La tragedia balcanica degli anni Novanta

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STEFANO CASARINO

In questo momento storico l’Unione Europea non gode certo di particolare favore e suona vana, se non fastidiosa la voce di chi ricorda che il suo principale merito è stato quello di aver garantito (finora) settantatré anni di pace nel Vecchio Continente (e per questo è stato insignita nel 2012 del Premio Nobel per la Pace).

Anche quest’affermazione, comunque, – vera se si fa riferimento ai principali Stati nazionali, quali Francia, Germania e Inghilterra che in pace sono davvero rimasti per tutto questo tempo, fatto assolutamente unico nella storia europea di sempre – deve essere corretta: non si è trattato di una pace “assoluta”, se non si vuole scriteriatamente dimenticare la serie di conflitti nella ex Jugoslavia scoppiati negli anni Novanta del secolo scorso.

Una tremenda pagina di storia, non ancora adeguatamente meditata, che ha rappresentato il primo, vero ed innegabile, fallimento dell’azione diplomatica e politica lato sensu dell’UE.

Per cercare di fare il più possibile chiarezza e riportare l’attenzione su queste guerre – soprattutto per le generazioni più giovani, per i ventenni/trentenni che di ciò raramente hanno sentito parlare, e non certo a scuola, stante l’incuria in cui versa da decenni l’insegnamento di tale disciplina, né presa in considerazione nei test Invalsi né particolarmente amata dagli ultimi Ministri e alti dirigenti del MIUR, almeno dai tempi di Luigi Berlinguer in poi – è stato organizzato nel pomeriggio di giovedì 15 novembre in Sala Scimé a Mondovì  dalla Sezione dell’ANPI di Mondovì (CN) e dalla Delegazione di Cuneo dell’AICC, in collaborazione con l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Cuneo, col Centro Studi Monregalesi, con Gli Spigolatori, l’Unidea, la Sezione Fidapa, il Liceo “Vasco-Beccaria-Govone” e col patrocinio della Città di Mondovì, il Convegno Nel cuore dei Balcani al tramonto del secolo breve.

Tre gli interventi:  ha introdotto il sottoscritto, con una premessa dal titolo Anche gli Stati muoiono: la fine della Jugoslavia; poi il Prof. Gigi Garelli, Presidente dell’Istituto storico della Resistenza, ha trattato il tema, quanto mai attuale, dell’artata identificazione dell’ “altro” come “il nemico” con una articolata relazione dal titolo, appunto, Come ti costruisco il nemico. La regione dei Balcani dal sogno di Tito all’incubo di Srebenica; infine il giornalista Marco Travaglini ha parlato, con commozione e da profondo conoscitore della cultura slava, della situazione di Sarajevo in particolare e di tutta quella martoriata zona, riprendendo molte considerazioni dal suo recente libro Bosnia, l’Europa di mezzo. Viaggio tra guerra e pace, tra Oriente e Occidente (Ed. Infinito, 2015).

Breve la vita dello Stato jugoslavo, durato nemmeno un secolo: dal 1918 quand’era Regno dei Serbi, Croati e Sloveni per passare al 1929 quando assunse il nome di Regno di Jugoslavia e per concludersi ufficialmente il 3 settembre 2003. In quel lasso di tempo, nel 1941 ci fu l’alleanza con Germania ed Italia, ma poi un colpo di Stato ruppe tale accordo e determinò l’invasione del Paese e ben dieci giorni di bombardamento ininterrotto su Belgrado, con conseguente resa dell’esercito e smembramento del Paese.

Sempre nello stesso anno, nel 1941, iniziò però anche la guerra di Resistenza e si creò il 27 giugno il comando supremo delle formazioni partigiane guidate dal capo del Partito Comunista, Josip Broz Tito: ancora molto discussa e tutta da studiare sine ira et studio la complessa vicenda dell’occupazione italiana di quei territori, che è passata dalla definizione di “occupazione allegra” – col carattere falsamente autoassolutorio della solita diagnosi di “Italiani brava gente” – a quella di Italiani “bruciacase”.

Il 28 novembre 1945 nacque la Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia, diventata nel 1963 Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia: significativo lo stemma, sei fiaccole (i sei gruppi etnici) a costituire un’unica fiamma (l’unità dello Stato), circondata da spighe di grano (riferimento all’agricoltura e al popolo lavoratore) congiunte in cima da una stella rossa (il Partito Comunista).

