Il viaggio e il deserto in “Passaggio in Arabia”

Copertina

SILVIA LONGO (diario di bordo, in piena lettura)

L’idea di viaggio permea le opere di moltissimi autori, tra cui quelli citati da Silvia Pio nel titolo e nei due scritti introduttivi del suo libro “Passaggio in Arabia”: Forster, che scoprì la vocazione alla scrittura proprio in relazione al suo molto viaggiare, e Whitman che del viaggio si fece allievo: In viaggio per gli Stati partiamo (attraverso il mondo, spinti da questi canti, facendo vela da qui per ogni terra, per ogni mare) noi che vogliamo essere allievi di tutti, maestri di tutti, e di tutti amanti. Ci fermiamo un poco in ogni città grande o piccola, passiamo attraverso il Canada, il Nord Est, la vasta valle del Mississippi e gli Stati del Sud, ci consultiamo su eguali termini con ogni Stato, mettiamo alla prova noi stessi e invitiamo uomini e donne ad ascoltare. Diciamo a noi stessi: “Ricorda, non temere, sii candido, promulga il corpo e l’anima, sosta un poco e procedi, sii copioso, temperato, casto, magnetico, e ciò che tu hai sparso possa allora tornare come le stagioni ritornano, e possa essere proprio come le stagioni”.

Melville, autore di quello che forse è il romanzo più completo e perfetto nella storia della narrativa, “Moby Dick”, nell’incipit pone sulle labbra di Ismaele queste parole: Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto.

Il viaggio come senso, come fuga, come antidoto alla noia e al male di vivere, come esorcismo alla paura di morire o al richiamo potente di lei.

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Leggendo i versi di Silvia – per contrasto o analogia – mi si sono affacciati alla mente quelli di Emily Dickinson,  nella loro femminilità e purezza di intenti. I viaggi di Emily furono compiuti quasi esclusivamente con l’immaginazione o nel chiostro della sua stanza, nel giardino intorno all’ abitazione di famiglia. O nella poesia stessa, comunque luogo di altrove per eccellenza: con l’innovazione del verso (come le poesie a più voci), con le arditezze nell’uso dei segni di interpunzione e delle maiuscole. Alla sua scomparsa, la sorella trovò un quaderno di poesie scritte su foglietti, cuciti tra loro con ago e filo, onde formare un raccoglitore. Mi intenerisce questa premura, questo voler mettere ordine.

Le poesie di Silvia Pio, per tornare alla nostra autrice, compongono anch’esse un ricamo prezioso, i cui molti fili conduttori ci guidano in un percorso intimo e preciso. Io ne ho scelti due: quello del viaggio e quello del deserto.

I viaggi di Silvia sono in buona parte reali, compiuti cioè per davvero, a lunga o breve percorrenza. Davvero un andare altrove, quali che siano il fine e il movente. Il viaggio e la permanenza in Arabia, soprattutto, dove si è trattenuta diversi anni, nonostante lei definisca tutto ciò come un “passaggio”, come a indicare qualcosa di transitorio, di non definitivo, sebbene compiuto, come la nostra stessa esistenza: fugace, rapida e spesso vissuta soprappensiero.

Silvia Pio ha dunque abitato in Arabia per alcuni anni, il tempo utile per entrare in empatia profonda con la terra e con la gente. Il tempo per un’immersione completa che parte dall’esperienza sensibile (spesso ciò che di un luogo ci portiamo addosso è una somma di esperienze sensibili, rielaborate  nel durante e nel dopo). Dal semplice sperimentare sapori nuovi – un cibo, una bevanda -, alla contemplazione di altri orizzonti e paesaggi; dalla percezione di colori e movimenti di nuvole e sabbia all’ascolto di suoni, musiche e idiomi diversi.

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Mi chiedo quindi se viaggiare significhi davvero la ricerca del famoso altrove, o se altro non sia che un portarsi lontano dal quotidiano per restare soli con noi stessi, per sperimentarci in situazioni e  luoghi inediti, per scoprire altro di noi che solo nel non consueto possono venire alla luce. Un cercarsi con sincerità di intenti, dettato dall’urgenza di non potersi più ignorare. L’ignoranza di noi è del resto la prima fonte di infelicità, poiché conduce al non agire armonicamente con il nostro essere. Il viaggio dunque non come mèta, ma come mezzo:

Al vagabondo vero felicità è il viaggio
non per fuggire ma per cercare    

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Ecco che forse il vero paese straniero, addirittura ostile, siamo noi stessi. Quello di cui è più ostico cogliere accesso e architettura. Come un deserto, secondo grande tema della poesia di Silvia Pio.

