Il multilinguisimo degli scrittori piemontesi. Da Cesare Pavese a Benito Mazzi

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ANDREA RAIMONDI

La sopravvivenza del dialetto: La chiave a stella di Primo Levi

Considerata l’importanza della riflessione linguistica nella produzione di Primo Levi, in questa sezione intendo dimostrare come il multilinguismo della Chiave a stella (1978) rifletta i profondi cambiamenti che stavano trasformando la società italiana negli anni ‘70 e, dalla prospettiva di Levi, il mutato rapporto dell’individuo con il proprio lavoro. Servendomi di alcuni dati e ricerche sociolinguistiche, cercherò innanzitutto di illustrare i mutamenti linguistici del periodo. L’idioletto del personaggio principale della Chiave a stella è esemplificativo di questi cambiamenti, poiché termini tecnici (connessi cioè a un lavoro specializzato) si inseriscono in strutture sintattiche e in un lessico tipicamente piemontesi o adattati dal dialetto all’italiano. Nonostante le parlate locali fossero perlopiù stigmatizzate negli anni Settanta, e identificate come emblemi di sottosviluppo economico e culturale, esse non sparirono del tutto, anzi rimasero alla base dello stile linguistico di persone come Faussone, l’operaio-protagonista dell’opera di Levi. Allo scopo di spiegare in maniera più approfondita questi cambiamenti linguistici, e chiarire la presenza di differenti codici nel libro, mi servirò anche di alcuni studi etnolinguistici, in particolare del quadro introduttivo alla materia fornito da Lane, il quale dimostra che l’identità sociale non è fissata una volta per tutte, ma viene continuamente bilanciata e negoziata. Di conseguenza, soprattutto quando si verificano modificazioni sociali profonde, o quando si entra in contatto con culture e lingue differenti, tendiamo ad adattare il nostro modo di parlare a quello degli altri attraverso diverse modalità.

Contributi che analizzano l’aspetto linguistico delle opere di Levi sono già stati pubblicati, ma nessuno di questi è stato in grado di mettere in relazione i codici impiegati nella Chiave a stella con i mutamenti sociolinguistici del tempo, limitandosi a esaminare i termini derivati dal dialetto piemontese presenti nel testo senza però considerare le altre varietà. […]

La chiave a stella è in realtà una raccolta di quattordici storie brevi, tutte legate tra loro e aventi come protagonista un operaio torinese altamente qualificato di nome Libertino Faussone. Questi, dopo un’esperienza negativa alla catena di montaggio della Lancia, decide di cambiare lavoro e sfruttare la possibilità di girare il mondo per costruire tralicci elettrici e altre strutture metalliche. Come ammesso dallo stesso Levi, il personaggio è nato dalla combinazione di diversi operai specializzati della Fiat, perlopiù piemontesi, che l’autore incontrò nei primi anni Settanta nella città russa di Tolyatti, denominata in principio Stavropol e poi ribattezzata in onore del leader del Partito Comunista Italiano, Palmiro Togliatti. In quella lontana cittadina sul Volga, tecnici e istruttori lavoravano in un impianto automobilistico sorto in seguito alla collaborazione tra la Fiat e un’industria locale. Levi rimase positivamente impressionato dall’abilità dei lavoratori italiani e dal rispetto che i russi dimostravano nei loro confronti. Allo stesso tempo, egli era consapevole che quegli individui erano “destinati a restare anonimi, perché nessuno aveva mai scritto di loro”. Fu dunque il desiderio di salvare dall’oblio questo “patrimonio tecnico e umano enorme” la motivazione principale che spinse Primo Levi a scrivere i racconti che avrebbero composto La chiave a stella.[1]