La Jugoslavia dapprima fu alleata dell’URSS, poi si defilò sempre più sino a mettersi a capo nel 1956 del movimento dei Paesi non allineati (l’allora detto “Terzo Mondo”), assieme all’Egitto di Nasser e all’India di Nehru.

Fu dopo la morte del Maresciallo (4 maggio 1980) che quello che Garelli definisce “il sogno di Tito” (certamente non immune da eccessi dittatoriali e da un culto della personalità percepibile persino in una filastrocca che suonava così: Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito),  cioè quello di mantenere unito un miscuglio di popoli rispettandone e valorizzandone le diversità, ebbe vita brevissima: fallì l’idea delle presidenze collegiali, escogitata per garantire l’assoluta parità dei popoli jugoslavi (davvero impressionante il numero dei  deboli successori di Tito, elencati rapidamente in successione e rimasti in carica ciascuno per brevissimo tempo), finché nel 1986 emerse la personalità di Slobodan Milošević,  che divenne capo carismatico e restauratore del tema della “Grande Serbia”, con slogan chiarissimi quali: “Serbia è dove c’è un Serbo”, vivo o morto, non importava.

Altre personalità  si distinsero progressivamente:  Franjo Tudjman, uno dei più giovani generali di Tito divenuto primo presidente della Croazia; Radovan Karadžić e Ratko Mladić, entrambi poi accusati di crimini di guerra e di genocidio… tutti personaggi che esaltarono i nazionalismi, arrivando a teorizzare la mostruosità della “pulizia etnica”.

Si passò così dalla pacifica convivenza di etnie e religioni diverse (i serbo-bosniaci ortodossi; i croato-bosniaci cattolici; i bosniaco-islamici) alla sistematica e delirante “creazione del nemico”, come  evidenziato da Garelli.

Dal 1991 iniziò il processo di proclamazione delle autonomie di Slovenia, Croazia, Bosnia, riconosciute l’anno dopo dall’ONU; dal 1991 al 1995 ci fu la guerra in Croazia, che si intersecò e sovrappose a quella in Bosnia (1992-5) con momenti assolutamente tragici:

  • l’assedio di Sarajevo (5 aprile 1992-29 febbraio 1996, protrattosi quindi oltre la fine stessa del conflitto, il più lungo assedio della storia del sec. XX, ben più lungo di quello di Stalingrado, durato dal 17 luglio 1942 al 2 febbraio 1943);
  • l’insensata distruzione del ponte di Mostar (9 novembre 1993: ne fu responsabile il generale Slobodan Praljak, che il 29 novembre 2017 fu condannato dal Tribunale dell’Aia a vent’anni di carcere per crimini di guerra: dopo la lettura della sentenza, Praljak ingurgitò una fialetta di cianuro e la sua morte fu ripresa in diretta dalle telecamere presenti in aula);
  • il massacro di Srebrenica (6-25 luglio 1995), quando l’esercito serbo-bosniaco agli ordini di  Ratko Mladić sterminò più di ottomila musulmani, maschi tra i 12 e i 27 anni, separati da donne e bambini e poi sepolti in fosse comuni, nonostante quella zona fosse stata dichiarata demilitarizzata e posta sotto la protezione dell’ONU.

Nel novembre 1995 l’Accordo di Dayton pose termine alla guerra e fu ratificato poi il 14 dicembre 1995 a Parigi, con la creazione di due entità distinte (la Federazione croato-musulmana e la Repubblica SRPSKA).

Oggi, quello che era un unico Stato è stato sostituito da ben sei Paesi: la Bosnia-Erzegovina con capitale Sarajevo; la Croazia con capitale Zagabria; la Macedonia con capitale Skopje; il Montenegro con capitale Podgorica; la Serbia con capitale Belgrado; la Slovenia con capitale Lubiana.

Marco Travaglini ha visitato tante volte Sarajevo e quei luoghi martoriati: la sua è una testimonianza diretta, da giornalista particolarmente sensibile agli aspetti umani. Tante le suggestioni e i momenti di commozione che ha trasmesso, foriere di riflessioni destinate a maturare in ciascuno di noi del pubblico.

