L’innocenza e la nocenza delle parole

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FRANCO RUSSO
I bruttissimi tempi che stiamo vivendo, tempi di violenza, falsità, arroganza e ignoranza, ci stanno davvero rendendo tutti più bestiali. Non è difficile dimostrarlo ma mi fermerei su uso ed abuso di parole chiave. Laggente violenta, prepotente ed ignorante non sa usare le parole e, con la complicità di diabolici strumenti, probabilmente usa trenta parole di cui conosce vagamente il significato. E forse altre venti di cui non conosce affatto né significato né uso: cioè, al limite, ammonte, er contesto, a probblematica, in rigoroso accento romanesco.

I cosiddetti intellettuali, ai quali si sono abusivamente associati la Boldrini – quella che dopo aver fatto, senza meriti, il giro di giostra, non riesce a non tentare di fare cadere chi è salito al suo posto – e Saviano –  un modesto scrittore che, anziché ringraziare gli dei, soprattutto il Dio Plagio, per la botta di c… e godersi l’immeritata fama, si erge a icona antimafia e antitutto e, dal superattico di NY, pontifica – accompagnano, sinistramente, questi folli comportamenti inventandosi parole che non hanno nessun significato. Mi resta il dubbio se agiscano per pura ignoranza oppure per contribuire a demolire completamente la nostra identità in attesa che il sole dell’avvenire – sarebbe meglio dire la mezzaluna dell’avvenire – sorga su un paese nuovo. Un paese che abbia perso la lingua, i dialetti, la tradizione, la fede, l’identità.

Così ci sono parole che debbono sparire. La lingua, la nostra meravigliosa lingua, è sempre in movimento, nascono e muoiono parole ma, a volte, risorgono perché qualcuno va a ripescarle e ci accorgiamo che sono più efficaci, rotonde, significative delle loro eredi. Ma tutto questo succede perché la lingua è viva, è parlata ed il suo dio è, semplicemente, l’uso. Quando, dal presunto alto, qualcuno decide di cambiarla, di solito fa dei buchi nell’acqua. Così le boldriniane ministra, avvocata, sindaca, professora non avranno vita lunga. Si salverà, probabilmente, avvocata ma grazie a quel Salve Regina che la Boldrini non sa neppure cosa sia. Ricordo quando, in nome di una falsa solidarietà, si impose che i ciechi fossero non vedenti, i sordi non udenti, i bidelli non docenti con una bizzarra scelta di definire attraverso la negazione. Mi chiesi allora, con la solita fellonia, se un orbo potesse essere chiamato seminonvedente, un malato non medico, un glabro non barbuto.

Ma, siccome al peggio non c’è mai fine, un fenomeno complesso come quello dei migranti ha devastato tutti i nobili  dizionari sui quali abbiamo studiato. Così pare non possano più essere pronunciate parole come clandestino, negro, zingaro, razza. Riflettiamo: posso dire ospite, viaggiatore, clandestino, migrante, emigrato, richiedente asilo e mi riferisco sempre alla stessa persona, ma la scelta del termine induce le anime belle a non ascoltare nemmeno quel che dico; la scelta del termine mi classifica come amico o nemico.
Ho letto, come tutti credo, l’incredibile episodio di Mestre dove un dentista, la cui moglie era stata aggredita da un ospite di colore scuro che aveva tentato di rubarle cellulare e bicicletta, ha osato apporre nella sala d’aspetto un cartello con la descrizione dell’episodio attribuendola ad un negro. Apriti cielo, indagato dall’Ordine dei Medici per razzismo mentre l’ospite è, ovviamente, un presunto signore per bene, almeno fino al terzo grado di giudizio. Per fortuna il mio dentista è di Fossano.

