Diario di una giovinezza, diciottesima puntata

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FELICE BACCHIARELLO

Si passò così la prima notte di “prigionia in casa nostra” in un pandemonio indescrivibile. Altro che soggiogare il mondo! Malsane idee di esaltati che avendo pagato per essere osannati, furono tanti i clamori ad assordarli.
Il mattino seguente la popolazione di Merano faceva ressa alle cancellate ed alle ringhiere circostanti per porgere viveri e saluti ai propri cari. Erano conoscenti, amici, ma specialmente mogli di militari ivi rinchiusi, le quali dimoravano in Merano. Altro susseguirsi di scene strazianti, donne costrette a contemplare il triste spettacolo dei loro cari rinchiusi come bestie feroci, aggirantisi per quell’enorme cortile come leoni al serraglio. Si era guardati a vista dagli assassini delle SS tedeschi coadiuvati dai non abbastanza vili Atesini, spergiuri e venduti.
In questa occasione ebbi a constatare bene quale fosse l’animo dei nostri “Camerati alleati”. Essi non volevano nemmeno permettere il reciproco confronto tra la folla esterna e quella interna respingendo l’una e l’altra con le armi. Uomini nei cui petti doveva esserci un blocco di marmo al posto del cuore.
Infatti avvenne che un sergente maggiore dell’esercito, attardatosi con sua moglie al cancello, dopo che gli era stato intimato di ritirarsi, fu cinicamente freddato sul colpo dinnanzi agli occhi della stessa moglie da un imberbe e volgare delinquente, educato alla perfezione secondo gli intendimenti di Hitler.
L’odio verso la razza non mai abbastanza aborrita aumentava e si faceva strada nei nostri cuori pur non abituati all’odio e lo stesso ci accompagnò per sempre, poiché si vedeva in quella, non la volontà di mantenere la disciplina necessaria per tenere in efficienza una nazione, bensì innata barbarie, che si soddisfa unicamente con la sofferenza altrui.

Verso mezzogiorno, fatti uscire sulla strada, fummo incolonnati a righe di sei in un’unica colonna, carichi, se non di altro, almeno di mele dateci dalla popolazione italiana (Merano è abitata da una parte di veri Italiani e dall’altra di filotedeschi, due diverse correnti che si guardano in cagnesco), tra le lacrime di commiserazione, mentre la popolazione tedescofila guardava con soddisfazione gli aguzzini tedeschi elogiandoli per la loro bravura, agendo insomma verso di loro come con noi agiva la popolazione dalla nostra parte.
Quanto è avvilente il vedersi sorvegliati; uomini da uomini, con il fucile alla mano, non solo senza possibilità alcuna di reagire ma nemmeno di esprimere la più logica volontà. Eppure tale avvilente subordinazione doveva durare per mesi e mesi, e sempre con maggiore peso.
Percorrendo la strada che dalla bella Merano segue il corso dell’Adige, compiendo circa trenta chilometri di cammino a piedi, stanchi e sfiniti si arrivò a Bolzano ove attendevano le tradotte pronte a portarci in prigionia. I nostri stessi treni dovevano servire per portarci lontano dalla patria, dalle case nostre, prigionieri.

Quale lotta nello spirito in quei momenti e quanto avvilimento! Questo doveva essere il risultato di tutti i sacrifici sopportati da ognuno in lunghi anni di guerra, di tanto sangue versato dai nostri soldati sui vari campi di battaglia! Non solo vilipesi e maltrattati, ma prigionieri nella nostra stessa terra.
Non sto a dirlo, lascio immaginare quale fosse lo stato d’animo in tal momento.

