Andar per “Silvae”…

GABRIELLA VERGARI – GABRIELLA MONGARDI

gabrielle

Ebbene, lo confesso.
Appena ho ricevuto l’elegante volumetto della Giuliano Ladolfi Editore, con l’ultima silloge poetica, Silvae, di Gabriella Mongardi, non sono riuscita a non risentire il Cui dono lepidum novum libellum (“A chi dono questo grazioso nuovo libriccino”), con cui Catullo inaugura le sue nugae, dedicandole a C. Nepote.
E questo non solo perché di cultura classica siamo imbevute entrambe, Gabriella e io, o perché siamo legate, un po’ come Catullo e Nepote, da vincoli d’amicizia, ma soprattutto perché la dimensione della nuga, ovvero di una poesia volta a cogliere raffinatamente l’istante, senza compiacimenti autocelebrativi o indulgenze retoriche, mi sembra in realtà la più affine a quella di queste Silvae, nate come “stanze per sé”, dopo il felice esito della precedente raccolta Nella stanza segreta, edizioni Gli Spigolatori, Mondovì 2018.
E benché l’Autrice dichiari il proprio debito più verso Virgilio e Stazio, che verso il poeta di Sirmione, catulliana mi appare, nella raccolta, anche la sua spiccata tendenza alla varietas, che anima una pluralità di contenuti e forme, cristallizzando in sostanza poetica tutta propria – spesso (ma non sempre) filtrata dal contatto privilegiato con la natura – occasioni, momenti e spunti diversi, così da tradurli pure in riflessione intimistica e, a tratti, perfino esistenziale, pur se mai esistenzialistica.
Certo,  la passione amorosa che travolge e profondamente turba il poeta dell’ Odi et amo non è delle Silvae, o meglio, cambia direzione e si rivolge, più meditata e composta, ma non per questo meno autentica, alle amatissime montagne, ancore della vita, o “al vento che sfilaccia le nubi”, o alla “neve di febbraio struggente di lentezza”.
E però, il sentire sospeso dell’animo che si interroga su se stesso e sul mondo non  resta, a ben vedere, il tema di fondo di ogni poeta a colloquio con se stesso, secondo la lezione che attraverso i secoli tanto bene Catullo e, prima di lui, i lirici greci ci hanno impartito?
Così la nuga  può, ancora oggi, agevolmente trasformarsi nella chiave di volta dell’espressione dell’”io”, all’impalpabile confine tra l’effimero e l’eterno, dato che – come si legge anche nella quarta di copertina – “La poesia non sta nelle parole, ma nello sguardo con il quale si contempla il mondo”.
Ed è proprio per conoscerlo meglio, questo suo sguardo, che ho chiesto a Gabriella Mongardi di aiutarci, con cinque parole-chiave: bosco, cammino, silenzio, tempo, cultura tedesca – e adesso cedo a lei la parola.

«Fatta salva la libertà di lettura, ci terrei a precisare che i miei boschi sono molto più letterari che naturalistici, sono simboli più che luoghi – anche se amo il bosco in autunno-inverno, quando se ne vede lo scheletro, la luce gioca fra rami e tronchi che il vento suona come canne d’organo e si cammina su un frusciante tappeto di foglie. Ma nella realtà non vorrei mai perdermi in un bosco né abitarvi: i boschi, per me, sono luoghi da attraversare. Sul piano letterario e simbolico, invece, le silvae sono diventate con Virgilio l’emblema della poesia bucolica e poi con Stazio un preciso sottogenere poetico, quello di una poesia senza pretese, legata al quotidiano, a tema vario: citando in esergo il verso virgiliano Si canimus silvas intendevo appunto ricostruire un’etimologia. Ecco, il simbolismo delle mie “selve” è eminentemente – se non esclusivamente –   letterario: come per il Petrarca di Chiare, fresce e dolci acque, sono il simbolo della “stanza segreta”, della “cameretta”, lo spazio privato in cui nasce la poesia, dalla distillazione e dalla trasfigurazione del vissuto. Il bosco di Petrarca non è la “selva oscura” di Dante, allegoria della vita mondana, peccaminosa: è l’intimità dell’io contrapposta alla vita esteriore e pubblica. Questo sono le mie Silvae, nella misura in cui si possono considerare il seguito della mia precedente raccolta, Nella stanza segreta.

Lo stesso potrei dire per il cammino, che è innanzitutto quello della lettura: in apertura del libro, l’invito della mia Euridice a Orfeo: “dobbiamo andare, non ti voltare indietro” è rivolto al lettore, perché entri nel mio “bosco poetico” e cammini sui suoi sentieri, le liriche, senza voltarsi indietro; e la lettura è un cammino che continua una volta chiuso il libro, se grazie alla poesia la vita del lettore diventa più ricca e insieme più leggera, come sostiene l’autore della prefazione e come mi auguro. Ma nell’ultima lirica, lo stesso invito ripetuto assume anche un diverso valore, in questo caso dantesco: il cammino è quello della vita, di cui non scorgiamo il termine, e il “bosco impenetrabile” diventa il simbolo del buio che ci attende.

Un altro simbolo del mistero è il silenzio: il silenzio della montagna innanzitutto, ma anche quello della vita di cui ci sfugge il senso, quello dell’assenza e del vuoto. Ma il silenzio è anche la condizione necessaria perché germini la voce della poesia, che si può udire solo se si mettono a tacere altre voci di “disturbo”, dentro e fuori di noi.

Forse il primo “rumore di fondo” da cui la poesia si difende è quello del tempo che scorre, e lo fa in due modi antitetici: da un lato mettendolo a tacere, cioè immobilizzandolo, sospendendolo, proprio attraverso la scrittura, che permette di respirare un “soffio d’eternità”; dall’altro facendone il proprio “compagno di giochi”,  ossia facendone il tema di fondo del proprio canto e cercando di adeguare il ritmo dei versi a quello del tempo, come fa la musica.

Strettamente legato al tema del tempo è anche il tema dell’omaggio ai poeti, agli scrittori amati – antichi o moderni – che innerva la mia raccolta, ossia il discorso sulla cultura, che è uno degli strumenti per vincere il tempo intrecciando un dialogo che scavalca i secoli con gli autori “immortali”: è una forma di amore. Il primo a cui rendo omaggio è Virgilio, poi si affaccia Orazio, poi il Dante del Purgatorio, per la poesia della montagna e della vita nel tempo, e poi autori moderni come Emily Dickinson o Kafka o la Yourcenar e tutti quelli a cui ho rubato qualche parola o un verso o un titolo – non per superbia, per innalzarmi al loro livello, ma per riconoscere il mio immenso debito con loro. Ma il mio grande amore è la cultura tedesca, la musica e soprattutto la lingua tedesca, che ho incontrato al terzo anno di università e di cui mi sono innamorata. Vale anche per me quello che dice Borges, nella lirica Alla lingua alemanna (da L’oro delle tigri)

[…] ma sei tu, dolce lingua di Germania,
che io ho scelto e cercato, in solitudine.
Attraverso veglie e grammatiche,
attraverso la giungla delle declinazioni
e il dizionario, che non azzecca mai
la sfumatura precisa, mi sono avvicinato.
[…] Tu, lingua di Germania, sei la tua opera
capitale: l’amore intrecciato
delle parole composte, le vocali
aperte, i suoni che permettono
l’accurato esametro del greco
e il tuo rumore di selve e di notti. […]

Forse le mie “selve” vengono anche da qui…»