La mia vita da contadino

contadino-carlo

GIANCARLO PIO

Seconda parte, la prima si trova qui

Nel 1952 mancava il lavoro; noi avevamo solo 10 giornate di terreno e i miei due fratelli maggiori Raimondo e Giuseppe avevano 23 e 21 anni e facevano i manovali a giornata. Di soldi ne arrivavano pochi e allora mio padre ha preso una decisione, quella di cercare una cascina grande che desse lavoro a tutti.

Trovata una cascina a San Rocco Seno d’Elvio[1], di 65 giornate, mio padre era contento, diceva che c’erano più di 20 giornate solo di grano, venti giornate di prato, sei o sette giornate di meliga e solo due o tre di viti, la rimanenza, bosco. Il nostro terreno l’hanno preso in affitto i nostri vicini; dovevamo fare trasloco[2] a novembre del ’52 ma la casa non era ancora libera e siamo andati a gennaio ’53.

Mia sorella Teresa, che aveva imparato a fare la sarta, aveva sposato un giovane di Canelli. A Prassotere, vicino a noi, abitava lo zio Battista che era senza figli e ha detto a mio padre, suo fratello: “Voi adesso andate via e io rimango qui da solo con mia moglie. Lascia Maria con noi”… “Vuoi stare?”, chiese mio padre a Maria e Maria a malincuore disse di sì. Era anche lei, come tutti, abituata ad ubbidire ma penso che abbia sofferto perché eravamo molto legati tra di noi. Siamo partiti in nove: papà, mamma, Raimondo, Giuseppe, Giovanna, Piera, io, Luigi e Renzo. Continuammo la scuola, io la quarta e Luigi la prima, mentre mio padre e i fratelli maggiori iniziavano i lavori in campagna, che non erano pochi. Giuseppe è partito militare così mio padre ha preso un servitore[3] … Dopo due anni è tornato Giuseppe e nel frattempo Raimondo si è fidanzato e si voleva sposare. Visto che c’era tanto lavoro e pochi soldi ha pensato di fare domanda alla Ferrero come autista; fu assunto subito e tutte le mattine partiva da casa per farvi ritorno alla sera. L’anno seguente si è sposato e ha affittato un alloggio ad Alba…

Io ho finito le scuole: avevo dieci anni e mezzo. A giugno 1954 si trattava di rimpiazzare Raimondo, cosa per me impossibile. Mi sono dato da fare, cercavo di aiutare con tutte le mie forze ma erano poche.

Passati altri due anni i prezzi dei cereali diminuivano, di viti ne avevamo poche e il guadagno era sempre meno. Mia sorella Giovanna si è … sposata e così sono venute a mancare altre due braccia. Dovendo cercare una soluzione mio padre convocò la famiglia e disse: “Cerchiamo una cascina con tante viti, l’uva ha un buon prezzo e se riusciamo a mettere da parte qualche soldo chiedo a mio fratello Battista di venderci la sua parte di terreno con la casa, così torniamo a vivere a Prassotere”. Tramite qualche mediatore abbiamo trovato a San Martino Alfieri[4] una cascina di proprietà della Marchesa con ben 11 giornate di viti. Nel novembre 1957 traslocammo in quella cascina chiamata Tanarella. Naturalmente il nucleo famigliare si era ridotto. Eravamo contenti, la casa era bella e grande, come anche la stalla. Abbiamo dovuto rilevare metà del bestiame, due buoi, quattro mucche e cinque vitelli. In poco più di una giornata abbiamo sistemato i pochi mobili. I letti erano quattro: uno per papà e mamma, uno per Giuseppe e uno per Piera. L’ultimo per noi tre che per tanti anni abbiamo dormito assieme.

A metà luglio stavamo trattando le viti quando all’improvviso sono arrivati dei nuvoloni dietro la collina e in un momento hanno raggiunto la nostra vigna. Un lampo seguito dal tuono e in pochi minuti ha preso a grandinare con chicchi abbastanza grandi. Partiti di corsa per andare a ripararci, a meno di dieci metri da casa un chicco mi ha preso di striscio in testa, staccandomi metà orecchio. In poche parole, la tempesta ha distrutto il novanta per cento del raccolto. Siccome eravamo mezzadri ci siamo trovati a spartire con la Marchesa la metà di niente.

Alla Motta di Costigliole, paese vicino, con un terreno adatto all’orticultura, i proprietari avevano quasi tutti bisogno di manodopera, per racimolare qualche soldo io e mio fratello Giuseppe e qualche volta anche Luigi andavamo a fare delle giornate per tirare avanti. Giuseppe era un uomo e prendeva 1000 lire[5], io guadagnavo 500 lire e a Luigi davano 300 lire al giorno perché aveva solo 12 anni.

Nell’inverno, causa una forte influenza, sono morti tre vitelli; il giorno di Pasqua una mucca doveva partorire ma ci sono state delle complicazioni gravi e sono morti entrambi. Incominciammo il 1959 con il morale non solo basso ma a terra.

Bisognava per forza tirare avanti e abbiamo ripreso a lavorare nelle vigne.

