Laboratori dell’immaginario

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GABRIELLA VERGARI

Per quanto patrimonio prevalente del mito e dell’epica antica, il motivo del nostos (ritorno) – collegato alla radice indeuropea nes di neomai e nosteo – ha indubbiamente continuato ad avere lunga eco e feconde rielaborazioni non solo in altri generi della classicità stessa ma pure (o forse sarebbe il caso di dire soprattutto) nelle letterature moderne, con una gamma di significative e dense implicazioni sempre intriganti.
Si pensi ad esempio al tema del ritorno o negato (caro, solo per citarne uno, al Foscolo); o funesto (come in S. D’Arrigo); o a quello del vendicatore (come in A. Dumas e R. Stevenson); o a quello del tentativo di ripristino di una normalità comunque compromessa da un passato impossibile da cancellare (come in Cesare Pavese).
Gli effetti senza dubbio più stranianti, sorprendenti, e non di rado imprevedibili per esito ed impianto ideativo, sono però quelli ottenuti là dove il tema del ritorno dell’eroe/guerriero si leghi a quello del doppio. In tale direzione mi pare si possa anzi seguire un particolare fil rouge  capace di condurre fino ai nostri giorni, ovvero ad Italo Calvino.

A prospettarne la genesi, una tragedia attica, ovvero l’Elena di Euripide[1] che riproponendo, tra le plurime versioni del mito della Tindaride, quella già attestata dalla Palinodia stesicorea, presenta un Menelao, reduce da Troia, alle prese con il disagio della duplicità della moglie, al punto addirittura da esclamare: «Perché, essendo io una persona sola, non posso essere il marito di due mogli!» (v.571). Ciò che pare reale può dunque non esserlo e le certezze fondamentali, si direbbe primarie, della propria e altrui identità, anche sulla base della categoria gnoseologica peculiare per i Greci del “vedere” e “conoscere”, rischiano in questo modo di andare in frantumi, producendo un inquietante spiazzamento.
Più che ad indagare le nuances di un potenziale laceramento interiore del suo personaggio, Euripide si mostra tuttavia interessato a soffermarsi soprattutto sul messaggio – altrettanto traumatico ma, se si vuole, più “collettivo” – dell’insensatezza della spedizione troiana, avvenuta in ultima analisi per un fantasma: quale ironia più tragica, quale disinganno più devastante nello scioglimento di questo particolarissimo equivoco, costato inenarrabili sofferenze e incalcolabili morti? E nella sua lucidissima rhesis, il nunzio ben lo sottolinea ai vv. 603 segg.: «Oh Frigi tutti e Achivi infelicissimi,/ per me periste, per le trame d’Era,/ sullo Scamandro; e Paride credeste / ch’ Elena avesse, e non l’aveva; (…) Ebbe così la misera Tindàride/ sinistra fama, e in nulla fu colpevole.»

Se crediamo, come la letteratura moderna sul tema del doppio ci obbliga a credere, che questo tema appartenga ai più profondi terrori dell’essere umano, che una persona apparentemente identica a qualcun altro perda, assieme alla sua inconfondibilità, l’autonomia necessaria all’affermazione di sé, e alla certezza di esistere che è ragione dell’esistenza medesima  — allora l’Elena di Euripide ci appare sì un primo passo nel delirio, per citare il titolo di un film in parte coinvolto nella stessa tematica, ma un primo passo compiuto con la massima circospezione, un rischio esorcizzato attraverso la garanzia di ogni possibile anticorpo.
Così precisa invero G. Paduano nell’introduzione[2], non già alla tragedia euripidea bensì, guarda caso, all’Amphitruo plautino, altro fondamentale tassello per lo sviluppo del percorso che questo contributo intende analizzare.
06-23-vergari-amphitruoIn questa particolarissima palliata non solo ritroviamo infatti il motivo del doppio, ma pure altri elementi di somiglianza con la proposta euripidea. Entrambi i due testi antichi hanno ad esempio  a che fare (sia pure in senso simmetrico e opposto) con il rapporto coniugale e i suoi valori e giungono al lieto fine, col ripristino della normalità (e conseguente chiarimento), grazie alla reversibilità dei fenomeni di sdoppiamento, determinati da un’imperscrutabile quanto imprevedibile volontà divina.
E però, sempre Paduano: Il simulacro di Elena svanisce appena dopo che Menelao è stato messo a confronto con la verità incomprensibile, in modo che per lui essa sia solo detta, e non vissuta: più precisamente, è oggetto di rappresentazione la fase terminale in cui il doppio, avendo assolto la sua benefica funzione, può essere eliminato con la restaurazione delle coordinate ordinarie della realtà.
Non così invece nell’Amphitruo, dove il motivo del doppio – ripetutamente proposto anche altrove da Plauto con i cosiddetti Simillimi e tuttavia mai più con la stessa geniale “audacia” - permea tutta l’opera, coinvolgendo – sempre attraverso un nostos, ovvero il ritorno da una guerra, in questo caso contro i Teleboi – non solo Anfitrione ma pure il suo sventuratissimo schiavo Sosia, trascinato all’interno di uno straniamento tale da averlo poi reso figura antonomastica. La sua battuta: Non placet, v. 292, insieme alle sue peripezie alle prese con Mercurio che ha assunto le sue sembianze, segna quindi un  discrimine davvero fondamentale per letteratura occidentale, che si trova in tal modo ad inaugurare l’incontro di un personaggio, non con qualcuno di molto simile a sé, ma proprio con un altro se stesso.

