia in cui tutto si tiene secondo una misteriosa e coerente forza gravitazionale…Il cosiddetto caso Svevo è la storia di uno scrittore anticonvenzionale ed eterodosso sotto tutti i punti di vista – poetico, stilistico, linguistico, contenutistico, persino umano –  le cui opere, i romanzi in particolare, furono a lungo ignorati dalla grande critica o, nel migliore dei casi, recepiti con diffidenza e ostilità”.

Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz (registrato come Schimtz Aron, detto Ettore), nasce da una famiglia di origini ebraiche nel 1861 a Trieste, che allora apparteneva all’impero asburgico, città di frontiera fra Italia e Austria; morirà nel 1928, a seguito di un incidente automobilistico. Un incontro significativo si rivelerà per lui quello con James Joyce, che a Trieste gli dà lezioni private di inglese e che a suo favore “intercede presso critici di fama internazionale”.

Con rigore, precisione, accuratezza e chiarezza, il libro esplora il variegato mosaico artistico sveviano, soffermandosi sulle varie tessere che lo compongono. Si tratta di un percorso critico a trecentosessanta gradi, corredato da utili note esplicative e arricchito da un’ampia scelta antologica. Un consistente numero di pagine parla della rilevante produzione drammaturgica di Svevo che nasce “da una passione che si esprime non solo nella stesura di testi, ma prima di tutto nella frequentazione dei teatri in qualità di spettatore e critico teatrale”; quattordici le opere teatrali composte nell’arco di cinquant’anni (1880-1928), una soltanto pubblicata in vita. “Come per la produzione teatrale, anche quella novellistica occupa un ruolo decisivo nella formazione letteraria di Svevo”, racconti pubblicati sia in vita che postumi. Nel volume non vengono trascurati aspetti apparentemente marginali dell’attività letteraria sveviana: da quelli più personali, come le lettere e le pagine di diario, (“Tra la biografia e la produzione letteraria…vive una profonda relazione osmotica”), a quelli più impersonali, come le recensioni pubblicate su quotidiani, a cominciare dalla prima, del dicembre 1880, in cui si  ragiona attorno al Mercante di Venezia e in particolare attorno alla figura di Shylock. Nel 1929 viene stampato  un Profilo autobiografico, che ci offre preziose e illuminanti informazioni, dove si ripercorrono le principali tappe esistenziali e letterarie dello scrittore triestino. Si tratta di un testo dalla stesura stratificata: le iniziali note biografiche di Giulio Cèsari, un giornalista triestino amico di Svevo,  in seguito verranno corrette, ampliate e approfondite da quest’ultimo. Briganti, che di Svevo e in particolare del Profilo autobiografico si è lungamente occupato, precisa: “…Svevo, nel trascrivere  le note del Cesari, s’era riappropriato dell’opera, sfruttando l’occasione esterna per ripercorrere la propria vita secondo il proprio personale punto di vista, per trasformare cioè un tracciato biografico …in una vera autobiografia”.

Finalmente approdiamo ai romanzi, che costituiscono il cuore della produzione dello scrittore da cui deriva la sua seppure tardiva fama: Una vita (1892), Senilità (1898) e soprattutto La coscienza di Zeno (1923). Stampata da un piccolo editore e libraio triestino, la prima opera si rivela purtroppo un insuccesso. Il suo protagonista Alfonso Nitti è, come quelli dei due romanzi successivi (Emilio Brentani e Zeno Cosini), un inetto, un inadatto alla vita, inconcludente, indeciso, inaffidabile. Pubblicato prima a puntate sul quotidiano l’”Indipendente” e successivamente dallo stesso editore che aveva stampato “Una vita”, anche “Senilità” non ottiene il successo sperato “ma, quando sarà (ri)scoperto molti anni dopo da Eugenio Montale, questi non esiterà a definirlo un romanzo quasi perfetto”. Se si escludono Montale e pochi altri, il suo capolavoro La coscienza di Zeno stenterà ad ottenere in Italia gli adeguati riconoscimenti critici e “il primo notevole contributo alla fama dell’autore” si avrà all’estero, in Francia. Nel libro la psicoanalisi e le teorie freudiane, sia pure in forma ambigua e indiretta, offrono temi e spunti: la malattia, la nevrosi, i tic, le compulsioni, tanto che “Il romanzo si presenta come il memoriale in prima persona inviato da Zeno Cosini allo psicanalista Dottor S., che frequenta fino al momento in cui decide di interrompere il trattamento e la cura”. Impossibile per i suoi lettori non identificarsi con lo Zeno che tenta inutilmente di liberarsi dal vizio e dall’ossessione delle sigarette e del fumo e che ogni volta, come in un rito e una liturgia fallimentari che ribadiscono la sua malattia della volontà, fissa una data esemplare e indimenticabile (ad esempio nono giorno del nono mese del 1899 oppure primo giorno del primo mese del 1900)  che non verrà rispettata. Dice Zeno (e con lui Italo ed Ettore): “Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei diventato l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente”.

