Rocco Scotellaro, il “poeta contadino” – 2

Lucania 61 di Carlo Levi

Lucania 61 di Carlo Levi (da Wikimedia Commons)

Seconda parte: La Letteratura attiva 

ANNA STELLA SCERBO

Non gridatemi più dentro
non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi contadini.
Beviamoci insieme una tazza colma di vino
che all’ilare tempo della sera
s’acquieti il nostro vento disperato.
Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna –
l’oasi verde della triste speranza –
lindo conserva un guanciale di pietra …
Ma nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova,
perché lungo il perire dei tempi
l’alba è nuova, è nuova.

‹‹È nato, possiamo dirlo con certezza, un mito di quest’uomo straordinario che ha interpretato dall’interno un mondo incominciando una storia autentica dei sentimenti e delle lotte di quei contadini che dopo il 1945 vollero tentare esperimenti di autonomia e di crescita politica e culturale››.

Questo si legge nell’introduzione di Nicola Tranfaglia  al poeta Rocco Scotellaro. E Fortini, nel convegno su Scotellaro a Matera 1955, organizzato dal PSI e pubblicato nel 1974, col titolo, “La poesia di Scotellaro”, afferma:

«Noi non siamo qui per fabbricare (come taluno ci ha accusato e ci accuserà) il mito di una poesia contadina; non siamo qui per nutrire la leggenda del piccolo sindaco-poeta. Siamo qui per continuare la nostra conversazione con lui». Perché «Rocco è la voce di uno di noi che, come noi, ha sentito e sofferto [...] quali possibilità illimitate siano aperte agli uomini e [...] che ha composto versi che abiteranno la nostra memoria».

È un fatto certo che alla letteratura del Meridione in generale  sia toccato un destino di marginale importanza rispetto a quella del resto della nazione, è altrettanto certo quanto dispiacevole che in tale destino, ineluttabile, sia finito anche Rocco Scotellaro, la cui eredità di pensiero e di passione politica e  letteraria non fu riconosciuta, anzi dichiaratamente osteggiata da uomini della sua stessa fede politica come Mario Alicata, Giorgio Amendola (questi si ricrederà inutilmente più tardi) e  Giorgio Napolitano.  Erano  forse apparsi  demagogici e populistici  taluni suoi atteggiamenti.  I tempi non erano pronti all’accoglienza di un poeta-scrittore  che testimoniava, con la sua opera e dall’interno, la passione di un Sud abitato, nei suoi uomini più sensibili e meno rassegnati, dal desiderio di riscatto e di libertà.

***

Nell’idea di Gramsci, «Gli intellettuali non escono dal popolo, non si sentono legati ad esso, anche se accidentalmente qualcuno di essi è di origine popolana [… ] non ne conoscono e non ne sentono i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi.»

Scotellaro, in questa idea rappresentava l’eccezionalità. Entrava invece di diritto nella prospettiva gramsciana dell’ ”intellettuale organico”.  Lo scrittore si fa carico, dall’interno e solo dall’interno, dei problemi, della storia, dei bisogni della propria terra e  senza vuotaggini retoriche, e con una letteratura di “cose” e non solo di “parole” denuncia mali secolari e si impegna in prima persona a rendere la letteratura utile, «come sono utili il grano e l’uva».

Scotellaro, resta nella realtà in cui è nato, di cui ha condiviso povertà e sottomissione, da protagonista ne legge le aspirazioni e le contraddizioni e queste rappresenta mettendo in moto «una moralità nuova».

È stata più volte tentato di avvicinare, nelle ragioni ideologiche, affettive e biografiche, Scotellaro al suo amico-maestro Carlo Levi. Cristo si è fermato ad Eboli, il romanzo di Levi, scritto a distanza, dopo che l’autore era tornato dal confino, non è paragonabile se non per la carica di denuncia e di sensibilizzazione ai problemi del Sud, agli scritti in prosa di Scotellaro, che per ammissione dello stesso Levi, si distanziava dagli altri teorici del mondo meridionale, come Giustino Fortunato e Guido Dorso, per «il suo atto di fiducia preventivo nel mondo contadino». Il giovane Scotellaro,  aveva conosciuto  Levi nel Maggio del 1946  e  si era legato a lui in un rapporto solidale e fraterno. Levi era per lui più di un amico.

«Però vi dicevo dello scrittore, che non è un amico. Non è un amico come non può esserlo il padre, la madre, il fratello. Amico è l’avvocato, il medico,[…], il prete. Quest’uomo è un fratellastro, mio, vostro che abbiamo un giorno incontrato per avventura. Ciò che ci lega a lui è la fiducia reciproca per un fatto accaduto a lui e a noi[…] È stato anche lui in galera e va dicendo che ognuno, dal presidente al cancelliere, dal miliardario al pezzente, dovrebbe andarci almeno una volta».

Durante i giorni della prigionia, insieme agli altri contadini incarcerati, la lettura del Cristo, rappresentava l’incontro ideale col maestro:

«Nelle sere seguenti, il libro lo consumammo come un pasto da zingari, da abigeatari, da amici in una festa. E già le camerate ce lo chiedevano come una sigaretta.[…] Noi ci addormentavamo felici bambini, con l’ultima parola di quella lettura che era una preghiera comune».

Eppure, lo abbiamo detto, Levi e Scotellaro  si distanziano l’uno dall’altro per la visione che hanno del Sud e per gli esiti conseguenti della loro  scrittura. Levi ha del mondo meridionale una concezione atavica e ancestrale, ne coglie il presente nell’immobilismo pressoché assoluto degli anni del confino, 1935-36. Scrive dei contadini:

«Essi non hanno, né possono avere quella che si suole chiamare coscienza politica, perché sono in tutti i sensi pagani, non cittadini: gli dei dello Stato  e della città non possono aver culto tra queste argille dove regna il lupo[…], né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti».