Nel 1959 si è sposata mia sorella Piera con un giovane di San Martino Alfieri. Era l’ultima delle mie sorelle e di lei ho sentito la mancanza per il fatto che accudiva la casa, cucinava, faceva tutti i lavori domestici. Per ogni necessità eravamo tutti abituati a chiamare Piera. Non so come facesse a tenere la casa in ordine, cucinare e preparare tutti i vestiti puliti. Eravamo in sette e lei trovava ancora qualche ora per aiutarci in campagna insieme a nostra madre.

Battista, fratello di mio padre, non stava più tanto bene e non potendo più lavorare aveva deciso di affittare un alloggio a Mango. È andato a viverci con sua moglie, anche lei ammalata, e mia sorella Maria che aveva tirato avanti la campagna con lo zio e si era adattata a fare di tutto: la sarta, l’infermiera, la casalinga. Mia zia non era in condizione di lavorare nemmeno da giovane. Così liberatasi la casa, d’accordo con lo zio Battista, noi tutti siamo tornati a Prassotere. In seguito papà e zio hanno concordato il prezzo… Il mutuo era trentennale[6] e la prima rata si doveva pagare a giugno del 1960.

Da destra: Giancarlo Pio con in braccio il figlio di sua sorella Teresa, Raimondo Pio con in braccio la figlia, Luigi Montaldo marito di Teresa e Luigi Pio. Inizi anni Sessanta.

Da destra: Giancarlo Pio con in braccio il figlio di sua sorella Teresa, Raimondo Pio con in braccio la figlia, Luigi Montaldo marito di Teresa e Luigi Pio. Inizi anni Sessanta.

Mio fratello Giuseppe, ventinovenne fidanzato, doveva trovarsi un lavoro e uno stipendio sicuro per sposarsi e mettere su famiglia. Trovato nella tenuta di Fontanafredda[7] come cantiniere lavoro e alloggio, tutto contento si sposò e andò ad abitarci. Avevamo a disposizione venti giornate di campagna ma erano terreni con poca resa. Bisognava fare dei nuovi impianti ma oltre a spendere soldi, che non avevamo, il guadagno sarebbe arrivato solo più tardi. Come potevamo pagare la prima rata del mutuo del 176 mille lire? Mio padre mi confidò che aveva sentito dire che i nostri parenti del Flori[8] cercavano un aiutante. “Chiedo se ti prendono per tre giorni la settimana e usiamo il tuo guadagno per pagare la rata del mutuo. I rimanenti tre giorni lavori a casa. Ho parlato con Mario e ha detto che da marzo a San Martino ti pagherà 180 mille lire. Puoi cominciare da lunedì”.

L’orario non era di otto ore, ma dall’alba al tramonto. Partivo di casa che era ancora buio, camminando veloce a piedi. Alla cascina del Fornace vedevo il sole che già faceva capolino; per paura di arrivare tardi correvo per tre chilometri. Con tre giorni alla settimana a casa e tre sotto padrone mi toccavano tutti i lavori pesanti, preparati appositamente, in un posto e nell’altro.

Arrivato l’inverno mio padre andava in giro per le campagne a macellare i maiali. Io l’aiutavo e intanto imparavo. Era un lavoro non tanto bello in quei tempi. Si portavano gli attrezzi in spalla camminando per strade innevate, però era un modo per guadagnare qualche soldo. In campagna l’inverno vuol dire quasi tre mesi senza avere lavori importanti. Siccome si diceva che bisognava imparare l’arte e metterla da parte, nei mesi invernali del ’56 e del ’57 sono andato da Marcarino a San Rocco a imparare qualcosa. Aveva una falegnameria e teneva come aiutanti due o tre bocia (apprendisti) senza paga. Ci faceva fare le pulizie e ci assegnava qualche lavoretto. Finiti i mesi invernali, mi hanno regalato 1500 lire, il valore di un paio di pantofole che avevo consumato avendo fatto per 80 giorni due chilometri quattro volte al giorno, andata e ritorno per pranzo e per cena. Nei due anni successivi, il ’58 e il ’59, mio padre mi aggiustò alla Motta di Costigliole dove c’era una panetteria che cercava un ragazzo per aiuto. Una domenica io e mio padre siamo andati a parlare con i proprietari. Erano due fratelli, avevano un grande negozio e vendevano di tutto: pane, pasticceria, frutta … “Dunque – disse uno dei fratelli – puoi cominciare anche questa sera. Abbiamo una camera da letto per due dove dorme il garzone. Ci stai anche tu. Al mattino cominciamo alle 2,30, però al pomeriggio potete riposarvi due o tre ore. Mangiate con noi tre volte al giorno, di lavoro ce n’è tanto, però ti trattiamo bene e a fine settimana ti diamo 500 lire”. Erano molto bravi e rispettosi. Ho notato, però, diverse volte qualcosa di strano. Mi comandavano un lavoro … e io trovavo ben visibili delle monete. Naturalmente le prendevo e andavo a consegnarle. Mi dicevano bravo e davano la causa che erano distratti e lasciavano sempre delle monete in giro. Un sabato sera tornato a casa, parlando con i miei, ho fatto presente il fatto che trovavo queste monete e non capivo come mai. “Io lo so – disse mio padre – Ti mettono alla prova per vedere se rubi. Visto che non te ne sei approfittato e sei onesto, vedrai che non le mettono più”. Così è stato. Nella vita ho imparato a fare diverse cose ma a rubare non ci sono riuscito.