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Anche nel bel volume di Jelena Radojev In una rete di fili che si intrecciano. Sintomi dello squilibrio nel romanzo modernista, analiticamente e affettuosamente curato e postfatto dal docente e critico Paolo Briganti, si parla di Italo Svevo. L’approccio a Svevo di questo libro, nato come tesi di laurea specialistica, è decisamente diverso rispetto all’approccio del libro precedente, nato come guida e antologia. Mentre in uno dei due testi, Svevo riveste il ruolo di protagonista assoluto, nell’altro è il personaggio principale ma non esclusivo; uno ci conduce per mano dentro il variegato universo letterario e umano sveviano, l’altro mette a contatto e in relazione le opere narrative di Svevo con quelle di altri autori. In particolare mette a confronto tre libri di altrettanti scrittori dove i personaggi sono accomunati da un evidente malessere: La coscienza di Zeno (scritto fra il 1919 e il ’22 e pubblicato nel ’23), Mrs Dalloway (1925) di Virginia Woolf e Maurice di Edward Morgan Foster, scritto fra il 1913 e il ’14 (pubblicato solo nel 1971). È un periodo, quello del Primo Novecento, di profondi cambiamenti intellettuali e conoscitivi che si riflettono e ripercuotono sul romanzo e sulla narrativa: “L’importanza che gli scrittori…conferiscono alla realtà psichica…”, scrive Jelena, “ora diventa smisurata: in filosofia come in letteratura si diffonde la convinzione che nessuna realtà oggettiva può esistere al di fuori della mente che la percepisce”. Il mondo concreto comincia ad apparire  più fluido e instabile, meno afferrabile nella sua completezza e, sottolinea l’autrice, “ Il nuovo modo di percepire la realtà ha importanti conseguenze sulla scelta dei contenuti della narrativa modernista: sulle storie che si raccontano e sui personaggi che si rappresentano”. Basti pensare a Proust e a Joyce.

Ma ritorniamo alla “coscienza” problematica di Zeno Cosini; nel farlo ci imbattiamo inevitabilmente nei temi della malattia e della guarigione, della nevrosi e della terapia, dei sintomi e dell’analisi degli stessi, della cura e delle resistenze ad essa. Se la salute è misura, armonia, concordia, equilibrio, ordine, la malattia è squilibrio, disordine, frattura, distonia, imperfezione, smagliatura, incrinatura; vivere si presenta per Zeno, ma alla fine credo per ognuno di noi, come un precario e instabile tentativo di restare in bilico fra questi due estremi che interagiscono. Con una scrittura elegante, nitida e cristallina, che a tratti richiama alla mente quella del Calvino saggista, Jelena Radojev sa parlare e illustrare con chiarezza problemi complessi proprio come avviene  magistralmente in questo brano: “Questa instabilità e questa  capacità (nonostante tutto) di mantenersi in bilico appartengono a figure che potremmo definire funambolesche, poiché un funambolo è costantemente sollecitato dal fenomeno dello squilibrio e al tempo stesso dalla lotta per la riconquista dell’equilibrio. Nessuna circostanza può metterlo in condizione di stabilità duratura…”. Quella del funambolo, sempre in bilico su una fune tesa a mezz’aria, è una straordinaria metafora esistenziale e letteraria, che si imprime con evidenza nel nostro sguardo, nella mente e dentro la memoria. “Io…”, testimonia Briganti, “riconosco qui non solo l’intelligenza della studiosa e dell’accanita lettrice, ma l’animo della stessa persona Jelena Radojev e il suo pervicace tentar di restare, nella propria vita in equilibrio; Jelena la funambola, insomma; pellegrina, senza rete di protezione, sulla terra”.

L’ottimo saggio della Radojev, prematuramente scomparsa nel 2016, è arricchito da una considerevole presenza di citazioni, come se al suo interno convivessero due libri attigui e comunicanti, quello dove l’autrice mantiene la propria voce e quello dove lascia che siano altri e autorevoli  scrittori e critici ad esprimersi. Viene il dubbio che il motivo di questa scelta abbia in qualche modo a che vedere con quella indicata da Jean Starobinski introducendo Anatomia della malinconia di Robert Burton: “Cedere così costantemente la parola a coloro che vengono considerate le massime autorità potrebbe essere la conseguenza del sentimento…di cui soffre la coscienza malinconica: le sono necessari dei sostegni, degli appoggi esterni, dei garanti”.