L’Egitto, un popolo tra rivoluzione e silenzi. Raccontato da Yasmine El Rashidi

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MICHELE BRONDINO e YVONNE FRACASSETTI 

L’Egitto, paese leader del mondo arabo  e snodo essenziale delle vie di comunicazione tra Oriente ed Occidente, è oggi al centro dell’attenzione mondiale  per la sua  grave situazione socio-politica che, volente o nolente, coinvolge in particolare tutta la regione mediterranea. La sua critica situazione interna condiziona la vita quotidiana delle masse popolari dibattute tra difficoltà economiche, di sicurezza e di democrazia;  basta ricordare  i recenti massacri tra cui quello della moschea sufi di Bir Al-Abed (con 235 morti) e quelli di agenti nel Sinai, e non ultima spia degli inquietanti problemi interni, il ben noto caso del ricercatore Giulio Regeni,  che si suppone ucciso dai servizi segreti.

Il 26-28 marzo scorso il presidente dell’Egitto, il generale Abdel Fattah Al-Sisi, è stato rieletto  con oltre il 90% dei voti malgrado un forte calo di partecipazione degli elettori rispetto alla precedente elezione del 2014 ed una pressoché totale assenza di concorrenti. Come mai? Ricordiamo qui brevemente che dopo la destituzione del presidente Mohamed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, da parte dell’esercito comandato da Al-Sisi il 3 luglio 2013, il potere politico, economico e sociale  passa nelle mani della casta militare come era già avvenuto nelle precedenti rivoluzioni:  a partire  da quella dei Giovani Ufficiali guidati da Nasser nel 1952, poi da  Sadat assassinato nel 1981 ed infine da Mubarak fino alla sua destituzione il 25 gennaio 2011 a seguito delle rivoluzioni della “primavera araba”, esplosa in Tunisia nello stesso anno sotto l’impatto delle giovani generazioni dei social networks e della società civile con una forte presenza femminile.

In questo contrastato contesto storico, Yasmine El Rashida nel romanzo Cronaca di un’ultima estate (Torino, Bollati Boringhieri, 2018) ci offre uno sguardo dal di dentro. Scrive la sua storia, la storia dell’Egitto contemporaneo, attraverso le vicende e le memorie della sua famiglia, attraverso il proprio percorso, quello di una bambina nata al Cairo in una famiglia colta e benestante, il cui progressivo declino segue le alterne vicende politiche e il susseguirsi di poteri sempre più corrotti e violenti.  Una bambina che cresce, guarda, poi studia cinema all’università e vuol filmare il suo popolo, captare le sue speranze, le sue delusioni e le sue miserie.  Finisce per scriverle riflettendo sul destino di un grande paese paralizzato dall’apatia e dal silenzio nonostante le sue successive rivoluzioni. Perché quest’apatia? È la domanda a cui cerca di rispondere l’autrice nelle tre tappe del suo itinerario memoriale, tre estati che segnano i momenti salienti della sua crescita, del suo sguardo critico e dell’evoluzione del suo paese.

L’estate 1984 è quella di una bambina privilegiata che frequenta la scuola inglese, educata da una madre dell’alta borghesia che, oltre l’arabo, parla l’inglese e il francese e che, insieme alle donne occidentalizzate del suo ceto, sembra diversa: “Hanno i tacchi alti e la borsa al braccio… ridono e buttano indietro la testa” con una disinvoltura fuori dalla tradizione. Un padre importante, vittima della corruzione e spezzato dal potere, che è costretto all’esilio, uno zio intellettuale e impegnato che si interroga sul significato delle varie rivoluzioni che non sono riuscite a cambiare il paese, e un cugino ribelle che non si arrende ai soprusi dello stato poliziesco e finisce nelle terribili prigioni cairote.

