NAUFRAGHI

 

CLAUDIO ZANINI

Phlebas I

Dissimulano oscuri flutti e ampie maree,
disperse le membra di Phlebas(1) il fenicio,
capostipite dei morti d’acqua innumerevoli
negli equorei cimiteri del Mediterraneo.
Oh, marinaio avvolto nel torpore profondo
di bruna pelle d’annegato, levigata appena
dal limo abissale, dalla carezza sinuosa
di nere alghe in capigliature fluttuanti,
t’affacciasti all’imbocco dei porti serrati,
respinto esule, sul ciglio di sponde sicure.
Noi, sulla riva d’approdi inespugnabili
volgemmo ostili al tuo sguardo esausto
muto diniego, ti respingemmo lontano
fino a che l’onda nera sommerse le membra
e si chiuse, cupo sepolcro verde del mare,
sulle tue diafane ossa sbiancate, Phlebas,
il fenicio, macchia nell’incerta nostra memoria.

1) Phlebas, il capostipite dei morti annegati, in La terra desolata, di T.S. Eliot [si veda la Ndr]

Phlebas II

Inatteso monile pare affiori dall’onda,
faville di luce oscillano sull’opaco riflesso
dall’abisso appena offuscate.
Relitto deterso nel profondo dal limo,
pare cingesse il polso di Phlebas, il fenicio.
Phlebas, ossa smussate nell’onda dei flutti
dalla capigliatura nera d’alghe flessuose,
e mai dimenticato tra gli esuli erranti,
sommersi tutti nell’oscura urna del mare.

Phlebas III

Cosa riflette lo specchio nero del mare
quando lo sguardo appena lo sfiora?
Della luce, subitanea oscillazione
vivida nell’inquieto suo tremare, poi
oltre cresta sottile di spuma,
altra luce ci avvolge luttuosa
come il dorso nero dell’orca.
Chiudiamo gli occhi, sotto le palpebre
oscuro peso ci preme, ci chiama
al torbido sonno d’un oblio abissale.
Equoreo oblio dell’insonne sepolcro
di Phlebas, nel mare morto annegato.

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Bach nel metrò

Vibra l’aria sulla quarta corda e
sopravanza il rombo nero dei convogli
quando smuore a folate intermittenti
nei fumidi budelli del metrò.
È un giovane cantore clandestino
che nell’androne sotterraneo,
piega triste al canto il suo violino.

Precario Orfeo, cui ignoto è
l’incanto degli ellenici giardini,
volgi lo sguardo arso e vuoto
dalla mediterranea ecatombe.
Sei lo straniero a tutti ignoto
privo di salvacondotto alcuno
ma il tuo canto stringe il cuore
dell’Europa sorda e indaffarata.

Vanno e vengono, donne altere
maschi attillati di grisaglia in voga
nei diuturni ambulacri metropolitani
assorti in nomenclature incerte
d’irrisori rovelli fastidiosi.
S’affrettano con falcate ampie,
nella dispersa fiumana dei passanti
mentre il canto obliato s’assottiglia
nel pensiero lentamente smuore.

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Il violinista esule

Voi che nei convogli, suonate Brahms
sulle corde elettriche d’acidi violini
sfidando ronde e pubblici ufficiali
in cambio di consunti decimali, scossi
dall’abbrivio della frenata improrogabile
dallo scarto brusco dell’accelerazione.
Voi, ignoti esuli, siete un rovello,
fosca macchia nella coscienza
mentre noi neppure vi vediamo,
tirando dritto, indaffarati e ostili.

È flebile quel Mozart che ci turba
con l’arabesco turco della marcia
che s’insinua tra frettolosi viaggiatori
a ondate fitte vomitati dai convogli.
Di noi si burla, il violinista esule,
di noi che traghettiamo a frotte
da un Acheronte all’altro quotidiano
fingendoci assidui naufraghi
di vacue crociere prestigiose
mentre non siamo che sonnambuli
invischiati entro irrisorie gore.

È lui, che dovrebbe assai dolersi
verso il soffitto nero degli androni
straniero vomitato alla deriva
da un Mediterraneo ostile, invece
irride la nostra vile indifferenza
con un canto ironico e stonato.
Lui ci vede, ma noi non lo vediamo
sebbene ci si annidi nel pensiero
in dolente forma d‘incubo costante.

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Ulisse ignoto

L’irridente organigramma
delle cantine, diuturno abisso
di falene e ratti, ti sommerge
entro arcane gerarchie
Ulisse ignoto, esiliato naufrago.

Itaca, il cencio scompaginato
d’una donna insonne,
e lo straziante viaggio favoloso
su precari scafi clandestini
bruciano nella memoria esausta,
consumati in lingue incomprensibili
negli stanchi alterchi sotterranei
di lavapiatti e sguatteri stranieri,
ombre del sottosuolo occidentale.

Ma noi, a livello stradale e diurno
ad altri clamori esposti più attutiti
ostili a graffi minimi e scalfitture,
cauti e sospettosi nell’incedere
mai sapremo dei lacerti sublimi
d’un costante naufragio sotterraneo
il cui strazio neppur ci sfiora.

Nota della Redazione (a cura di Silvia Pio)
Accogliamo con piacere questo contributo di Claudio Zanini, giunto insieme alle notizie di moderni naufraghi e di morte in mare che si sono susseguite per tutta l’estate.
Queste liriche richiamano gli autori che hanno fatto del viaggio e del naufragio uno dei loro grandi temi: Coleridge, Eliot, Tennyson, Joyce, e i nostri Dante e Primo Levi. E soprattutto riportano l’argomento ad una drammatica modernità, chiamando in causa il lettore, come Eliot nella sua Death by Water:
“O tu che volgi la ruota e guardi sopravvento:
Considera Phlebas, che un tempo fu bello e alto come te.”
(Citazione da T.S. Eliot, Poesie, Casa Ed. Bompiani – traduzione di Roberto Sanesi)

Le opere che accompagnano le poesie sono dell’autore
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