Sebbene il nome della città non sia mai riportato esplicitamente, è a Tolyatti che Faussone s’imbatte in un personaggio senza nome—un ingegnere chimico che ha il ruolo di narratore di primo livello—nel corso di una comune esperienza di lavoro all’estero. Per rompere la noia, i due si ritrovano pressoché tutte le sere. Durante i loro incontri Faussone si abbandona a confidenze personali e a storie e aneddoti riguardanti la propria attività professionale. Sui quattordici racconti che compongono la raccolta, dieci hanno Faussone come protagonista, e circa due terzi del libro corrispondono a narrazioni di secondo livello, cioè raccontate direttamente da Faussone e non attraverso la mediazione del narratore di primo livello. Nel racconto intitolato “Off-shore”, per esempio, Faussone ricorda la sua trasferta in Alaska per assemblare un derrick, vale a dire una grossa costruzione metallica impiegata per l’estrazione del petrolio. “Batter la lastra” è invece sul padre di Faussone e sull’amore per il suo lavoro (il padre era un semplice stagnino che riparava pentole e calderoni). “Senza tempo” è perlopiù ambientato in Valle d’Aosta, dove Faussone fu inviato in occasione del suo primo, importante incarico—l’assemblaggio di un traliccio per l’elettricità. “Le zie” è l’unico racconto nel quale Faussone non è parte della fabula, poiché il narratore descrive il suo incontro con le zie del protagonista.

Levi, che poi corrisponde al narratore e all’ingegnere chimico dei racconti, è così interessato nelle storie di Faussone e nel suo modo di raccontarle che decide di ricavarne un libro. La raccolta ha così origine da un atto di ascolto: l’arte dell’ascoltare è, per Levi, altrettanto importante e decisiva come quella del narrare. Ed è alquanto chiaro in questo, almeno a giudicare da ciò che si legge nel racconto “L’aiutante”:

Eppure, ogni narratore sa per esperienza che ad ogni narrazione l’ascoltatore apporta un contributo decisivo: un pubblico distratto od ostile snerva qualsiasi conferenza o lezione, un pubblico amico la conforta; ma anche l’ascoltatore singolo porta una quota di responsabilità per quell’opera d’arte che è ogni narrazione: se ne accorge bene chi racconta al telefono, e si raggela, perché gli mancano le reazioni visibili dell’ascoltatore, che in questo caso è ridotto a manifestare il suo eventuale interesse con qualche monosillabo o grugnito saltuario. È anche questa la ragione principale per cui gli scrittori, ossia coloro che raccontano ad un pubblico incorporeo, sono pochi.

Dunque, l’atto di ascoltare e il successivo atto di raccontare ciò che si è appena appreso filtrano le storie e il modo in cui queste vengono narrate. Ed è anche per evitare la deludente reazione di un pubblico “incorporeo” che il Levi-narratore, nel riproporre le storie di Faussone, adotta uno stile debitore nei confronti della tradizione orale. Ma si tratta di uno stile solo in apparenza spontaneo, in realtà a lungo studiato ed elaborato grazie all’apporto di differenti codici, registri e stili linguistici, tutti più o meno tendenti a varietà basse della lingua. Mentre il narratore di primo livello solitamente si esprime in un italiano medio quando si rivolge in maniera esplicita, o implicita, al lettore o a Faussone, nel discorso diretto di quest’ultimo, invece, prevalgono espressioni adattate all’italiano dal piemontese, termini derivati da un linguaggio professionale, modi di dire colloquiali o popolari, e anche vocaboli stranieri (perlopiù inglesi, francesi e russi) aggiustati alla morfologia italiana. Oltre a mettere in luce la differenza culturale e di ceto dei protagonisti, le diverse varietà linguistiche, considerate nel loro complesso, partecipano alla natura multilingue del romanzo e riflettono i mutamenti in corso nella società italiana dell’epoca.

