Giornata mondiale della poesia

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GABRIELLA MONGARDI – SILVIA PIO

Ho perso il conto (collana di haiku)

Ho perso il conto
dei giorni dell’attesa,
e delle notti –
ho perso il senso
del tempo e dello spazio,
e dell’assenza.

Occhieggio e orecchio
se un lampo familiare
di soprassalto
mi fa vibrare –
se fende una parola
la mia prigione.

Con la mia lente
d’ingrandimento cerco
le tracce e i segni
del tuo passaggio –
come un cane fedele
attende odori.

g.m.

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Dammi la mano

Dammi la mano lungo le scalee
che discendono a Porto Vecchio -
relitti di navi
abbandonate, moli e bitte
dove nessuno più attracca,
battelli in partenza soltanto.
Dammi la mano, mostrami
i passaggi – la ripa frana
in un inarrestabile congedo…

E se la nebbia
ti nasconde alla mia vista
cercherò le tue orme sulla sabbia
dimenticata dal mare fra gli scogli
o nella schiuma che increspa le onde -
e sarà la tua mano
che stringerò nel tuffo
tra aria e acqua, la tua mano
che mi saluterà per ultima,
da lontano.

g.m.

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Abbracciami

Abbracciami
come non mi hai mai abbracciata,
come non hai mai abbracciato nessuna.
Avvolgimi
nel velo nuziale delle tue promesse
nella cenere dei tuoi sogni
nelle spire del tuo destino.
Risucchiami
nella minaccia della tua ombra
nel labirinto del tuo deserto
nel ghiaccio della tua notte.
Stringimi,
stringimi forte –
nell’abbraccio
di un’unica
Morte.                                                     (Londra, Grenfell Tower, 14 giugno 2017) 

g.m.         

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Questo non so pronunciare:
dal bagaglio di frasi ormai banale
ammiccano parole
logore idee che non vale nutrire.
Davvero non so dipanare
i fili di ragione e commozione
come rampicanti ribelli
in questa rete imbrogliati.
Neppure so dire.
che la voce a volte crea
e manda in mare storie
che poi non si possono quietare.
Scrittura delle viscere
che non so decifrare.

s.p.

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All’uomo

Quando in anticipo sul tuo stupore
verranno a chiederti del nostro amore
a quella gente consumata nel farsi dar retta
un amore così lungo tu non darglielo in fretta
(Fabrizio De Andrè)

Trent’anni che paiono cento
subitanei spariscono ora
mentre macchio di memoria
il mattino.
Bello di improvvise passioni
e di troppe occasioni sfrontato
sorrisi indossavi anche quando mentivi
sorprese anche quando mai vile
tradivi.
Non più mi figuro la puntuale finzione,
dal groviglio di insolenza
il cespuglio si fece rovo.
Franato quel tempo, quel prato
perduto il momento d’imprudenza
ingannato l’acerbo grumo di vita
che sfumando non fece rumore
svaporando nella luna come lama
d’oblio.
Ma una ruga ha svegliato quel giorno
una rima, una rosa
in anticipo sullo stupore del mondo.
Ora il pendolo batte la resa
non è questo secolo un modo di dire,
infinito è il confine del tempo
tra una vita perduta e trovata
e un angolo scuro nello scarto del viaggio.
Mi ritrovo ad uno scalo
imprevisto.

s.p.

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Alla donna

Il sole che calava già
rosseggiava la città
già nostra ed ora straniera
incredibile e fredda
(Francesco Guccini)

Il momento è arrivato
di questo pomeriggio
che gentile ora ci prende
sottobraccio nel viale,
ma le parole faticano a venire.
Dissimili eravamo con palpiti uguali:
domeniche di studio e cioccolato,
racconti di rotte ancora tutte da inventare.
Nel cortile dell’infanzia con la vista sul muro
s’apre chiara tutta la distanza
per qualcosa non detto allora
impossibile a dirsi ora.
Gli anni andati,
dove andare potevamo noi?
Io son rimasta discosta
correndo sempre avanti
nella realtà parallela di un’esistenza
senza appigli né consigli.
Tu hai girato in tondo
toccando tappe altisonanti
pensando a convenienza e congruenza
del mondo e dell’età.
Nella città camminiamo ormai straniere
trent’anni in poche frasi
ricordi che sanno di commiato:
non sembra affatto ieri.
Guardiamo le luci nelle case
la forma delle cose
nel rosso spaiato
e aspettiamo la sera.

s.p.

(foto di Bruna Bonino)

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