Le immagini e i discorsi stampati nella memoria di questa bambina – le ingiustizie, la miseria e il  degrado, l’onnipresenza e onnipotenza della polizia, la corruzione, lo sguardo sfuggente, le grandi speranze del paese con la svolta rivoluzionaria di Nasser, il desiderio di pace e i compromessi di Sadat, la noia e l’asservimento dei  media e dell’informazione sotto la lunga dittatura di Mubarak – tutto è già presente e tutto si ripropone nell’estate 1998 agli occhi della ventenne, che non si accontenta più di guardare ma vuole registrare con la sua cinepresa le tragedie della sua società; tutto si ripropone ancora nel 2014, dopo l’ultima rivoluzione di piazza Tahrir, alla scrittrice che vuole capire se l’Egitto saprà un giorno reagire. Seguire con lei il riprodursi e l’incancrenirsi di queste piaghe sociali, aiuta a capire lo stato di frustrazione di un popolo che vuole cambiare.

Nel suo contesto sociale privilegiato, la scuola inglese è la prima ingiustizia percepita; avrebbe voluto seguire i cuginetti alla scuola araba ma i genitori optano per l’efficienza del sistema anglosassone, “è l’unica cosa rimasta della monarchia e del colonialismo”. Pazienza se il cugino rivoluzionario si chiede “che fine ha fatto il loro patriottismo”, pazienza se è proibito parlare arabo, se la figlia dell’Ambasciatore non viene mai punita e se si studia unicamente la storia della Gran Bretagna; pazienza se rimane deluso Nanchal, il  compagno indiano, ansioso di conoscere la storia “dell’Egitto quando ha smesso di essere una colonia”, visto che la storia inglese l’ha già studiata in India. Yasmine bambina impara la differenza, impara  a stare zitta .

Fuori nella megalopoli, l’ingiustizia dilaga. Da piccola si chiede come mai i tagli della corrente elettrica non interessano i palazzi dove abitano i suoi compagni che “hanno padri importanti”, si chiede come mai la televisione continua a diffondere le immagini della miseria in Etiopia mentre lei osserva le stesse scene per le strade mentre attraversa in macchina i quartieri del Cairo. Più tardi, quando la famiglia dovrà rinunciare all’autista e lei dovrà attraversare la città in autobus zeppi “con i finestrini aperti, teste che sbucano da tutte le parti, gente appesa alla portiera con un piede dentro e uno fuori”, l’ingiustizia, la vedrà ad ogni angolo di strada. Immagini di miseria ovunque che lei vorrà riprendere, immortalare in lunghi metraggi per testimoniare ed interrogare le coscienze. Altro che il razionamento degli anni ‘90 a cui anche la sua famiglia fu costretta con il peggiorare della situazione economica, altro che le scene di pianti e urla per strappare mezzo pollo con il libretto e il codice che indicava a quanta merce avevi diritto, altro che il mercato nero, per mano degli stessi impiegati del governo e unica scappatoia per chi il libretto non lo aveva mai ottenuto. Nel 2014, la fame resta un fattore esplosivo. Yasmine ha imparato a tener d’occhio certe cose: “il prezzo dei pomodori e dell’okra (tipica verdura locale). Se l’uomo che trasportava il pane sulla testa in bicicletta  fischiettava o meno. Se la gente nei caffè guardava la TV o sedeva in silenzio. Se la radio iniziava a trasmettere canzoni patriottiche. Senza pomodori e okra non si vive”.

Il corollario della miseria e dell’ingiustizia è la corruzione e la corruzione implica prepotenza e paura. Da piccola osservava la madre che distribuiva mance per ottenere un certificato o sbrigare una pratica, da grande lo fa  pure lei per riuscire ad entrare nella prigione di Qarater dove è chiuso il cugino per motivi politici e intuisce finalmente come il padre abbia dovuto scegliere l’esilio, rimasto nel mistero e coperto dal silenzio famigliare: “il rifiuto di offrire un importantissimo contratto da lui presentato a uno dei figli del presidente, false accuse di corruzione con cui volta dopo volta, senza sosta, lo avevano distrutto”. Una corruzione annidatasi in una burocrazia ossessiva e arcana e che continua, nel 2014, a paralizzare ogni processo. Di fronte al caos e all’indifferenza che regnano ovunque, al pronto soccorso del Cairo, per esempio, dove l’autrice corre al soccorso di un amico ferito, si dispera e  conclude: “questo non ha niente a che fare con le rivolte o le rivoluzioni, ma con le basi fondamentali di una burocrazia sovraccarica e corrotta. … questa burocrazia è così moribonda che non è rimasto nessuno con cui litigare, nessuno con cui lamentarsi. È così da anni”.