A fine primavera, inizio estate i lavori dei contadini diminuivano e a fine giugno cominciava la trebbiatura. I nostri vicini di casa Ferrero Felice e Mario erano trebbiatori e avevano bisogno di un aiutante, che in gergo si chiama pajarin. Felice una sera è venuto a chiedere a mio padre se mi lasciava andare che mi pagava bene. … “Va bene – disse mio padre -  ce la faremo lo stesso”. A casa c’era ancora Luigi[9] che aveva quindici anni e come un uomo faceva tutti i lavori, anche quelli pesanti.

Negli anni successivi, avendo fatto nuovi impianti di viti e nocciole, il reddito migliorò. L’uva dolcetto veniva pigiata tutta e il vino venduto sfuso; avevamo abbastanza clienti e in due o tre mesi ci rimaneva soltanto il vino destinato al consumo famigliare. Il contadino ero io ma il 5 agosto del 1964 sono partito militare e anche in questo caso non sono stato fortunato.

Finalmente il 14 ottobre 1965 sono stato congedato e ho tirato un bel sospiro di sollievo.

La famiglia Pio a metà anni Sessanta

La famiglia Pio a metà anni Sessanta

Nota di Silvia Pio: Lo zio Carlo continua a raccontare di come le cose andavano sempre meglio in cascina. Lui era ormai l’unico dei fratelli e delle sorelle rimasto in campagna, e poco tempo dopo il suo matrimonio i nonni, suoi genitori, decisero di trasferirsi in paese e andare in pensione. Il nonno tornava spesso a Prassotere per dare una mano e ha fatto i lavori in campagna fino ad ottanta anni, quando per ragioni di salute ha dovuto rallentare. Ma ancora si dedicava a compiti meno stancanti: lo ricordo vicino ai novant’anni che preparava le budelle per i salami.

Mio padre, dopo la pensione, era in cascina molto spesso (secondo me rischiando di fare ancora il fratello maggiore e forse irritando un po’ la cognata). Durante la vendemmia, tutti andavamo ad aiutare ed era divertente, anche se negli anni piovosi o molto caldi il lavoro non era privo di disagi. In quelle occasioni avevamo un assaggio edulcorato di quanta fatica avevano fatto i parenti: una fatica che la mia generazione non aveva mai avuto bisogno di provare e che non poteva neppure concepire. Grazie al cielo non possiamo proprio dire che la vita per noi sia stata “poche rose con tante spine” come afferma lo zio Carlo in chiusura delle sue memorie intitolate La mia vita da contadino, dalle quali questo pezzo è tratto.

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[1] San Rocco Seno d’Elvio è una frazione di Alba, divisa dal Comune di Barbaresco proprio nel 1952, la cui economia è ora incentrata soprattutto sulla vitivinicoltura, con vigneti pregiati per la produzione del Barbaresco. Prende il nome dall’imperatore romano Publio Elvio Pertinace nato qui e che governò a Roma per pochi mesi fino al 28 marzo del 193 d.C. quando venne ucciso in una congiura. Dista 16 km da Mango. La cascina affittata dai Pio si chiamava Tavoleto.

[2] I contratti di affitto per i contadini scadevano a novembre col termine dei lavori agricoli. La data scelta per il trasloco, per tradizione e per ragioni climatiche (estate di San Martino), era quasi sempre l’11 novembre, giorno in cui la Chiesa ricorda San Martino di Tours. Per questa ragione dalle nostre parti, come in altre zone dell’Italia settentrionale, ‘fare San Martino’ significa fare trasloco.

[3] Dal piemontese servitù, bracciante agricolo che viveva con la famiglia che gli dava lavoro. Si veda il romanzo La Malora di Beppe Fenoglio. Alcuni dei ragazzi Pio andarono a loro volta da servitori, come racconta Carlo. Di quel poco che so dell’esperienza di servo di mio padre parlerò nel capitolo dedicato ai figli maggiori.

[4] San Martino Alfieri è un comune in provincia di Asti a circa 20 Km da Mango.

[5] Negli ultimi anni della sua vita, lo zio Beppe ha tirato fuori la sua rabbia nei confronti del fatto che era stato costretto a fare il bracciante e che non poteva intascare lui stesso il denaro.

[6] Ottenuto con quello che Giancarlo chiama “Piano verde, una legge a favore dei contadini”, che però iniziò soltanto nel 1961.

[7] Terre e cantine del figlio di seconde nozze del re Vittorio Emanuele II situate a Serralunga d’Alba.

[8] Località di Mango.

[9] Renzo, il più piccolo, era andato a vivere ad Alba con Raimondo, il più grande, e la sua famiglia per poter frequentare la scuola professionale.