Scrive Giovanni Russo:

«Senza dubbio fu grande l’influenza che ebbe su di lui Carlo Levi, ma sarebbe sbagliato considerare lo scrittore lucano una sua filiazione. Mentre per Levi il mondo della civiltà contadina, pur parte di una posizione politica e sociale, era immerso nel mito della memoria, per Scotellaro era una realtà di cui dal di dentro interpretava il dramma presente, le aspirazioni, le contraddizioni, come momento di speranza e destino fatale di inarrestabile dissoluzione. Scotellaro era consapevole di questo suo obiettivo».

Scotellaro, in Per un libro sui contadini e la loro cultura, scritto programmatico per illustrare le finalità della sua scrittura, afferma:

«La cultura italiana sconosce la storia autonoma dei contadini, il loro più intimo comportamento culturale e religioso, colto nel suo formarsi e modificarsi presso il singolo protagonista».

E in una lettera a Vittorini, pone come prioritaria la necessità di scrivere poiché coincide questa, con la necessità di rappresentare  «le facce affamate dei contadini», per non dover correre il rischio che quelle facce si trasformino in «immagini che scorrono senza la possibilità di fermarne una». Dunque Levi, racconta dall’esterno, avvolgendolo in una velatura fiabesca e in una visione che si avvicina alla narrazione di un cosmo mitico e lontano «il muto mondo contadino». Scotellaro, dall’interno e con una letteratura che  si fa denuncia attiva, ne coglie il momento del doloroso risveglio.

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«La mamma aveva i capelli gonfi e lucenti. Suo padre era fabbro-veterinario, e sapeva suonare la chitarra. In casa i granai erano pieni per i tanti contadini abbonati per i ferri e le malattie dei muli. Ella aveva la faccia rosa che ho io ora, s’affacciava alla finestra e un giorno mio padre passò e la vide».

«Io ero ai primi banchi come tocca ai bravi e ai figli degl’impiegati e dei signori, i soli che potevano portare i capelli. Ero rasato come gli altri, portavo la borsa di pezza come gli altri, solo che io stavo ai primi posti».

I due brani sono tratti da L’uva puttanella, opera autobiografica incompiuta che uscì nel 1955 con la prefazione di Carlo Levi. L’uva puttanella ha gli acini «maturi ma piccoli, non pari agli altri con i quali sono costretti a lottare per la sopravvivenza nel più vasto mondo» (sono gli uomini del Sud). Il disegno dell’opera era ambizioso, doveva contenere sei parti, dalle dimissioni da sindaco al ritorno al paese. È stato detto, da critici sicuramente attenti, che l’opera risente dello scetticismo e dell’inquietudine dell’autore; il narrare e l’annotare sono usati a verifica della realtà da lui vissuta  e in tal modo a soffrirne è l’analisi del mondo contadino, delle cause della sua sofferenza. Rilevanti, ad ogni buon conto, anche per le soluzioni stilistiche tra narrato e lirico, le pagine dedicate a Tricarico:

«[…] Il paese è vuoto e se alzi gli occhi, l’aria ti prende, hai voglia di goderla, di riempirla di te; quella ti prende nelle braccia sue e si sentono le nenie che hai già sentito[…], ritornano i giorni passati con fatti che successero e le tinte di allora, i luoghi, la vigna».

L’intermediazione letteraria è ridotta al minimo, la scrittura è funzionale all’essenza della realtà narrata, specchio e riflesso del mondo dell’autore.

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Libro-inchiesta è Contadini del Sud, pubblicato nel 1954, a un anno dalla morte. L’indagine, incompiuta, riporta interviste, fatti, lettere di protesta, poesie, documenti tutti che provengono dal cuore profondo della civiltà  contadina. Di Grazia Andrea, Francesco Chironna, Laurenzana Antonio, sono alcuni dei contadini intervistati. La provenienza è di nuovo dal basso, alla fonte di una civiltà contadina  millenaria ed arcaica che non esita a  denunciare, che si dichiara affranta e avvilita, mai vinta:

«Fui trasportato in caserma e tutti uniti i carabinieri mi hanno massacrato di botte, riportandomi uno sfregio permanente al capo col mio medesimo bastone in possesso perché sono grande invalido e riempiendo il mio fazzoletto ancora di sangue».

«[…] Presi una casa, una sola stanza con 200 lire di affitto, non avevo neanche sedia per sedermi, perché non mi feci niente prima e andai a comprare a credenza quattro sedie».

Di Laurenzanache è quello tra i contadini, più sensibile ai temi sociali e che fu consigliere comunale si legge:

«Pelo rosso come me (il sindaco Scotellaro) era stato con noi dal primo giorno e ci difendeva».

«Le elezioni di Gennaio 1953 furono vinte dai democristiani perché il nostro sindaco pelo rosso si era allontanato e ci aveva lasciato per andare a guadagnare scrivendo poesie e racconti».

Giudizio senza dubbio severo e istintivo. Scotellaro seguiva anche dal suo volontario esilio a Napoli, da ‘intellettuale integrale”, le vicende della sua terra. La scrittura, anche questa volta, è costruita sulla parlata locale. Niente però ci fa pensare che si tratti di una scrittura  ingenua, poco colta. È vero il contrario.

La prima parte si trova qui e la terza qui.