Gli “Intertesti” di Giuseppe Formisano e Daniele Guolo: un incontro ben riuscito

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ENRICO PEROTTO

C’è chi si ostina ancora a pensare che una mostra d’arte contemporanea non la si possa amare, che tanto è tutto ‘concettuale’ e quindi ‘elitario’, il che tradotto vuol dire ‘incomprensibile’, ‘freddo’, senza un briciolo di attrattiva o di fascino per gli occhi e il cuore dei visitatori. Oppure si va a cozzare in mostre (o ‘mostriciattole’, come le ha chiamate al suo tempo Federico Zeri) che, sebbene siano dedicate a certi ‘mostri sacri’ (sempre i soliti) dell’arte di Ottocento e Novecento, alla fine risultano messe su malamente, con sciatteria, furbizia e approssimazione. Non è per niente questo il caso, si tranquillizzi il lettore, della doppia personale di Giuseppe Formisano e Daniele Guolo intitolata Intertesti e inaugurata venerdì 2 marzo scorso in Palazzo Samone a Cuneo. I due artisti, entrambi docenti al Liceo Artistico “Ego Bianchi” di Cuneo, insieme alla curatrice Fulvia Giacosa, studiosa di risaputa serietà e acume critico, hanno confezionato un’esposizione di elaborati pittorici e di disegni a gessetto, grafite, olio e pastello di manifesta bellezza, capace davvero di trasmettere al pubblico inaspettate emozioni, avvolgendolo anche in un’atmosfera pervasa da vibrazioni sensoriali positive. Nelle cinque sale a disposizione degli artisti, infatti, si viene accolti da ambienti luminosi e aperti in successione l’uno dopo l’altro, senza soluzione di continuità, e si resta altresì colpiti dal modo scrupoloso e sapiente con cui sono state ordinate le opere sulle pareti del piano nobile del Palazzo. A partire dal 2013, i nomi di Formisano e Guolo si ritrovano inseriti in diverse e notevoli mostre collettive organizzate in Cuneo e nel territorio della Provincia; tuttavia, è la prima volta che, grazie al sodalizio amichevole con Giacosa e al suo pungolo intellettuale, i due artisti hanno potuto creare un parallelo diretto tra i loro mondi espressivi, motivato sia dalla reciproca “vocazione intertestuale”, sia dall’esistenza “di una sottesa rete di relazioni tra le rispettive ricerche”1. Siamo in presenza di un idem sentire, di una convergenza di prassi artistiche che solo in superficie appaiono agli antipodi, mentre, in realtà, presentano un’evidente complementarietà, fondata, ha chiarito Giacosa, su “una coniunctio oppositorum di vitalità e melanconia; scavando appena ci si accorge quanto i termini siano interscambiabili: le invenzioni di Formisano sono un farmaco che guarisce il grigiore, le meditazioni di Guolo hanno spiragli di serenità acquietante”2. Un esito comune, quindi, a fronte di due strategie divergenti di fare arte, che mirano però entrambe a rifondare il presente, ad opporre il proprio immaginario costitutivo di segni, forme e colori all’apatia esistenziale e alla sempre più diffusa anestesia estetica con cui siamo costretti a convivere.

Giuseppe Formisano, Nuvola (War Games) 2016

Giuseppe Formisano, Nuvola (War Games) 2016

Così, sia Formisano che Guolo operano nel solco dell’arte contemporanea in conflitto con le convenzioni del mondo, impegnati sul fronte di quella che Achille Bonito Oliva ha chiamato “riabilitazione della storia”, cioè più precisamente della “neostoria”, che consiste in una “narrazione del futuro impossibile. Un’acrobatica spaccata in verticale sull’orizzonte piatto del ‘pensiero unico’”3. I loro processi creativi sono qualificati da principi comuni come la contaminazione, lo sconfinamento, il cortocircuito culturale e la produzione di trame figurali frutto di un’immaginazione libera e sorprendente.

Giuseppe Formisano, Nuvola-totem, 2016

Giuseppe Formisano, Nuvola (Totem), 2016

Nello specifico caso di Formisano, la sua visibilità si nutre di nomadismo, revivalismo, ludicità. Il retroterra locale che lo caratterizza è la calda tempra dei colori degli affreschi pompeiani, che gli ha trasmesso quell’energia vitale del ”fuoco” rilevata da Giacosa e testimoniata da opere di impronta informale di forte impatto psicologico, come Rosso per due lunghi segni del 1986. Formatosi per un breve periodo di studio anche alla Facoltà di Architettura, oltre che in seguito all’Accademia di Belle Arti, e attivo nel campo dell’illustrazione dei libri per l’infanzia, Giuseppe considera lo spazio delle sue composizioni pittoriche gioiose e coloratissime come un luogo di accadimenti meravigliosi, gli stessi, in fondo, che il poeta napoletano Marino ha ricercato nei suoi versi (“chi non sa far stupir vada alla striglia”). Formisano ama il paradosso, l’accostamento bizzarro e giocoso di frammenti iconici tratti dal mondo più vario dei linguaggi massmediali, ma resi con rigore mentale o “scienza immaginativa”, secondo la giusta definizione indicata da Giacosa. Inventa architetture del tutto improbabili sullo sfondo fiabesco di cieli madreperlacei trapuntati di stelle impalpabili (si veda, ad esempio, Studio per paesaggi con architetture sghembe del 1993). Immagina citazioni spiazzanti di architetture postmoderne (Ziggurat, 2017) e combina successioni in verticale, apparentemente incongrue, di tartarughe, pesci ed elefanti, clessidre, poliedri e silhouettes filiformi di acrobati, che reinventano i mondi fantasiosi della bellezza appartenuti alla nostra infanzia, avvolti da un contorno nebuloso di minime tracce segniche e, come ha scritto Giacosa, lasciate “ondeggiare sul mare bianchissimo del fondo” (Nuvola (Tutto per aria), 2018).

