Le parole sono pietre: scolpirle o tirarle? Dipende

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PAOLO LAMBERTI

In medio stat virtus: così mi sento di intervenire tra Gabriella e Franco che amichevolmente duellano sull’abuso delle parole.

Non posso che condividere il fastidio di Franco Russo verso il politically correct, una forma soft dei metodi di Goebbels; che sia un rigurgito di nominalismo medievale rovesciato? Res sunt consequentia verborum?

L’idea che basti cambiare un termine abusando della litote per cambiare la realtà è non solo sciocca, ma pericolosa: se come dice Gabriella Mongardi le parole sono connotative, se a destra la visione è quella di un videogioco sparatutto, a sinistra si connota una visione del mondo a metà tra l’ape Maia e il Mulino Bianco.

La lingua non può essere guidata dall’alto, come ben sapeva Graziadio Isaia Ascoli quando bacchettava gli stenterelli manzoniani; né può essere depotenziata, l’eufemismo nasce con la Controriforma, leggetevi Aretino per vedere cos’è il Rinascimento. Chiamare gay un omosessuale non cambia la sua condizione (al limite angoscia i non pochi piemontesi che portano il cognome Gay: e i loro diritti?), chiamare afroamericano qualcuno che ha comunque geni europei e magari amerindi non lo tira fuori dal ghetto.

Piuttosto spieghiamo che se in Sassònia abitano i sàssoni e in Lombardìa i lombàrdi, in Padània abitano i pàdani, oppure i padàni stanno in Padanìa (come la chiama Longhi, ahimè parlando della pittura ferrarese del Quattro/Cinquecento).

Le parole sono armi, e come tutte le armi bisogna saperle usare, e quando necessario usarle. Non era meglio accogliere Orban con lo slogan “Basta migranti! Fuori gli Ungari dall’Europa” e “Orban tornatene nella steppa”? Casanova duellava con i gentiluomini, faceva bastonare dai servi e gettare nei canali quelli che gentiluomini non erano. Non è una cattiva linea di condotta, almeno a livello linguistico. Chi di vaff. ferisce, di patata bollente perisce.

E se non vogliamo fare di ogni erba un fascio (anche perché in Italia l’abbiamo già fatto, e i risultati non sono stati esaltanti), allora bisogna discriminare. Un discrimen richiede mano ferma ed occhio acuto, richiede appunto “discernimento”, proprio quello che manca sia a chi chiuderebbe tutto sia a chi accoglierebbe tutti. E richiede “discrezione” (è sempre la stessa radice), la virtù somma di Guicciardini.

Siamo tutti bastardi. Vero, consiglio la lettura di Who we are and how we got here di David Reich, uno dei massimi esperti di DNA antico. Ma non illudiamoci che le migrazioni siano sempre diverse dalle invasioni, la favola bella degli archeologi “diffusionisti” per cui le innovazioni si trasmettono pacificamente senza spostamenti di popolazioni è tramontata. Se nell’unione di più popolazioni il DNA mitocondriale, trasmesso per via femminile, appartiene prevalentemente a quella stanziale, e quello del cromosoma Y a quella arrivata da poco … immaginate voi quali conclusioni raggiungere. Del resto siamo un’unica specie (non razza), ma 30.000/40.000 anni fa ne esistevano almeno 5. Ubi sunt? Burp.

QUI l’articolo di Franco Russo
QUI la risposta di Gabriella Mongardi
QUI l’intervento di Stefano Casarino