Diario di una giovinezza, diciassettesima puntata

Avelengo (Creative Commons)

Avelengo (Creative Commons)

FELICE BACCHIARELLO

La cattura

Così disorientati, per quelle immense montagne sconosciute si vagò per tre giorni bivaccando la notte al riparo di una pianta, con la nuda terra per materasso. Alla fine, essendo il gruppo privo di viveri e di tutto quanto sarebbe stato di prima necessità, fummo costretti ad avvicinarci ad una malga avvistata nel sottostante pendio. Lasciato il gruppetto in una località coperta, a discreta distanza, scesi con un solo alpino, una ragazzo risoluto a tutto, nella malga, per acquistare pane, formaggio o qualunque altra cosa commestibile senza il timore di qualche agguato di bande armate. Portavo con me ancora una rivoltella carica; l’alpino era munito di bombe a mano.
Una donna di mezza età, grassoccia e rubiconda, dalla faccia maliziosa, ci accolse in sulle prime offrendoci un po’ di latte da bere, mentre dichiarava di non avere proprio nulla di più per appagare i nostri desideri. Bevuto il latte, dopo brevi insistenze atte a convincere la donna a venderci quello che tanto schiettamente negava di avere, ringraziammo e ci avviammo verso il punto di partenza sfiduciati. “Pure ho tanta fame”, mi disse dopo una cinquantina di metri di cammino il mio compagno, un ragazzo di appena vent’anni, “e non posso tornarmene indietro così, e parimenti hanno fame quelli che lassù ci attendono, torniamo dalla donna ed insistiamo con energia; la megera qualcosa tirerà fuori dalla catapecchia”.
Il discorso correva a fil di logica e non potei dargli torto. Temerarietà pagata cara! Appena fatto il dietrofront, rivolti gli occhi alla catapecchia, ecco apparire sulla porta della stessa due, tre, poi quattro e cinque brutti figuri con mitra spianato su di noi, forse usciti nell’intento di colpirci alle spalle a tradimento, i quali, vistici tornare sui nostri passi ci intimarono di arrenderci a loro. Stentai a trattenere il compagno dal lanciare su quei tristi ceffi, spie e satelliti dei tedeschi, le bombe a mano che già aveva fulmineamente impugnate, considerata inutile qualunque resistenza nostra, pressoché inermi di fronte a quelle canaglie armate di tutto punto fino ai denti di armi automatiche.
Ci affidammo al destino, fosse quello che volesse, la libertà ormai era una chimera. Puntandoci beffardamente le loro superiori armi in petto, ci tolsero quel po’ di armamento ormai inutile che ci restava, facendoci poi sedere presso un tavolaccio piantato in una specie di corte antistante la malga. Rimase a nostra guardia un campione di loro, mentre, nonostante le nostre sincere dichiarazioni di essere solo noi due nei pressi (sincere come quelle della padrona della malga, quando diceva di non avere nulla di commestibile da venderci), gli altri quattro si avviarono su per il monte e ne tornarono poco dopo seguiti dei nostri compagni di sventura; sfiduciati (erano quasi tutte reclute appartenenti all’ultimo scaglione di arrivati), affamati, non opposero resistenza alcuna, intimoriti dai pochi colpi sparati dai segugi venduti al nemico.
Unitasi così, nella nuova sventura, tutta la piccola squadra, quello che degli sbirri pareva il capo, entrato nella catapecchia, ne uscì dopo un bel pezzo seguito dalla padrona che, con il più diabolico e maligno sorriso di soddisfazione sulle labbra, distribuì ad ognuno di noi un pane e mescé una buona scodella di latte fumante; il tutto venne divorato avidamente senza battere ciglio.
Da tre giorni non entrava più nel nostro stomaco alcunché di caldo, e dopo quel frugale pasto offertoci gratuitamente dai nostri catturatori, ci parve odiarli meno.
Infatti constatammo presto che il loro scopo era quello, dopo averci catturati, di rendersi a noi meno odiosi possibile, per quanto le loro grinte lo permettessero.
Anche quello fa parte della maschera di falsità, sotto la quale lavora costantemente quella razza maledetta e prepotente sorella e compagna di tal arte, come nel sangue, di quella inglese.