Egli ha giustamente parlato di “psiconazionalismo” per spiegare come un solo popolo, quello slavo, dopo un lunghissimo periodo di coesistenza rispettosa e pacifica di diversi culti e tradizioni religiose, abbia potuto massacrarsi in modo così orrendo; ha insistito sul micidiale valore simbolico rappresentato dal bombardamento del ponte di Mostar, avvenuto nello stesso giorno (9 novembre) in cui solo quattro anni prima si era abbattuto il muro di Berlino: due abbattimenti che non potrebbero essere di segno più opposto.

Travaglini  ha evidenziato un’incredibile bizzarria della storia, la martellante ricorrenza di un’altra data, il 28 giugno, giorno di San Vito che è festa nazionale serba, quella che nel suo libro definisce l‘ossessione del 28 giugno e a cui dedica un intero capitolo (pp.147-151) da cui desumo:

-        28 giugno 1389: battaglia di Kosovo Polje (“il Campo dei Merli”), in cui i serbo-bosniaci al comando del principe Lazar Hrebeljanović – proclamato poi Santo dalla Chiesa ortodossa – furono vinti e sterminati dagli Ottomani, che inaugurarono così un dominio di cinque secoli su quelle terre. Esattamente sei secoli dopo, il 28 giugno 1989  Slobodan Milošević pronunciò un famoso discorso in cui risuonò un’affermazione sinistramente profetica: Sei secoli dopo, adesso, noi Serbi veniamo nuovamente impegnati in battaglie e dobbiamo affrontare battaglie. Non sono battaglie armate, benché queste non si possano ancora escludere;

-        28 giugno 1914: data famosissima, l’assassinio a Sarjevo dell’arciduca Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia in occasione della loro visita ufficiale proprio per la festa di San Vito ad opera del nazionalista serbo Gavrilo Princip. Fu il casus belli del primo conflitto mondiale, l’inizio di una serie impressionante di sciagure per tutto il Vecchio Continente;

-        28 giugno 1919: la firma del Trattato di Versailles pose termine alla Prima Guerra Mondiale, definita pace anfibia da Winston Churchill, perché di fatto pose anche le premesse per il secondo conflitto mondiale;

-        28 giugno 1921: fondazione da parte del re Alessandro del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni;

-        28 giugno 1948: espulsione del partito comunista jugoslavo dal Cominform e rottura insanabile tra URSS e Jugoslavia;

-        28 giugno 2001: consegna di Milošević al Tribunale Penale Internazionale dell’Aja. Verrà poi trovato morto nel carcere dell’Aja la mattina dell’11 marzo 2006: tre giorni dopo il Tribunale dichiarerà estinta l’azione penale, senza formulare alcuna sentenza. Un’altra vicenda oscura, sulla quale chissà mai se si farà chiarezza;

-        28 giugno 2006: il Montenegro è proclamato il 192esimo Stato membro dell’ONU.

Molte altre le considerazioni di Travaglini, ma credo sia importante soffermarsi sull’accorata analisi che egli ha fatto di Sarajevo, la città che ha “pesato” di più sulla storia dell’intero secolo breve, per usare la definizione di Hobsbawm, quella in cui si abbracciano Oriente e Occidente, nel cui centro stanno quattro luoghi di preghiera, uno musulmano, due cristiani e uno ebraico, a un centinaio di metri l’uno dall’altro, cosa che non esiste in nessun’altra parte del mondo: una città che ospitava un Islam laico, moderato, nella quale sino ancora ad una ventina di anni fa le donne musulmane non indossavano il velo.

Credo valga raccolto l’invito che Travaglini ci rivolge nelle ultime pagine del suo bel libro: Andate a Sarajevo, a Mostar, a Tuzla, s Srebrenica. Ma non andateci con gli occhi svagati dei turisti, ma di chi è disposto a vedere oltre l’apparenza, con la voglia di capire…[...] I Paesi della ex Jugoslavia non hanno ancora trovato stabilità ed equilibrio dopo la sanguinosa guerra degli Anni ’90. È una vicenda che ha radici ben più lontane se, più di cinquant’anni fa Winston Churchill commentava in questo modo la natura di quelle terre: “Gli spazi balcanici contengono più storia di quanta ne possano consumare”. Ci si accorge, senza troppa fatica, che lì nasce e termina, nel sangue, il secolo breve. Tutto finisce e tutto si capisce lì. Basta avere voglia di tenere gli occhi aperti e mente e cuore sgombri da pregiudizi.