Ma adesso mi scuso per quello che sto per scrivere: un viaggetto nelle parolacce anche se, credo, tutte comprese nei dizionari. Da ragazzacci il gay era, in piemontese, cupio e, in italiano, pederasta anche se, presto, il liceo classico ci ha spiegato l’equivoco e ci siamo indirizzati a omosessuale. Poi vacanze al mare ed in montagna ci hanno insegnato busone, checca, finocchio, frocio, culattone. E li abbiamo usati – quando nessuno ci ascolta e ci intercetta continuiamo a farlo – ma senza voler dare alla parola nessun valore o disvalore: era una parola che definiva un modo di essere. Come cieco, sordomuto, disoccupato, cacciafemmine, mendicante, ubriacone, zingaro, prete, puttana. Anzi, una battutaccia che circolava tra di noi sedicenti maschi alfa era che tifavamo per gli omo e perché ce ne fossero tanti perché diminuiva la concorrenza. Solo parole ma oggi, chissà perché, fuorilegge.  E, se veniamo all’altra sessualità, – sì lo so che ce ne sono altre cinque o sei ma tra bi, tri, trans, ex mi sono perso e non ho nessuna intenzione di acculturarmi – qualcuno mi sa spiegare, a me ex maschio alfa, perché figo, figa, figata usatissimi da tutti e sdoganati persino su RAI 1 e Civiltà Cattolica, hanno valenza positiva, sono termini belli, eleganti, (Cristiano Ronaldo è figo, forse fighissimo), mentre cazzata, cazzone hanno valenza negativissima. Mai sentita la povera Boldrini né altre femministe ribellarsi a questa autentica esaltazione del membro femminile e denigrazione di quello maschile. Anzi, a ben vedere, si tratterebbe proprio di appropriazione indebita del membro femminile da parte dei soliti maschilisti.

Nella nostra bellissima lingua, e negli altrettanto belli dialetti, le parole sono sempre state le gemme che hanno impreziosito e caratterizzato la collana del ragionamento, del pensiero articolato composto da sostantivi, aggettivi, verbi, avverbi, congiuntivi, periodi ipotetici e segni di interpunzione. Frasi, periodi, principali e dipendenti, discorsi, ragionamenti articolati, costruzioni di versi hanno prodotto capolavori di poesia, filosofia, arte e letteratura. Tutto questo odio per le parole e per il loro significato è il segno dell’ignoranza, dell’arroganza e della violenza di questi tempi. L’ignoranza che dovrebbe portare questi esseri inutili a mettere all’indice il povero Dante Alighieri. Leggete – perché non li avete mai letti – e fatevi spiegare i canti XV e XVI dell’Inferno e la figura di Brunetto Latini. Censurerete Dante perché politicamente scorretto: ha messo all’Inferno i sodomiti.

Per fortuna sono vecchio, fumo molto, non ho né figli né nipoti molesti e godo di una decorosa pensione molto al di sotto del livello di rischio prospettato dal nullafacente Di Maio – l’unico caso al mondo di studente di liceo classico che non sa usare il congiuntivo – per cui riesco abbastanza bene a fottermene del mondo. Ma, se potessi esprimere un desiderio, vorrei tanto che quando parlo o scrivo si tentasse di capire quel che ho detto o scritto leggendolo fino in fondo. E non vorrei essere etichettato per il fatto che chiamo il cieco cieco, il negro negro, il clandestino clandestino, lo zingaro zingaro. Trovo insopportabile che un ignorante qualunque prenda una parola di un mio discorso e la utilizzi per sottopormi ad analisi psicoattitudinale al fine di rilasciarmi la patente di essere umano. O di negarmela. E allora, se fossi pratico di certe diavolerie, lancerei un hashtag – si scrive così? – per raggruppare tutti quelli che intendono usare la lingua italiana per esprimere dei concetti. E non per essere etichettati per il fatto che usano una parola o l’altra. Potremmo – degni epigoni degli autori dei samizdat – costituire un circolo di ribelli, scrivere in italiano corretto le nostre cose, stamparle e chiuderle in bottiglie da affidare al mare. Tra mille anni i nostri discendenti potranno sapere che è esistita la lingua italiana e che, all’origine del terzo millennio, c’erano degli esseri capaci di articolare ragionamenti.

QUI la risposta di Gabriella Mongardi
QUI l’intervento di Paolo Lamberti
QUI l’intervento di Stefano Casarino