Pubblicato per la prima volta nel 1978, La chiave a stella apparve al termine di due decenni di rapide trasformazioni economiche e culturali che alterarono in profondità il paese. Mutamenti simili riguardarono anche le abitudini linguistiche degli italiani. Come sostiene Michele Cortelazzo, “gli anni Settanta” furono “il decennio di svolta per la storia recente dell’italiano”. Fu proprio durante quella decade che alcuni processi, già in corso da tempo, culminarono nell’influenza sul lessico quotidiano di linguaggi settoriali e di termini derivati dall’inglese. Nello stesso periodo, inoltre, l’impatto esercitato dai moderni mezzi di comunicazione di massa, come radio e soprattutto televisione, in grado di agevolare la diffusione di una varietà standard e uniforme a spese delle parlate locali, raggiunse vette mai toccate in precedenza. La conseguenza più evidente e significativa fu la conquista da parte della lingua italiana, che per secoli era stata una varietà scritta, della dimensione parlata e colloquiale, che invece era stata occupata fino ad allora dai dialetti. Tuttavia, la lingua nazionale, insegnata a scuola e diffusa dai mass media, non si limitò semplicemente a rimpiazzare le varietà locali; infatti, nel corso di un lungo processo “che porterà a capovolgere il tradizionale rapporto tra scritto e parlato” , l’italiano, per lungo tempo a contatto con le parlate locali, ne uscì modificato. I dialetti, dal canto loro, benché sempre meno usati, non sparirono del tutto, ma mutarono il loro impiego: dalla prolungata interferenza con la lingua normativa nacquero infatti nuove varietà intermedie prevalentemente orali.


[1] Dal libro-intervista Io che vi parlo, pubblicato nel 2016, in cui vengono riprodotte alcune conversazioni che Primo Levi intrattenne con Giovanni Tesio nel 1987, emerge che l’idea originaria del personaggio di Faussone sarebbe in realtà stata ispirata dall’incontro con alcuni montatori di una fabbrica torinese, la Sicme, che installava macchinari per smaltare il filo di rame.

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Brano tratto dal saggio di ANDREA RAIMONDI, ll multilinguisimo degli scrittori piemontesi. Da Cesare Pavese a Benito Mazzi,Grossi editore, Domodossola 2018.

«19311999. Poco meno di settant’anni separano il primo e l’ultimo testo narrativo analizzati da Andrea Raimondi in questo studio sugli scrittori piemontesi. Da Ciau Masino di Cesare Pavese, passando prima per i racconti di Fenoglio negli anni Cinquanta–Sessanta e poi attraverso gli anni Settanta di Fruttero e Lucentini, Primo Levi e Nanni Balestrini, e i Novanta di Benito Mazzi e Younis Tawfik per chiudere con La straniera, Il multilinguismo degli scrittori piemontesi propone un originale percorso attraverso il Novecento, grazie all’analisi dell’evoluzione del mix di lingue che caratterizza la narrativa piemontese. Un percorso letterario e sociolinguistico che lascia emergere in controluce la storia della regione, indagata sia nelle sue peculiarità sia, metonimicamente, come microcosmo che rappresenta la società italiana dello scorso secolo.» (dall’ Introduzione di Gigliola Sulis)

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Dopo la laurea specialistica in Lingue, Letterature e Civiltà dell’Europa e delle Americhe, Raimondi nel 2015 ha ottenuto il dottorato di ricerca presso il Dipartimento di Italiano dello University College Cork (Irlanda) con una ricerca sul multilinguismo di un gruppo di narratori piemontesi. Nel 2016 la ricerca è stata pubblicata dalla Cambridge Scholars Publishing con il titolo The Many Voices of Contemporary Piedmontese Writers. Tra le altre pubblicazioni, Vigny traduttore di Shakespeare: ‘Le More de Venise’, Il Rovescio, Roma, 2011; “Dialetto e identità nei racconti di Beppe Fenoglio”, L’Analisi Linguistica e Letteraria 21 (2013). L’autore attualmente collabora con la rivista Savej ed è impegnato in una ricerca sui contatti letterari e linguistici tra Piemonte e Regno Unito.