Per reggere, un sistema del genere ha bisogno di un inquadramento poliziesco ermetico e implacabile. Yasmine l’ha conosciuto sin dall’infanzia. La paura l’ha già invasa quando a sei anni intitola un tema in classe  La gente che scompare. “Ho scritto della prigione. Della gente portata via. La maestra mi ha dato zero e ha detto che alla mia età non dovrei scrivere cose del genere. A casa piango e faccio leggere a Mama la mia storia. … Non dice una parola. Penso che sia arrabbiata. La rabbia silenziosa è peggiore”.  La stessa paura la scuote quando assiste alle scene di violenza, ai venditori ambulanti picchiati e portati via, alla repressione che segue i primi “sit-in silenziosi, a lume di candela”, all’università: “senza preavviso, in tutto il Paese, la polizia aveva sfondato le porte, tirando  più di un centinaio di ragazzi giù dal letto nel cuore della notte. Nessuno sapeva dove fossero finiti, se sarebbero mai ricomparsi. I genitori li cercarono, fecero domande, invano. Agli avvocati fu detto di stare buoni. Novantasette giorni dopo riapparvero tutti alla porta delle rispettive case. Non parlarono dell’accaduto. Nessuno osò chiedere niente. Dalle scollature e dalle maniche si intravedevano le cicatrici“. Le immagini della violenza poliziesca per le strade, nelle università, nei bar, nelle case costellano il racconto; dall’infanzia al 2014 non è cambiato nulla. Yasmine ha persino imparato a riconoscere i poliziotti in incognito.

I media dell’informazione fanno da supporto. Il quotidiano del governo  Al-Ahram pubblica un articolo che demonizza gli studenti protestatari: “I ragazzi si drogano e hanno rapporti sessuali. Venerano il diavolo. Praticano l’omosessualità. Potrebbero avere l’AIDS. I sit-in fanno parte di un movimento di protesta più ampio. Credono nell’anarchia. Accanto, c’è la copertina di un album di Nirvana”. Intanto la televisione coltiva il culto del presidente onnipresente e la bontà della moglie Mama Suzanne mentre sugli altri canali trasmettono solo documentari o commenti del Corano. Oggi c’è Sisi, “ci sono dozzine di canali che trasmettono 24 ore su 24… i montaggi di immagini sono diventati sempre più drammatici. Se non ci fosse Sisi regnerebbe il terrore. … Immagini del massacro di Luxor, Cristiani terrorizzati, uomini barbuti che compiono massacri. Persone uccise dai terroristi. Massacrate. Perseguitate. Immagini di  Al-Sisi. Quasi tutti quelli che conosco hanno votato per lui … Che scelta avevo? Se mi aveste dato un’altra opzione?”.

La cronaca della terza estate, quella del 2014, non vede via di uscita. La scrittrice s’interroga sul destino del suo paese, sull’impossibile cambiamento nonostante le rivoluzioni. A cosa era servita la storia?

