Una donna nel Lager

lesile-filo-della-memoria

GABRIELLA MONGARDI

«Un romanzo. Una testimonianza. Una storia privata. Un momento cruciale del destino e della memoria collettiva di una generazione. Una voce da salvare: la guerra e la pace raccontate da una donna.» Così nella quarta di copertina viene presentato L’esile filo della memoria – in modo un po’ bizzarro, direi. Perché questo non è un romanzo, ma appunto una testimonianza. Testimonianza non di una storia privata, ma appunto di un momento – orribile, più che cruciale – della memoria collettiva non già di una generazione, ma di tutti noi Europei. Che continua a interpellarci: «Che cosa avrei fatto io, se fossi vissuta in quegli anni? Sarei stata vittima o carnefice, o complice dei carnefici? Avrei avuto la forza e il coraggio di Lidia, di fare la staffetta partigiana prima, e poi di sopravvivere a Ravensbrück, di ritornare in Italia, di avere un marito, un figlio, un lavoro – insomma, una vita “normale”, dopo aver vissuto l’esperienza disumana del Lager?».

Dopo aver pubblicato insieme con Anna Maria Bruzzone, nel 1978, sempre per Einaudi, una raccolta di testimonianze di donne deportate, Le donne di Ravensbrück, in questo volume Lidia Beccaria Rolfi (1925-1996) narra in prima persona, circa vent’anni dopo il primo scritto, l’odissea del ritorno a casa.

La sua è una scrittura sobria e precisa, del tutto scevra da intenzioni “romanzesche”: il movente che l’ha indotta a rievocare, dopo cinquant’anni, le sue vicissitudini è una forma di coraggio civile, la consapevolezza che il silenzio avrebbe avuto qualcosa di omertoso, sarebbe stata una rimozione pericolosa per la tenuta della civiltà europea. Non si può vivere come se nulla fosse accaduto, le colpe dei padri ricadono fatalmente sui figli se questi non accettano di “sapere”, di venire informati su quella pagina buia della storia recente d’Europa da chi l’ha vissuta sulla propria pelle. Al dovere del testimone di parlare/scrivere corrisponde il nostro dovere di ascoltare/leggere il suo racconto. Tanto più che questo libro, uscito da Einaudi a gennaio 1996 nei giorni in cui l’autrice moriva, ne costituisce, di fatto, il suo testamento spirituale.

Il racconto della Beccaria si apre con la trascrizione del foglietto con gli appunti presi, da lei ventenne, il 26 aprile 1945, ultimo giorno di permanenza a Ravensbrück, ed è suddiviso in tredici capitoli. I primi sei, che mantengono un’impostazione diaristica, narrano le varie “tappe” del viaggio di ritorno, di come Lidia e gli altri compagni di sventura (deportate e internati militari) passino dalle mani dei russi a quelle degli americani e poi degli inglesi, sostando a Hagenau, Lubecca, Amburgo, Innsbruck prima di arrivare in territorio italiano, a Milano, a Torino, a Cuneo e infine, l’1 settembre 1945, a Mondovì. I sette successivi narrano le difficoltà di reinserirsi nella vita quotidiana: la ricerca di un lavoro da maestra, l’assegnazione in sedi che nessuno voleva, il superamento del concorso e l’immissione in ruolo, l’iscrizione all’università, le elezioni, il soggiorno in Francia dalla sorella maggiore e dall’amica parigina incontrata a Ravensbrück: nelle ultime righe, l’accenno al matrimonio e alla nascita del figlio, il desiderio impossibile di dimenticare, di cancellare tutto.

Il filo conduttore della narrazione, quasi un “ritornello”, è il bisogno di raccontare a chi non sa e la constatazione del disinteresse degli altri, per non dire della loro “sordità”. «Capii che non avrei potuto raccontare. Non si racconta la fame, non si racconta il freddo, non si raccontano gli appelli, le umiliazioni, l’incomunicabilità, la disumanizzazione, il crematorio che fuma, l’odore di morte dei blocchi, la voglia di solitudine, il sudicio che entra nella pelle e ti incrosta. Tutti hanno avuto fame e freddo e sono stati sporchi almeno una volta e credono che fame, freddo e fatica siano uguali per tutti.»

Al motivo dell’impossibilità di raccontare si intreccia quello della parola negata alle donne in quanto tali, la sottolineatura ricorrente dello “svantaggio di genere” che le donne avevano perché donne, e la denuncia dell’arretratezza culturale della società di provincia, soprattutto di quella italiana, infiltrata in profondità dal maschilismo fascista. «Io, la festeggiata, sedevo in un angolo del tavolo, cercavo di inserirmi nei loro discorsi, di raccontare la mia marcia della morte, ma non mi davano la parola e non sapevo come fare per interromperli.»