Per il brullo pendio, percorrendo una stretta mulattiera, attraversando macchie di pini cadenti, in fila indiana, preceduti e seguiti dai nostri angeli custodi, al calar della notte, giungemmo in un piccolo borgo denominato Avelengo.
Condotti, contro ogni nostra aspettativa in un lussuoso albergo, pressoché deserto, ci fu nuovamente distribuito pane e mezzo litro di latte, il tutto divorato sempre con la stessa avidità.
I più cupi pensieri, però, si susseguivano nella nostra mente, le più tristi previsioni frullavano in ogni cervello, mentre triste si dischiudeva a noi dinnanzi il baratro dell’ignoto destino.
Così frugalmente rifocillati, fummo fatti salire su una funicolare, ermeticamente chiusasi dietro di noi, che attendeva a poca distanza e scavalcando un immenso burrone, seguendo poi il pendio del monte, si giunse, dopo una ventina di minuti che parvero un’eternità, nella città di Merano, ove altri sbirri spalleggiati dai soldati tedeschi attendevano per accompagnarci in un grande concentramento improvvisato nel cortile di una enorme caserma, che fino a poco tempo prima ospitava molti degli stessi attuali ospiti, allegri e spensierati, fiduciosi in se stessi, nella loro forza e speranza, ora, la prima domata e la seconda stroncata da un improvviso colpo di scena.
In quale condizione arrivai nella bellissima città, che tanti bramerebbero visitare e nella stessa soggiornare! Come per me sarà sempre funesto ricordo, inciso indelebilmente nel mio pensiero, il nome della città di Merano! In questo giorno, purtroppo, l’11 settembre, ebbe inizio quello che fu l’esodo mio e di altri 800 mila italiani, l’esercito italiano insomma, in mani nemiche e sanguinarie, in una terra tetra come l’anima dei suoi abitanti.
Appena introdotto nel grande cortile di questa caserma che per prima mi ebbe ad ospitare prigioniero, inerme in mano nemica, un senso di sgomento mi pervase da capo a fondo facendo fremere le più recondite fibre del cuore. Era notte da più ore e nel cortile, illuminato da potenti fari, una folla interdetta, incapace ancora di rendersi conto se effettivamente era desta o sognava, gridava, imprecava, vagava senza sapere dove andasse e cosa facesse. Il luogo era trasformato in un refettorio, in dormitorio, adibito a tutti gli usi per i quali ognuno avesse necessità.

In tale fermento di uomini, nella sventura ebbi la ventura di trovare qui mio fratello Natale, il quale mi aveva preceduto, anche lui spinto dal destino fatale, che ad ognuno aveva serbato la sua parte. Nello sgomento quale fu la gioia di ognuno di trovarci uniti nella sventurata situazione. Meglio vivere uniti nel dolore, che avere dovuto vivere nel dubbio, nell’incertezza, senza sapere l’uno dove fosse l’altro e come stesse, quale sorte il destino gli avesse serbato. Tale fortunato incontro fu di giovamento ad entrambi, in quanto per circa due anni uniti nelle peripezie più tristi, ci potemmo vicendevolmente e validamente aiutare a superarle. Così la nostra famiglia al momento attuale contava la bellezza di quattro membri prigionieri in terre diverse, a diversi destini, ma tutti accomunati nello stesso dolore, nella stessa vita di sacrificio.
Uno, Giuseppe, salesiano, in India (cinque anni di reticolato inglese); Donato in Africa (cinque anni pure) e noi due in Germania. Tutti si ebbe la buona ventura di far ritorno ad abbracciare la cara mamma, la quale pure nel frattempo sofferse il suo martirio morale.

Nel libro del destino stava scritto così.
Ogni avventura vissuta corrisponde ad un intero romanzo che ognuno porta scolpito nella propria mente a caratteri indelebili, che il tempo non potrà mai cancellare; solo alla morte sarà data tale potestà.

(Continua)

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