Notano acutamente D’Angeli, G. Paduano, in Il Comico, Bologna 1999, passim, che in questo caso il pensiero è alla berlina. L’uomo che si trova di fronte un altro sé è contemporaneamente chiamato ad affermare e a disconoscere la propria identità: infatti solo un soggetto dotato di consistenza individuale può essere il referente dell’apprendimento di un dato che quella consistenza smentisce e vanifica con uguale coerenza. Così esperienza interna ed esperienza esterna si allontanano vertiginosamente l’una dall’altra e la realtà che consiste nel loro accordo si frantuma senza che ricorra la sola condizione che possa determinare un simile divario nell’universo della tranquillità normalizzante: la malattia mentale. […] Dopo la roccaforte della conoscenza esclusiva cede anche quella dell’inconfondibilità somatica: solo allora infatti Sosia guarda il suo interlocutore e, punto per punto, nella parzialità analitica della descrizione smarrisce se stesso. Le domande si accumulano e sul finale della scena (vv. 403-462) non a caso ripetono l’angoscia paralizzante degli eroi tragici deprivati dei loro valori essenziali.
Ma, attenzione, M. Bettini, in Le orecchie di Hermes. Studi di antropologia e letterature classiche, Torino 2000, pp.162 segg., mette in guardia dalla tentazione dei paralleli ottocenteschi o moderni, ovvero dall’assimilare l’orizzonte culturale della perdita di identità di Sosia a quello che funge da sfondo, per intenderci, a Il sosia  di Dostoevskij o al William Wilson di E. A. Poe.