Tutti parlano della storia a casa, di Nasser, di Sadat, dei Fratelli Musulmani, della rivoluzione. Ma quale rivoluzione se non è mai cambiato nulla? Per la madre, Nasser è colui che mandò via i suoi amici, la sua migliore amica che era la figlia del re o quell’altra che era ebrea “che fecero i bagagli e se ne andarono all’alba”. Per  il padre “nessuno sarà mai paragonabile a Nasser, Lui un vero uomo, uno del popolo, nonostante abbia commesso qualche sbaglio”. Per il cugino Dido, è l’eroe degli Ufficiali Liberi che “diedero inizio alla rivoluzione che salvò l’Egitto dagli Inglesi”, mentre per lo zio, Nasser fu un illuso e trascinò il paese in una sconfitta inarrestabile: “non aveva un progetto. Non pensava al futuro. Prendeva ai ricchi e dava ai poveri. E’ stata la cosa peggiore che abbia fatto. I poveri ottennero tutto gratis e divennero pigri … tanto ci avrebbe pensato Nasser. .. Rese anche gratuita l’istruzione che era molto costosa … Gli insegnanti non avevano stipendi adeguati e smisero di impegnarsi … tutti divennero pigri e smisero di pensare. Fu una combinazione letale”. Cosa significa letale? – chiede la piccola Yasmine – “Significa uccidere un Paese e il suo avvenire. Distruggere qualsiasi opportunità per le generazioni future. Prendere un bellissimo prato di fiori, versarci sopra una colata di cemento e aspettarsi che i fiori crescano lo stesso”. Eppure il mito di Nasser  leader del mondo arabo non si è spento, rimane un messaggio di speranza. Ma  quando si parla di politica, tutti finiscono a ricordare il “’67” (la famosa “guerra dei sei giorni” segnata dalla sconfitta dell’esercito egiziano da parte d’Israele). “Sconfitta, siamo una nazione sconfitta”.

La presenza dei Fratelli Musulmani invece, anche se costante e abbinata alla difesa delle masse silenziose, si è tinta sempre di violenza. Sono loro, dice il cugino comunista, che “hanno cercato di uccidere due presidenti. Hanno cercato di uccidere Nasser, e poi hanno cercato di uccidere Sadat. Con Sadat ci sono riusciti. Mubarak teme che uccidano anche lui, quindi usa il pugno di ferro … Sono violenti e vogliono che l’Egitto sia come l’Iran. E’ un posto buio senza libertà. Il gran numero di donne che portano il velo è un segnale di pericolo. L’Egitto non è mai stato così”. Soltanto Amina, la donna di servizio, li difende, dice che non tutti sono violenti, che si tratta di una fazione isolata, ma l’attentato di Luxor e il massacro dei turisti hanno scosso l’opinione pubblica e molti si sono allontanati dai Fratelli Musulmani.  Tutti hanno paura e non sanno più in chi credere.

L’estate del 2014, dopo l’ennesima rivoluzione,  è quella della riflessione di una bambina abituata a sentire parlare di sconfitta, diventata donna, scrittrice che guarda  il suo paese, s’interroga e si batte per la libertà. Vuole capire perché il suo popolo tace e sembra apatico, perché tutte le rivoluzioni falliscono: “Abbiamo ereditato la sconfitta, ne abbiamo ereditato l’essenza? Ci è penetrata dentro?”.

Dopo l’ennesimo golpe che ha rimosso Morsi, dopo l’ennesimo fallimento della democrazia, si sente ingannata come suo padre nel ‘67: “anch’io ora mi sentivo raggirata, defraudata di una vita, ma non ero sicura del perché, o per colpa di che cosa … Anche questa apatia, questo senso di rassegnazione, erano un’eredità?”. Il cugino finisce in prigione, il padre torna, continua a cercare la verità, torna a discutere di politica con gli amici. “L’esercito farà questo. Gli islamisti faranno quest’altro.. La mia fonte dice che gli americani hanno costretto l’esercito a lasciare vincere Morsi. E’ stata tutta una farsa”. La politica è solo inganno . Nel ’52, come nel 2011, come nel 2013. Non c’è stata rivoluzione, dice Mohamed, è l’esercito che decide tutto, usurpa la democrazia. Se neanche la rivoluzione del 2011 lo è stata veramente, rimane soltanto la frustrazione. Yasmine annota sul suo quaderno di appunti: “Adesso capisco che per cancellare tutto quello che è successo ci vogliono un trauma più grande o un’effimera euforia. Non riesco ad immaginare cosa potrebbe rimuovere le nostre delusioni più recenti, tranne forse la fuggevole incandescenza dell’amore”. Fuochi d’artificio, musica, urla la distolgono dai suoi pensieri, corre in casa, accende la TV, “il nuovo presidente (al-Sisi) occupa tutto lo schermo”.

E allora nella chiusa finale del racconto non resta altro che rivolgere, insieme alla madre, lo sguardo all’antico Nilo sull’onda della sua mitica storia  e di un’implicita speranza di riscatto per il proprio paese.