Daniele Guolo, Il giardino dei peschi fiorenti, 2013

Daniele Guolo, Il giardino dei peschi fiorenti, 2013

Ed eccoci di fronte agli sviluppi dell’arte profondamente idealista di Guolo, segnata in primis da un empito barocco e dalla predilezione per gli intrecci di temi iconografici tratti dalla tradizione iconica sacra, come quello sindonico, sospesi in una dimensione rituale, che lasciano trapelare l’intento di rappresentare un atto di sublimazione, di sostituzione dell’uccisione del martire con un forte richiamo al gesto altrettanto violento della soppressione e della consumazione culinaria degli esseri animali, da considerarsi pur sempre come portatori di animus, alla pari degli esseri umani (Decollazione, 1994). Una vena ironica e neopop è riscontrabile invece in una serie di opere a gessetto degli inizi degli anni Duemila, dove sembra di vedere reinventata la maestria imitatoria dei pittori fiamminghi, ma qui il gioco si fa eccentrico, perché a ben guardare ad essere imitato in trompe-loeil è un fiore di plastica, con codice a barre, che dichiara quasi il suo sfottò (Ricordati di innaffiare, 2001). La mostra, quindi, rende merito ala parte del lavoro di Guolo che da ultimo è più squisitamente orientata a cogliere, come ha precisato Giacosa, il concetto del “consumo del tempo” con sensibilità poetica e musicale. Daniele possiede l’indole del cercatore di immagini, in particolare di scatti fotografici perlopiù degli anni Venti e Trenta, scartati e ritrovati sui mercatini dell’usato, o, meglio, da cui l’artista si è lasciato piuttosto trovare e che colleziona pazientemente. Da essi trae ispirazione per fissare sulla carta un mondo di figure evanescenti, che abbandonano la loro originaria “condizione di promiscuità occasionale” per riemergere sottoforma di nuove identità, sottoposte talvolta anche a minime correzioni o integrazioni grafiche, con il fine sempre di ricreare nuovi contesti in cui lasciare accadere nuovi destini di vita. Tali figure, che Guolo “rielabora in varie tecniche” (“calcografie, grafiti, gessetti, pastelli, oli, solventi”), si presentano, come ha scritto Giacosa, “racchiuse in cornici-soglie tra percepito e immaginato”, e trapelano come labili impronte al di là della soglia indefinita di preziose porcellane in forme orientaleggianti. “La porcellana è l’Arcano”, ha ricordato Edmund de Waal, e “’Arcano’ è un termine piacevolmente vicino ad Arcadia”4. Ecco, quei “vasi” di Daniele, come per esempio Il giardino dei peschi fiorenti del 2013 o Come quando lo incontrai del 2017, che Giacosa ha definito “araldi di svaporate figurazioni” e che “appartengono alla categoria del ricordo, incerti tra trascendere e mostrare”: rappresentano certo un’eco della corrosione insita nella natura e nelle opere dell’uomo, ma sono anche un viatico per procedere all’interno di quello che Giacosa ha evidenziato come lo “spirito delle cose della cultura cinese”. Per Daniele, insomma, la fragilità delle cose trova un suo riscatto proprio nello spazio etereo e trasparente delle superfici dei suoi vasi, che hanno la materia dei sogni, in cui far rivivere angoli di giardini esotici, e dove si manifestano arcani di bellezza e di armonia ritrovata.

Daniele Guolo, La volière 2017

Daniele Guolo, La volière 2017

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1F. Giacosa,Un incontro non casuale, inIntertesti. Giuseppe Formisano – Daniele Guolo, Palazzo Samone, Cuneo, 2-25 marzo 2018, Catalogo della mostra, a cura di Fulvia Giacosa, Cuneo, Nerosubianco, 2018, passim. Orari di visita: dal giovedì al sabato, ore 16,00-19,00.

2Ibidem.

3A. Bonito Oliva, La ricreazione delle arti, in RICREAZIONI. L’arte tra i frammenti del tempo, a cura di A. Bonito Oliva, Milano, DeriveApprodi, 2017, p. 29.

4“Dev’esserci una parentela, ritengo, tra il primo segreto della porcellana bianca e la promessa di un desiderio esaudito, una sorta di Arcadia”. Cfr. E. de Waal, La strada bianca. Storia di una passione, Torino, Bollati Boringhieri, 2015, p. 20.