Il deserto, per tradizione, è luogo privilegiato in cui incontrare noi stessi. Penso ai quaranta giorni di Gesù Cristo, prima di iniziare la sua missione. Nelle Scritture tutte l’immagine del deserto è più che mai presente e ricorrente: quale che sia il nostro credo religioso, siamo ben consapevoli di quanti simboli e archetipi derivino dai testi sacri.

In Osea leggiamo: Così dice il Signore:  Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Già nell’Esodo si era compresa la metafora: il popolo di Dio attraversa il deserto dove è sottoposto a molte prove, ma nel quale conosce davvero Dio e le sue Leggi, in cui sperimenta la  prova, la tentazione di abbandonare la fede, e la Provvidenza divina (la manna).  Ecco quindi che il deserto è l’archetipo del luogo perfetto della Rivelazione. Il luogo della solitudine, del silenzio, della scarnificazione dal superfluo, il luogo della sete. È la sete che spinge al nitore che cita Silvia. Il nitore della nudità dell’anima messa di fronte a se stessa. È luogo del miraggio, anche, che ci fa facilmente cadere nella rinuncia, così il “canto delle sabbie” è il canto delle sirene che invitano Ulisse a fermarsi, a non cercare più. Che gli fanno rischiare di incagliarsi.

Solo dopo l’immersione nel deserto (luogo fisico o metaforico che sia) e nel mistero che racchiude, si può tornare a casa. All’epoca delle grandi opere epiche classiche, come l’Odissea, con nostos si intendeva la narrazione del ritorno a casa degli eroi, dopo la guerra. Nostos significa dunque ritorno, e da questa parola deriva il termine nostalgia, e cioè il desiderio doloroso di tornare. Quella stessa nostalgia che proviamo quando ci sentiamo spossessati di noi stessi, quando abbiamo la sensazione di esserci persi di vista. Ecco, mi piace pensare che questa raccolta di poesie di Silvia sia nata dall’urgenza di un ritorno di lei a se stessa.

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Sullo stile vi sarebbe molto da dire, molto da apprezzare. La ricerca del suono, sempre, nei giochi di assonanze e consonanze, nell’esperienza del verso libero e della punteggiatura, a volte omessa, con una cifra personale di sperimentazione (che è parte dell’operazione di ricerca, anche in senso letterario).

Una libertà assoluta, ma solo in apparenza, perché immagino un lavoro attento di lima e di cesello, da parte dell’autrice, sui suoi testi. Che sono autentici distillati.

Dopo le avanguardie, dopo il Dada, molto è cambiato, tutto o quasi è stato compiuto in senso artistico. I canoni sono stati in buona parte rivisti, aggiornati, e il quadro è in continuo mutamento, tanto che difficile persino definire la parola poesia. Forse, allo stato attuale, poesia è riuscire a comunicare emozioni, portare gli altri nel nostro modo di respirare, nel nostro mondo interiore. Quello di Silvia è un mondo di piccole e grandi cose nel contempo. Dalla ricerca del senso, del movente al nostro percorso esistenziale, all’attenzione ai dettagli naturali e del quotidiano. Il microcosmo e il macrocosmo di una donna intelligente e sensibile: la semantica dei colori e il significato nascosto di una parola, di un gesto, di un granello di polvere.

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Interessante anche l’ibridazione, per cui se Silvia inserisce i versi di un autore arabo, all’interno delle sue stesse poesie, non si limita alla citazione, ma punta alla compenetrazione di senso e suono, affinché il tutto risulti coeso e uniforme. Così che, tra Arabia e Langa, non vi sia distanza culturale e affettiva, così che il passaggio risulti fluido. Un andare altrove per poi tornare alla geografia di origine: la Langa, trasfigurata in una nuova terra promessa. Una sorta di abbraccio in cui l’umano sentire si fa uno e unico. In cui Arabia e Italia, ogni luogo può esserci casa e insegnarci noi stessi e gli altri.

http://www.delbucchia.it/libro.php?c=403

I disegni presenti in questo articolo e quello di copertina sono Bavagrammi di Gianni Bava.

Silvia Longo è romanziera e poetessa. Margutte l’ha intervistata e ha pubblicato la recensione del suo romanzo.