Certo, su questo non si può non concordare.
E tuttavia, chi può dire con radicata sicurezza come funzioni il “laboratorio” dell’immaginario di uno scrittore, quali suggestioni e background culturali lo sollecitino, quali lasciti ne possano costituire l’humus e il sedimento, al di là dei distinguo filologici e scientifici? Chi può insomma perentoriamente negare che miti e modelli divenuti e ritenuti classici, e dunque perpetuati e perpetuatisi nel tempo, possano permeare a prescindere la percezione della realtà da parte di un autore, soprattutto se occidentale, traducendosi in linfa artistica?
Come escludere ad esempio che in uno scrittore come Italo Calvino, così sensibile al retaggio del  patrimonio culturale in sé da aver lasciato una memorabile definizione di “classico”, e da averlo perfino sondato anche attraverso il mondo della fiaba, non sia ad un certo punto emerso il ricordo o la suggestione dei nostoi, o chissà dell’Elena euripidea o dell’Amphitruo plautino, al momento di realizzare lo straordinario personaggio di Medardo di Terralba del suo Il Visconte Dimezzato (1952)?
E qui, è lo stesso M. Bettini che ci viene incontro, avvertendo: La magia di trasformazione non costituisce minimamente un tratto rilevante nelle storie di doppi che la letteratura posteriore ci offre. Se proprio si vuole proporre un parallelo moderno per il modo in cui Sosia pensa il suo doppio (secondo il modello di magia per trasformazione che abbiamo ricostruito sopra), bisognerà ricorrere non tanto ai classici raddoppiamenti speculari dei già citati William Wilson o Il Sosia, quanto alle trasformazioni cui va soggetto il dr. Jekyll. In altre parole, il modo in cui Plauto presenta l’incontro con il «sosia», corrisponde non ad una tipica storia di double o Dopplegänger, ma a un incontro moderno che, per noi, si colloca in una posizione abbastanza eccentrica rispetto alla letteratura centrata sul doppio. Quando la scienza moderna si arrogherà il potere di  «mutare» le persone, ovvero crederà di averne raggiunto la terrificante capacità, potrà accadere «razionalmente» ciò che Sosia attribuiva esclusivamente ai poteri della magia: è di nuovo possibile diventare altri, il dr. Jekyll cede il passo a Mr. Hyde. E da scienziato che era, il medico si fa pauroso versipellis. (op. cit. p.175)
Stevenson dunque.
Ecco così  individuato un più che verosimile anello di congiunzione[3]: non solo Bettini  propone il dr. Jekyll di Stevenson come parallelo moderno del Sosia plautino, ma  I. Calvino cita addirittura l’autore scozzese proprio come fonte ispiratrice del suo testo, in una lettera a Carlo Salinari del 7 agosto 1952, dove pure chiarisce: A me importava il problema dell’uomo contemporaneo (dell’intellettuale, per essere più precisi) dimezzato, cioè incompleto, “alienato”. Se ho scelto di dimezzare il mio personaggio secondo la linea di frattura “bene-male”, l’ho fatto perché ciò mi permetteva una maggiore evidenza di immagini contrapposte, e si legava a una tradizione letteraria già classica (p. es. Stevenson) cosicché potevo giocarci senza preoccupazioni […]
Un gioco ovviamente complesso, come tutti i “giochi” nati da ogni intelaiatura metaletteraria o dialettica intertestuale ma – come pure esplicitamente chiarito dal senza preoccupazioni – soprattutto libero. Se Hyde è l’esito di un mostruoso esperimento, il Visconte, tanto nella forma del Gramo quanto in quella del Buono, sembra piuttosto figlio di una delle molteplici dinamiche del nostos, proponendosi quale guerriero tornato a casa, questa volta letteralmente “a pezzi”, dopo i combattimenti contro i Turchi.
A dirla anzi tutta, il nostos del Buono può perfino venir considerato una vera e propria odissea in miniatura, pregnantemente sintetizzata in queste righe: Appena ristabilito in forze, il ferito s’era accomiatato dai salvatori e, arrancando con la sua stampella, aveva percorso per mesi ed anni le nazioni cristiane per tornare al suo castello… (cfr. p.73).
Se si vuole poi tornare alla categoria del versipellis, ripresa da Bettini per il Sosia dell’Amphitruo, come non definire tali i medici di Calvino (cfr. p.16)? Tutti contenti. – Uh, che bel caso!- Se non moriva nel frattempo, potevano provare anche a salvarlo. E gli si misero d’ attorno, mentre i poveri soldati con una freccia in un braccio morivano di setticemia. Cucirono, applicarono, impastarono: chi lo sa cosa fecero[…]
Ma, per par condicio, anche i due eremiti: Non si sa bene se fedeli alla retta religione o negromanti, i quali, come accade a certuni nelle guerre, s’erano ridotti a vivere nelle terre deserte tra i due campi, e forse, ora si dice, tentavano d’abbracciare insieme la Trinità cristiana e l’Allah di Maometto. Nella loro bizzarra pietà, quegli eremiti trovato il corpo dimezzato di Medardo, l’avevano portato alla loro spelonca, e lì, con balsami e unguenti da loro preparati, l’avevano medicato e salvato.
Il chi lo sa cosa fecero, riferito agli uni, e l’accenno alla negromanzia agli altri sembrano del resto ampiamente controbilanciarsi, quasi che l’illuminista Calvino ammicchi alla dimensione irrazionale della realtà, riconoscendole, forse suo malgrado, un possibile  ruolo. Il suo è peraltro un “realismo a carica fiabesca”[4] e lui stesso riconosce di interessarsi alla fiaba per: il disegno lineare della narrazione, il ritmo, l’essenzialità, il modo in cui il senso d’una vita è contenuto in una sintesi di fatti, di prove da superare, di momenti supremi.[5]  La magia può dunque essere parte più che legittimata in una simile prospettiva.
Ma ciò che qui interessa ai fini del nostro assunto non è tanto la sua presenza (dichiarata o allusa che sia) nel romanzo, quanto il dato che, pure in questo ulteriore caso in cui il nostos si intreccia col doppio – o, se si preferisce, con la sua variante del dimezzamento – la lacerazione susseguente è sì capace di provocare una crisi logica[6], ma resta temporanea, ovvero connessa ad una dinamica a monte, ben definita, reversibile e, se rivelata, comprensibile.

