Al volo lieve di farfalla

Franco Blandino

Franco Blandino

GABRIELLA VERGARI
La notte non le aveva portato, come si suol dire, consiglio ma un sogno strano, quasi ristoratore.
Sorprendente che le potesse ancora accadere, dopo tutto il dolore vissuto e lo sfratto dalla casa in cui aveva sempre abitato, con la perdita di tutto ciò che aveva, fino ad allora, costituito il suo mondo.
“Manco dopo un terremoto”, le capitava di tanto in tanto di pensare, ferma tra le pareti del sottoscala dal penetrante sentore di muffa e umidità, in cui aveva trovato temporaneo ricovero per compassione di una sua vecchia vicina.
Però non c’erano dubbi. Si era proprio svegliata con un’indiscutibile sensazione di benessere e un fremito di speranza.
Cos’era stato?
Non sapeva ben dirlo, eppure era tutta la mattinata che si aspettava qualcosa.
Forse l’annuncio dell’incipiente primavera, così aprì il vasistas, l’unica fonte di luce e d’aria nell’ambiente in cui non si era ancora rassegnata a vivere.
Quindi si abbassò ad accendere il fornelletto a gas per riscaldarsi la sua quotidiana tazza di latte.
La farfalla entrò quasi subito e prese allegramente a svolazzare tutt’intorno.
Volteggiava lieve come a voler perlustrare il misero locale e addirittura – le scappò tutt’a un tratto di pensare – benedirlo.
Mandò giù il primo sorso, tenendo la tazza ben stretta tra le mani, ma la posò appena dopo.
Era così bella, la farfalla.
Blu e violetto le alucce punteggiate d’oro, e il capino nero come l’inchiostro.
Colori invernali, si disse, ma un raggio di sole li stava rendendo più brillanti, quasi ne mettesse in evidenza la trasparenza.
“Non andar via, ti prego”, mormorò la donna, quasi in una preghiera.
“Davanti a noi c’è solo miseria,
Solo miseria alle nostre spalle,
Resta ancora un po’ qui con me,
Ti prego, resta ancora un po’ qui…”
Non facevano all’incirca così i versi che suo padre di tanto in tanto le citava, riprendendoli da una raccolta di autori russi, a lui particolarmente cara?
Era il tempo in cui la sua famiglia seguiva con grande partecipazione le sorti dei dissidenti sovietici, e aveva anche da poco appreso del sublime Osip Mandel’štam, di cui si era persa ogni traccia dopo l’internamento, sotto Stalin, in un campo di lavoro.
La moglie, Nadežda, ne aveva però mantenuto acceso il ricordo, fino all’ultimo giorno della sua vita. E soprattutto ne aveva mandato a memoria le poesie, recitandole di continuo per non lasciarne scivolare nemmeno una nell’oblio, finché non le aveva fatte conoscere al mondo insieme agli anni dei lupi e delle vedove letterarie. Tempi terribili e bui, di gran lunga peggiori, certo, di quello che stava attraversando lei, ma non bastava a consolarla.
“Mi sento così sola”… aggiunse la donna.
Questo verso, nel testo che ricordava, forse non c’era, ma calzava così a pennello che le sembrò naturale improvvisarlo all’istante.
Di chi erano d’altronde le poesie?
Di coloro che le componevano o di quelli che se le sentivano riaffiorare tutt’a un tratto di dentro, come premurosi e solidali compagni di ventura?
Che balsamo eccezionale potevano diventare, e quanto potenti.
Un po’ come l’amore, si disse, purché autentico.
Ma dov’era finito tutto quello che lei aveva dato?
E quello ricevuto?
C’era forse un fiume sotterraneo che, all’insaputa di tutti, lo raccoglieva e se ne ingrossava, come dell’apporto continuo di migliaia di affluenti diversi, per poi riemergere, chissà dove lontano, in superficie e lasciare che se ne individuasse a tratti il corso, lento di limo e sostanze benefiche?
Domande probabilmente oziose, cui però non riusciva più a sottrarsi, soprattutto in quegli ultimi tempi tanto duri e ingrati.
Se si voltava indietro, aveva tutt’al più, nel suo caso, la sensazione di un lungo tunnel buio, con forse qualche sprazzo di luce, giù giù dove un tempo c’era stato l’ingresso, e nulla o poco altro per la via.
