Il battito: divertissement su un testo di Ivano Fossati

l-arcangelo-cover
DANIELE TRUCCO

Nel 2006 esce l’album L’arcangelo di Ivano Fossati.
Di certo non lo si può inserire tra i lavori migliori del cantautore, nonostante una percepibile cura per gli arrangiamenti e l’intuizione di qualche verso interessante. Non si discute: le cose brutte sono altre; però anche quelle belle.
Se ci si dimentica del CD nel suo complesso e si immagina di tornare al tempo dei 45 giri, direi che con due soli brani avremmo già in abbondanza quello che serve per avere l’idea del tutto. Sul lato B (sul lato A si metta ciò che più aggrada a ciascuno) avrei inserito Il battito, un pezzo (o ‘il’ pezzo) che colpisce sia per il testo sia per la musica, pur non potendosi permettere di divenire una hit commerciale. Partendo dalla musica e risolvendola in modo spiccio, il bel crescendo, strutturato da clichè su tutto l’arco della composizione, che conduce a un lungo assolo finale alla Sigur Rós, è d’effetto e potente. È un espediente vecchio e non regge certo il confronto né con Comfortably Numb dei Pink Floyd né con la versione live di Gary Moore de The Messiah Will Come Again, ma lo spirito è comunque quello giusto e si fa ascoltare con piacere.
Chi compra Fossati però non punta tanto alla musica quanto alle parole. Il senso generale della canzone può apparire a tratti oscuro e abbisogna di diversi ascolti; ciò che suggerisce però è di notevole interesse e per avanzare un approccio è necessario fare un riferimento a un ambito apparentemente un po’ distante da quello della canzone d’autore.
Nella magia antica e in maniera analoga nella più recente magia del caos (Chaos Magik), rappresenta un elemento costante, un legame sotterraneo ma sempre necessario, l’utilizzo di immagini al fine di convogliare ed eventualmente imprigionare gli esseri pneumatici che circondano l’uomo, oppure per ottenere una maggiore concentrazione durante un rito. Tali immagini sono classificate come sigilli quando divengono più stilizzate e simboliche e compaiono in quasi tutti i rari manoscritti negromantici scampati alla distruzione inquisitoria.
Il testo de Il battito rimanda implicitamente a questa concezione: urge un ritorno al simbolo, a una condensazione sintetica di messaggi che controbilanci il letamaio di opinioni della televisione degli ultimi vent’anni; c’è chi ha letto le parole di Fossati in maniera differente, cioè come critica alla troppa sintesi. Non sono d’accordo. Serve una nuova cultura ‘sottostante’, capace di ritornare indietro nelle scritture e regredire fino almeno al geroglifico: quello fu un meccanismo nato con l’intento di trasporre un linguaggio verbale su un supporto, magari inizialmente a uso esclusivo della classe sacerdotale, ma pur sempre con funzione di scrittura e volontà di archiviazione. Orapollo Niloo scrive gli Hieroglyphica proprio per tentarne una decifrazione che poi si rivelerà assolutamente errata per i tempi, perché simbolica. Il suo trattatello, dimenticato per secoli, sarà riscoperto e comprato dal sacerdote fiorentino Cristoforo Buondelmonti nel 1419 nell’isola di Andro ed ebbe una indiscutibile influenza su gran parte del pensiero rinascimentale e su tutto il simbolismo e gli emblemata tipici della pittura e della letteratura successiva. Ma si fece anche allora del geroglifico quello che non era, o non era completamente. Ci si avvicinò comunque, involontariamente, a quanto Fossati predica ed è lì che dovremmo ritornare.
Oggi servono “teorie complesse e oscure, lingue lontane” e pochi significati; un po’ malamente avevano già provato a dire la stessa cosa i PFM con Domo Dozo, brano tratto dall’album Serendipity (2000). Il testo multilingue, che si avvalse anche della collaborazione di Fernanda Pivano, tenta di rappresentare la babele globalizzata senza arrivare però mai al punto e fermandosi al gioco prodotto dai suoni delle parole. Ma servono soprattutto insegne, tramite le quali possa nascere l’intuizione, quella che nasce solo con un colpo d’occhio. Qual è del resto il miglior portatore di significato che l’in-signum?
E poi il suono oltre l’immagine, e il suono che serve alla nuova semantica – come il punto nella grafica – deve essere il battito, unità inconsistente e im-puntata, proprio come vuole la teoria della contrazione cabalistica lurianica.
Dopo tutti i libri e le parole del mondo e dei secoli, si necessita di “poca letteratura, brevi racconti al massimo”: il tempo delle grandi narrazioni è concluso o da concludersi in breve, o con molta probabilità da eliminare. Il mio riferimento iniziale ai Sigur Rós non voleva esaurirsi solo alla loro musica ma soprattutto alla non lingua utilizzata per i loro testi. Si chiama vonlenska ed è artificiale, creata dal cantante Jón Þór Birgisson, anche se per i puristi non è una lingua vera e propria, in quanto priva di grammatica e vocabolario[1]. Ecco i testi per la nascente era letteraria. Il manifesto della nuova cultura, rapida ed estetica, è quello basato sull’immagine-sigillo e sul suono puntiforme che renda definitivamente universale un linguaggio che fino a oggi non solo non lo è mai stato, ma lo è diventato sempre meno soprattutto dopo la nascita del villaggio globale. L’era tecnologica è stata quella della dispersione dei linguaggi, dell’incomunicabilità delle informazioni: il cambiamento di un sistema operativo rende illeggibile un file a distanze temporali sempre più brevi. Le nostre scritture sono divenute inconsistenti e necessitano di un rapido ripensamento o non possono che condurre alla dissoluzione irreversibile delle informazioni. Non servirà una nuova Stele di Rosetta: anche la breve vita dei supporti sta rendendo illeggibili i dati contenuti e pertanto una comparazione di linguaggi sarà in futuro del tutto inutile perché impossibile.
Come per le Voyelles di Rimbaud, come per i colori assegnati alle sette stanze del castello di Barbablù nell’opera di Bartòk e come per tutto il sistema di corrispondenze tra le cose di quaggiù e quelle dell’altrove, “il pensiero sarà un colore, il colore sarà un suono, il nostro suono un battito”.

Dimenticavo: in un’ottica riduzionista dei messaggi e delle opinioni, la prima cosa da far scomparire dal web e dai social sarebbero gli scritti inutili come questo.


[1] L’esperimento artistico migliore di glossolalia, dopo la Lingua ignota di Ildegarda di Bingen, è stato quello del gruppo francese Magma. Questi utilizzano per i loro testi il kobaiano, lingua artificiale completa inventata dal batterista Christian Vander. Ecco i primi versi di «Da Zeuhl Ẁortz Mëkanïk», dall’album Mëkanïk Dëstruktïẁ Kömmandöh (1973):

Hortz fur dehn Štëkëhn Wešt
Hortz zï wëhr dünt Da Ëhrtz
Hortz da felt dos Fünker
Hortz Zëbëhn dë Geuštaah