Lidia non emette sentenze esplicite di condanna, si limita a lasciar parlare i fatti: ma il contrasto tra il dover essere e l’essere, tra il risarcimento che sarebbe toccato a esseri umani così provati e il trattamento che nella maggior parte dei casi hanno ricevuto, anche in famiglia, è stridente e ancora ci urta: con un totale ribaltamento della realtà, essere stati imprigionati in un lager è stato considerato quasi una colpa delle vittime, non del “sistema” che ha creato i lager e degli aguzzini che li gestivano…

È inevitabile accostare questo libro a La tregua di Primo Levi (Einaudi, Torino 1965): anche in Levi compare fin dalle prime pagine il motivo della delusione di fronte all’ “accoglienza” riservata ai sopravvissuti di Auschwitz, e soprattutto quello della «valanga di cose urgenti da raccontare al mondo civile»; anche La tregua narra l’odissea di un ritorno ancora più lungo, ancora più ritardato e procrastinato dalla «indecifrabile burocrazia sovietica […], sospettosa, negligente, insipiente, contraddittoria, e negli effetti cieca come una forza della natura»; anche il secondo libro di Levi non racconta più “cose tremende, fatali e necessarie”, ma “avventure allegre e tristi”.

Proprio questa è la differenza fondamentale fra i due libri, forse dovuta a ragioni “di genere”, come si direbbe oggi, o forse alla mentalità di scienziato di Levi, o alla sua vocazione di scrittore: il suo distacco dalla materia narrata, quasi esibito, a cui si oppone invece l’aderenza, il “contatto impassibile” della Beccaria Rolfi. Come dichiara Levi stesso alla fine della sua introduzione, il suo atteggiamento è quello dell’obiettività, cioè l’abitudine «al riconoscimento della dignità intrinseca non solo delle persone, ma anche delle cose, alla loro verità, che occorre riconoscere e non distorcere, se non si vuole cadere nel generico, nel vuoto e nel falso», e questo atteggiamento si traduce in descrizioni precise dei luoghi attraversati, delle persone incontrate, che emergono dalle sue pagine con nitida concretezza, facendoci quasi dimenticare le circostanze e le ragioni di quei viaggi, di quegli incontri. E sembra quasi che le dimentichi anche il narratore, regalandoci scenette davvero gustose, come quella del mercanteggiare con gli abitanti di un villaggio russo per avere una gallina e un passaggio fino al prossimo villaggio, dove si trovava un altro campo di raccolta.

Niente di tutto questo in L’esile filo della memoria, ma appunto l’ostinata volontà di ricostruire le tappe di un’insensata via crucis, che tale è stata e come tale va riferita. Senza cedere alla commozione, senza piangersi addosso, ma senza mai dimenticare che non è stata un’avventura nel senso divertente del termine, bensì una questione di vita o di morte, aggravata, per una donna, dal rischio sempre incombente della violenza sessuale: perché «gli uomini in guerra non vanno tanto per il sottile, va bene tutto, vanno bene anche gli scheletri». In questo mondo «fatto solo per gli uomini abituati a combattere, pronti da sempre a partire e tornare dalla guerra» alle donne è richiesta una forza d’animo, un coraggio che gli uomini non hanno, per cavarsela: Lidia ne è pienamente consapevole e lo sottolinea più volte. Non per niente il suo racconto, a differenza di quello di Levi, non si ferma all’arrivo a casa, ma include anche le tappe successive dell’inserimento nel mondo della scuola: perché è solo attraverso il lavoro, cioè l’indipendenza economica, che una donna conquista la sua autonomia personale e su questa base può instaurare un rapporto paritario con l’uomo. Anche nel lavoro Lidia dimostra il suo coraggio, il suo anticonformismo: non solo affrontando i disagi di sedi isolate e scomode, ma soprattutto rifiutando di lasciarsi condizionare dal perbenismo ipocrita dei superiori e puntando tutto su se stessa e sullo studio.

Per me, che l’ho conosciuta personalmente, rimane un mistero il titolo del libro: è un libro di memorie, sì, ma “il filo della memoria” di Lidia non era certo “esile”; lei era una donna energica e combattiva in tutto, e la sua era una memoria salda e tenace, il primo strumento della sua lotta per testimoniare “che questo è stato” – come scriveva il suo amico Primo.

LIDIA BECCARIA ROLFI, L’esile filo della memoria, Einaudi, Torino 1996