E davanti a sé?
Un tunnel di nuovo, non sapeva quanto lungo ancora, ma non le riusciva difficile immaginarselo perfino più cupo e diruto.
Tirò un piccolo sospiro avvilito e riprese a bere, convinta che, finito il suo latte, o forse anche prima, la farfalla sarebbe volata via.
Ma si sbagliava.
Dopo una serie di varie evoluzioni, si andò invece a posare su una foto.
Quindi le sfiorò una spalla, con un tocco da carezza, poi tornò a posarsi sulla foto.
Era quella in cui sua madre sorrideva alla vita, nel giorno del trentesimo compleanno, con lei in braccio e suo padre accanto, che se la cingeva stretta.
Giovani, belli e innamorati, ignari affatto del resto.
Un momento pieno e perfetto, che qualcuno aveva immortalato, fissandolo per sempre in una felicità che lei era stata allora troppo piccola per gustare a dovere, ma faceva comunque parte della sua storia e le aveva dato sostanza.
Curioso davvero che la farfalla avesse scelto proprio quella, tra le altre foto nella stanza, gli unici ricordi che si era incaponita a tenere per sé, portandoseli dietro, come una chiocciola gelosa.
Diede un’altra sorsata, prima che il latte si freddasse del tutto, facendole sprecare anche quella piccola occasione di calore. Senza dire che il latte freddo le richiamava alla mente altre giornate di stenti e fatiche e lo detestava.
Ma mentre stava china sulla tazza, le parve che alle sue narici all’improvviso giungesse non più, o non solo, l’odore del latte, ma un’altra fragranza, che non avvertiva più da anni eppure avrebbe distinto tra mille, e che la stesse avvolgendo, come sempre voluttuosa. Era l’essenza di tuberosa che insieme al fruscio della biancheria di seta accompagnava di solito i movimenti di sua madre.
Aveva avuto quella foto sotto gli occhi di continuo, eppure non aveva mai percepito quelle sensazioni con tanta nitidezza. Che le stava accadendo?
Riposò di nuovo la tazza per concentrarsi meglio sul momento e soffermarsi sul dono inatteso di quelle sollecitazioni, così intense da sembrare vere.
La farfalla lasciò allora vibrare le sue piccole ali, muovendo più volte il capino e le antenne sottilissime nella sua direzione, quasi a volerla fissare.
Ma lei preferì chiudere gli occhi, avvertendo d’un colpo tutta la magnetica amorevolezza dell’abbraccio di suo padre.
Potenza della suggestione? Scherzi della solitudine? Fantasie di un’immaginazione allenata da migliaia di letture e chissà ormai alle soglie dell’allucinazione?
Si augurò ad ogni modo che quell’attimo si dilatasse all’infinito, rimanendo immediato com’era, fuori da ogni logica spazio-temporale.
Altri due o tre leggerissimi battiti delle alucce ed ebbe addirittura l’impressione che i suoi genitori fossero proprio lì, presenti nella stanza, e la stessero ancora incoraggiando come facevano quand’era bambina.
“Passerà presto”, amava dirle sua madre, con un bacio di conforto sulla piccola ferita di turno.
“Cerca il coraggio dentro di te”, le ripeteva suo padre, “ma soprattutto non smettere mai di nutrire la speranza…”
E per farglielo meglio comprendere, le raccontava di come quest’essenza impercettibile ma vitale, invece di volare via insieme a tutti i mali e alle malattie dell’universo, fosse rimasta intrappolata al fondo del vaso di Pandora.
Oppure le parlava di Giobbe e della Fede che l’aveva sorretto e infine salvato…
Riaprì gli occhi, giusto in tempo per cogliere un nuovo battito. La farfalla stava ormai abbandonando la sua posa, per girare ancora un po’ per l’ambiente.
In ultimo, le si posò – era forse un bacio? – sul capo, quindi, veloce com’era venuta, infilò il vasistas e scomparve.
Nella tazza il latte si era ormai decisamente raffreddato ma, per la prima volta dopo non ricordava più quanto tempo, lei lo bevve d’un fiato e se ne sentì ristorata.