“Offerta musicale la poesia”

Gabriella Mongardi e Stefano Casarino

Gabriella Mongardi e Stefano Casarino

STEFANO CASARINO

La mia è, come sempre e come sa chi mi conosce, una lettura personalissima, senza nessuna ambizione esegetica, e risente certamente di un processo di appropriazione, più o meno legittima, e, spesso, di sovrapposizione. In questo caso, del libro Silvae di Gabriella Mongardi (Giuliano Ladolfi editore 2019).
Ma credo che ciò succeda proprio quando l’opera ti ha detto qualcosa, ti ha parlato e ti ha fatto venire voglia di rispondere. E questo è il primo, più importante, successo di Gabriella, perché un’opera d’arte che non modifichi in nulla la nostra vita, che non resti in un angolo della nostra memoria, non esiste per noi, non è un’opera viva (Montale).

Il titolo di questo libretto è latino: di questi tempi, ci vuole coraggio! Vero è che qualcuno ha intitolato recentemente qualcosetta in greco… della serie, c’è sempre chi fa peggio!
Il titolo è comunque già una precisa indicazione di lettura: non tanto per il riferimento all’autore che tale titolo aveva già impiegato (come ricordato nella Presentazione di Ladolfi, è Stazio, amato da Dante e dal Medioevo, e non molto da noi oggi) quanto per due motivi sui quali insisterò: l’animus classico, la formazione umanistica, e il poliglottismo, l’utilizzo di più lingue: latino appunto, ma anche tedesco e francese (ci sono liriche scritte in queste lingue) e potremmo anche ricordare l’inglese, dal quale Gabriella traduce la Dickinson, e che utilizza per un titolo, Dreamcatcher.

C’è quindi anzitutto un’autentica passione per la/le lingua/e, per quella Babele che secondo George Steiner non fu una punizione, ma un dono divino!
Restando al latino e nonostante il titolo, non credo sia Stazio l’autore di riferimento, ma piuttosto Virgilio, sia per l’epigrafe premessa (Si canimus silvas) che per la prima lirica che rimanda alla Fabula Orphei: la povera Euridice dice (ordina? supplica?) a Orfeo che debbono andare, che non si deve voltare indietro.
Invece, e lo sappiamo proprio da Virgilio, Orfeo si volterà: perchè?
Per troppo amore, dice il Mantovano.
Perché ha visto il nulla, sostiene Pavese ne L’inconsolabile (dai Dialoghi con Leucò): un collega-cantatutore, tale Roberto Vecchioni, darà voce ad entrambe le teorie nella sua bellissima Euridice.
Euridice vorrebbe continuare ad andare, procedere con passo leggero: nella seconda lirica, In punta di piedi, si ribadisce il concetto.
Proprio questo mi sembra, da amico e da lettore, il percorso umano e poetico di Gabriella: c’è chi va sempre di corsa, chi si fa largo spingendo e travolgendo (spesso anche restando travolto) oppure chi fa soste frequenti, chi indugia e magari si perde (come il sottoscritto!).
Gabriella procede con garbata regolarità, leggera eleganza e discreta tenacia. Schritt für Schritt, dice in tedesco il terzo titolo, respirando einen Hauch Ewigkeit, un attimo di eternità.

Cos’altro è la poesia, in definitiva?
Definirla è, secondo me, ucciderla: esattamente come si fa quando si cattura una farfalla e la si infilza per conservarla.
Un’attività un po’ infantile e un po’ criminale. Del resto, la farfalla infilzata è morta e fa pena, esattamente come la poesia troppo anatomizzata.
Aldilà di ogni pedante disquisizione, alla domanda di prima, legittima solo se posta con ingenuità, mi vengono in mente due risposte:
-  la poesia è “espressione”: di sé, anzitutto; un procedere dall’interno all’esterno; un’esigenza talvolta dolorosa, certo sempre faticosa, perché implica controllo e rielaborazione, se non si vuole risultare velleitari;
-  la poesia è “comunicazione”: rivela l’intenzione, volontà, più o meno audace  di raggiungere gli altri, un pubblico ideale che si ha comunque in mente. Quale pubblico? Amici, conoscenti, persone coi quali si ha, si vorrebbe avere affinità? Oppure i “cori gentili” di stilnovistica memoria? Di questi tempi?
Personalmente mi basterebbe un pubblico di “lettori disoccupati”, nel senso del prologo del Don Qujote, cioè di chi non abbia niente di meglio da fare, ma  che sia “curioso” di conoscere la lanugine dei sogni che resta intrappolata nella ragnatela dei versi, per usare una bella immagine della nostra Poetessa.

Come la costruisce Gabriella questa ragnatela?
Quali sono i suoi  “ingredienti”?
Mi limito a citarne qualcuno: l’erba secca (che ritorna come suono e come simbolo); lo sbuffo di nebbia (cantata anche in francese: le brouillard qui emplit mon coeur de douceur!); l’acqua che chioccola nella fontana (una reminiscenza palazzeschiana?); anche tanto mare.
Le stagioni preferite mi sembrano essere l’autunno e l’inverno, perché la mappa della primavera è sempre da inventare  e lei afferma di non saperla decifrare.
E gli stati d’animo?
Su tutti, direi l’attesa (ti aspetterò col batticuore / come se fossi ancora adolescente); l’attesa di un Natale che deve sempre ancora venire e più ancora la volontà dell’attesa (vd. Giga). Poi lo stupore (il thauma platonico?): della bimba che guarda il padre giocare a scacchi e della donna adulta che constata che la vita si costruisce per approssimazioni successive, proprio come la poesia.
C’è anche un monito da non trascurare, quello a donare con gratitudine il nulla che v’appartiene.
In questo nulla, che appartiene a noi tutti, dobbiamo continuare a procedere: le Silvae – lo si comprende nell’ultima lirica che, in una sorta di Ringkomposition, riprende l’iniziale invito di Euridice sono il bosco impenetrabile che ci attende.
Quello della vita? O quello della morte? Verso dove si dirige il nostro procedere?
Certo che non si vede nessuna traccia, né quella che lasciamo (che vorremmo lasciare noi) né quella della fine del nostro viaggio (nessuna uscita a riveder le stelle, per dirla col Sommo Poeta).
In una straordinaria lirica, una delle più belle del Novecento, Montale, invece, individuò la fine del viaggio nella Casa sul mare.
Forse ma è solo una mia personalissima opinione quella poesia è riecheggiata nella mente di Gabriella, mentre componeva i suoi versi.

Nella sua raccolta poetica domina certamente l’eufonia, la musicalità (né potrebbe essere diversamente, per un’amante di Bach e Mozart!).
E certo vi è un sapiente uso della tavolozza dei colori e vi sono immagini che colpiscono. Ma questa è la superficie.
Dietro e dentro vi è una sensibilità di lettrice onnivora, che non poteva non trasformarsi in autrice.
Dietro e dentro vi è, come dicevo, un animus classico, che sa raccordare gli echi del passato ai suoni del presente.
Dietro e dentro vi è un’anima che ricerca e vuol dare conforto, costruendo per sé e per noi, suoi lettori, ein Strohnest, un nido di paglia: che è, secondo lei, tutto ciò che ci serve. E credo che abbia proprio ragione.

(foto di Bart Jonker)