Nella stazione di Bolzano, a furia di urla in idioma a noi sconosciuto e di sgarbati spintoni, fummo fatti salire come tante bestie, da quaranta a cinquanta uomini per ogni vagone merci. Compiuta tale operazione, furono chiuse e impiombate dall’esterno le porte dei vagoni stessi, proprio come si fa per le spedizioni del bestiame da macello.
Così si rimase non solo privi della libertà, ma anche di luce e aria. Partì la tradotta quasi subito. Nella fermata al Brennero da uno dei quattro finestrini posti alle estremità superiori del vagone il servizio di guardia tedesco si degnò di distribuire la prima razione di viveri toccataci in prigionia, consistente in una di quelle famose pagnotte tedesche, nere, dal perso di circa 1 chilo e 800 grammi, per ogni vagone. “Una fra tutti” gridava il distributore. lascio ad altri immaginare lo stordimento causato da una simile distribuzione di viveri.
La rassegnazione subentrava alla speranza. Non assuefatti a simile razionamento, lì per lì si temporeggiò sul modo di distribuire la pagnotta, nella cui confezione dubito entrasse farina di grano, ma poi, essendo diverse le idee come le teste, gli umori e gli appetiti, si procedette alla divisione e susseguente distribuzione. Non credete sia stata cosa tanto semplice come potrebbe sembrare. Si contò quanti eravamo nel vagone: 48; con un coltello ben affilato, dopo un attento studio ed esame, uno dei 48 si assunse la penosa e rischiosa impresa di dividere in altrettante parti uguali e distinte il pane, mentre 96 occhi protesi innanzi seguivano l’operazione come gli assistenti seguono il chirurgo nell’atto operatorio, e forse con maggiore attenzione, nonostante la fame non avesse fatto ancora sentire i suoi stimoli come avrebbe fatto in seguito, avendo alcuni ancora mangiato qualche mela. Ognuno seguiva poi con occhio attento la distribuzione delle particelle, sgranando tanto d’occhi e confrontando con la propria, quando quella toccata al compagno gli fosse parsa più grande della sua.
Non sto a dire il tempo che sia occorso per la divisione e la distribuzione, senza “camorra” o “sbaglio”, di siffatta razione di viveri e con quale celerità invece sia scomparsa dalla scena.
In mezzo a tutto quanto vi era di triste in quel vagone, questo primo importante atto riuscì meno male del previsto e senza incidenti. Si era ancora mezzo civili, nonostante da parecchi giorni non tutti avessero soddisfatto lo stomaco ogni qual volta lo avesse richiesto.
Rassegnati al triste destino che ci si preparava dinnanzi, demoralizzati e sgomenti per l’accaduto e più ancora per l’ignoto cui si andava incontro e che non si presentava affatto incoraggiante, con la testa che era un turbine dei più cupi pensieri, automi semoventi, si cercò una sistemazione per la notte sul duro pavimento del vagone, ancora puzzolente del fetore degli animali che vi erano stati in precedenza rinchiusi: impresa non meno ardua della precedente, poiché ognuno può capire come la superficie di un normale vagone bestiame possa contener coricate circa 50 persone, mentre sarebbero già troppe la metà. Qui, causa la fame che incominciava a farsi veramente strada ed a tutti gli altri inconvenienti che la accompagnavano, l’uomo cominciava a diventare stizzoso, insofferente di qualsiasi contrarietà causatagli dal vicino. Così per tutta la notte fu un susseguirsi di litigi, spintoni, calci, insulti, imprecazioni e bestemmie.
Era umanamente impossibile riposare. Qualcuno era riuscito ad arrotolarsi, tal altro erasi seduto sullo zaino, se l’aveva, o sulla gavetta; ognuno aveva una posizione sua particolare, nuova nell’arte di riposare. Tale inferno durò per tre giorni e tre notti, il periodo cioè che si rimase su quel vagone, sul quale eravamo saliti senza biglietto.
A nulla valse battere sulle pareti del vagone, perché fosse aperto onde ognuno potesse scendere per i suoi bisogni corporali. Anche questo era negato. Ad ogni richiesta rispondevano minacce e insulti da parte dei nostri aguzzini. In conseguenza di ciò, lascio ad ognuno immaginare in quale stato si fosse ridotti in quel vagone, e così in tutti gli altri.
Non mi dilungo in particolari perché ancora oggi mi si rivolta lo stomaco al solo ricordarli.
Solita conseguenza del cattivo nutrimento, della fame, dello strapazzo fisico e morale, aggravando di molto la nostra situazione già disperata, fece la sua apparizione una generale dissenteria. Tre giorni e tre notti d’infermo inimmaginabile, nel tanfo di quel sudicio vagone.

Il secondo giorno, già inoltrati nell’interno della Germania, in una grigia stazione resa ancora più triste dal grigiore del cielo e dal fumo delle ciminiere circostante, aperto un vagone per volta, fummo fatti scendere il tempo necessario per la distribuzione di una brodaglia che otto giorni prima avrei vista rifiutare da un cane abbastanza affamato. Chi fu più svelto riuscì a prenderne anche una metà di una normale scodella. Altro pane come il precedente completò il lauto pasto.
Con quale ghigno beffardo di soddisfazione gli addetti alla distribuzione e le guardie unitamente a qualunque altro occasionale spettatore, ci guardavano accavallarci, spingerci ed urtarci per arrivare a quella poca brodaglia, forse poco più che lavatura delle marmitte nelle quali era stato confezionato il rancio la sera precedente.

Nuovamente rinchiusi nel nostro puzzolente vagone, con maggiore avidità e impazienza avvenne la divisione e la distribuzione del pane, sempre nella stessa misura, mentre i più vicini al luogo in cui questo era stato tagliato, a suon di botte di contendevano le briciole sparse sul pavimento sporco del vagone.
In tali condizioni poco o nulla si poté seguire il viaggio; solo sbirciando dai finestrini stretti si vedevano le lunghe ciminiere elevantisi sopra i tetti anch’essi neri di fuliggine. Per la terza volta forse attraversavo le stesse zone, passavo nelle stesse città, ma sempre ogni volta in peggiori condizioni.
Pareva che il viaggio non dovesse finire più. Infatti ci si stancherebbe presto di vivere se ogni giorno fosse penoso e lungo come ognuno di quelli. A quale punto devesi trovare a volte una persona nella vita… Per buona fortuna non ci è dato di prevedere il nostro futuro!. Così, sorretti da una speranza anche vana, ci si fa coraggio, sforzandoci di conservare la vita.
Si arrivò, dopo circa 70 ore di continuo cammino, nella lontana Prussia Orientale, a Stablack, Stalag 1A, ove questa confina con la Polonia e la Lituania. È questa la terra d’origine dei tedeschi, dei grandi conservatori, sede degli imperatori.

(Continua)

Foto tratta da http://www.televignole.it/stragi-nazifasciste-in-alto-adige/

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