Come era già inoltre avvenuto sia per l’Elena euripidea, che per l’Amphitruo plautino – molto  significativo è in tal senso il riferimento alle pinnulas ed al torulus aureus, con cui Mercurio spiega, nel prologo della palliata, agli spettatori come potranno distinguere gli dei dai personaggi (cfr. Amphitruo, vv.142-145) – i destinatari di Il Visconte Dimezzato di Calvino ne vengono a conoscenza molto prima del personaggio coinvolto o di coloro che l’attorniano, e possono divertirsi dell’equivoco, senza lasciarsi sconvolgere da un eccessivo perturbamento.
Cambiano, come ovvio, le modalità dello svolgimento delle trame e degli scioglimenti: nell’Elena, l’eidolon (il fantasma) svanirà all’improvviso, lasciandosi però dietro il pathos delle sofferenze vissute senza ragione; nell’Amphitruo, la normalità si ristabilirà grazie a Giove che metterà finalmente in chiaro gli avvenimenti della notte divenuta più lunga; in Il Visconte dimezzato, il Gramo e il Buono, bendati strettamente assieme, dopo un duello elsa contro elsa per amore della bella Pamela – difficile non risentire, nel suo nome, una chiara allusione all’accorta protagonista del romanzo, Pamela appunto, di S. Richardson – ridiventeranno un uomo intero, né cattivo né buono, cioè apparentemente non dissimile da quello ch’era prima di esser dimezzato.
Va inoltre precisato che, pure nel caso del romanzo di Calvino, il motivo delle nozze e dell’unione coniugale non si mostra solo presente ma si fonde proprio con lo scioglimento, dato che il Buono ed il Gramo sono indotti allo scontro finale per ottenere in sposa la ragazza di cui sono entrambi innamorati.
Si sarebbe dunque tentati di esclamare: Tutto bene quel che finisce bene.
Calvino è però troppo consapevole delle storture del mondo e troppo ancora provato dal conflitto mondiale da poco conclusosi per giungere ad un finale tanto “leggero”. Se Medardo risulta perciò il personaggio che, rispetto agli antecedenti classici sopra citati, possa dirsi l’unico davvero maturato e cresciuto grazie all’insolita vicenda vissuta, ciò non vuol dire affatto che ogni pezzo del variegato puzzle della realtà si sia pienamente e perfettamente incastrato. Dovremo dunque concludere anche noi con lui: Ma aveva l’esperienza dell’una e dell’altra metà rifuse insieme, perciò doveva essere ben saggio. Ebbe vita felice, molti figli e un giusto governo. Anche la nostra vita mutò in meglio. Forse ci si aspettava che, tornato intero il visconte, si aprisse un’epoca di felicità meravigliosa; ma è chiaro che non basta un visconte completo perché diventi completo tutto il mondo.

(tratto da Il ritorno del guerriero, Appunti Romani di Filologia, XVII, 2015, Pisa-Roma, pp. 119, ss.)


[1] Nell’edizione  di G. Murray,  Euripides. Euripidis Fabulae, vol. 3, Oxford, 1913, cui si riferiscono anche i versi sotto riportati.

[2] Cfr. Plauto, Anfitrione, Milano 2002.

[3] Si ricordi che l’autore aveva, tra l’altro, in qualche modo sondato il motivo del ritorno nel suo The Master of Ballantrae, 1888.

[4] Richiamo la nota definizione di E. Vittorini, apparsa sul risvolto di copertina della prima edizione de Il Visconte dimezzato, Torino 1952.

[5] Cfr. I. Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino 1980, p.56.

[6] Soprattutto sottolineata dalle battute dell’io narrante, cfr. ad es: «Una volta ancora era riuscito a ingannarci. Ma molte cose non capivo, e andai dal dottor Trelawney per parlargliene». Ma anche: «Così tra i dirupi di Terralba le due metà di Medardo vagavano tormentate da rovelli opposti.» e: «Così l’uomo s’avventava contro sé, con entrambe le mani armate d’una spada».