Diario di una giovinezza, ventesima puntata

Stalag IA Stablack, da Wikipedia

Stalag IA Stablack, da Wikipedia

FELICE BACCHIARELLO

4 novembre 1943

Una giornata che mi è rimasta veramente impressa del suddetto periodo è appunto il 4 novembre 1943, anniversario della vittoria italiana del 1918. Forse per vendicarsi di quel lontano 4 novembre, al mattino all’ora della sveglia, irruppero nelle baracche tutti i soldati alemanni del campo come forsennati, battendo a colpi di fucile ognuno che capitava loro dinnanzi, alzato o coricato. Se alzato, veniva battuto perché già in piedi fuori orario, se coricato, perché non ancora in piedi all’ora della sveglia.

In pochi minuti vollero le baracche in perfetto ordine e tutti gli uomini radunati in cortile per “l’appello”. Naturalmente, data la celerità pretesa, molti erano i ritardatari, per i quali senza pietà senza parsimonia vennero distribuiti altri colpi con il calcio del fucile; sembravano impazziti quella specie di esseri umani.
Per oltre un’ora fummo tenuti adunati, al solo scopo di farci tremare dal freddo. Era una giornata di lavoro agli sbarramenti anticarro. Come al solito, molti si nascosero in ogni possibile nascondiglio, onde sottrarsi al lavoro. La giornata era cattiva pertanto, riscontrato che il numero di uomini sul luogo di lavoro non corrispondeva a quello effettivo, detratti i servizi, si riversarono nuovamente nel campo tutti i soldati disponibili girando di baracca in baracca a cacciare fuori sani e malati che vi avessero trovato dentro, sparando fucilate all’impazzata e menando colpi di baionetta. Ne risultarono tre feriti.
Adunati così nel bel mezzo del cortile, dinnanzi all’entrata era puntata contro di noi una mitragliatrice pronta per il fuoco, con il mitragliere in posizione di sparo. Non sto a dire il panico causato da tale vista, per il fatto che si sapeva di essere con gente capace di tutto, perché per loro sarebbe stata una fregata qualunque spazzarci via tutti con qualche raffica di mitraglia. Sotto tale incubo, parecchi, terrorizzati dalla vista e dal pensiero, svennero.
Poteva essere solo un intimorimento, ma se del caso lo avrebbero fatto con tutta facilità, per pura soddisfazione di uccidere. Cosa si doveva noi sperare di bene da simili delinquenti?
In tal modo festeggiai il 4 novembre 1943.

Essendo la Prussia la zona più fredda della Germania, faceva quivi di già un freddo come da noi normalmente d’inverno, tanto che a tutte le altre sofferenze si aggiungeva ancora questa, perché si era quasi privi di abiti e coperte; ma per questo meno male: si era tanto costretti a sovrapporsi gli uni agli altri da scaldarci ugualmente, anche se quasi senza sangue nelle vene.
Molti, piuttosto di continuare un simile martirio, preferirono il rischio dell’arruolamento nelle forze repubblichine. Altri, quando si preparavano spedizioni per i campi di lavoro, pur in zone pericolose, si offrivano spontaneamente, anche arrischiando il peggio, sorretti dalla sola speranza di migliorare in qualcosa.
Gli ultimi rimasti, circa 500, evacuammo il campo il giorno 11 novembre. Quanto freddo quel giorno!
All’arrivo in questo campo la maggioranza di noi era fornita di orologi, penne stilografiche, anelli, ecc. All’uscita pochissimi erano coloro che avevano potuto far fronte alla fame salvaguardando tali valori per eventuali occasioni peggiori che si fossero presentate. Mio fratello ed io eravamo riusciti a conservare gli orologi.
Talvolta avveniva che un sottufficiale tedesco addetto alla cucina smaltisse fuori dal magazzino parecchi chili di pane, cambiandolo in orologi, penne, anelli d’oro e fedi, approfittando della crisi prodotta dalla fame da loro stessi cagionata per soddisfare le loro cupidigie, ma per colmo di sventura, allorquando una quantità di viveri era stata dallo stesso sottratta al magazzino, per tale vile e illecito commercio venivamo incolpati noi prigionieri di essere penetrati nottetempo nel magazzino della cucina ad asportare quanto era denunciato mancante. La cosa veniva riportata al comandante e ne conseguiva una perquisizione a tutto il campo per cercare il pane che non c’era, approfittando ancora di simile occasione per asportare altri oggetti di nostra proprietà.
Erano divenuti rapaci oltre ogni limite e non è affatto giusta l’affermazione che molti si lasciano spesso sfuggire, cioè che l’italiano sia venale, rapace, ladro più di ogni altro popolo, perché avendo vissuto a più riprese con masse di uomini di almeno altre dieci nazioni non saprei proprio su quale puntare per primo il dito accusatore.
Certo la mia ammirazione non si fermerebbe certo sul tedesco, sull’inglese e nemmeno sul francese, tanto meno sul belga Flamel ed Olandese, popoli che all’occorrenza si sono dimostrati peggiori del tedesco. Lascio come attenuante a loro favore la miseria che può sospingere oltre assai di quanto la volontà stessa vorrebbe.

La cosa si risolveva poi in una punizione a tutto il campo innocente, la quale consisteva nel far restare tutti senza pane per un giorno, così non solo veniva recuperata la razione denunciata mancante perché era servita ad estorcere ai prigionieri del campo ogni oggetto di valore, i ricordi più cari, le fedi, ma veniva formata un’ottima scorta per continuare con mezzi maggiori il turpe commercio.
Tutti quegli oggetti dovrebbero bruciare nelle mani del possessore, come un giorno le monete del Sinedrio bruciarono in quelle del traditore Giuda.
Affermava mio fratello, il quale vedeva da vicino tale traffico, di aver visto per ben due volte in due mesi il sottufficiale addetto alla cucina andare ogni volta a casa con una valigia di discrete dimensioni, piena zeppa di tali oggetti estorti a noi italiani.

(Continua)

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