Le bimbe di Terezín

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GABRIELLA MONGARDI

È visitabile presso l’Antico Palazzo di Città a Mondovì Piazza, fino al 17 febbraio, la mostra itinerante “Le bimbe di Terezín” di Angelo Ruga, inaugurata il 26 gennaio, vigilia della “Giornata della Memoria” dedicata alle vittime della Shoah.

Il pittore, scultore e ceramista Angelo Ruga (Torino 1930 – Clavesana, CN, 1999), che aveva avuto un fratello deportato a Dachau, rimase profondamente turbato dalla notizia dell’esistenza di un campo di concentramento destinato ai bambini, quello di Theresienstadt, oggi Terezín, nella Repubblica Ceca, e tra il 1986 e il 1992 realizzò un ciclo di sculture e pitture in cui mise al servizio di quel tema la propria poetica, fondata su moduli di astrazione geometrica e parvenze naturalistiche.

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Si tratta di dieci quadri e altrettante monocotture in gres, quasi tutte accompagnate da versi in cui l’artista si rivolge alle bambine stesse, dà loro un nome, ne mette a fuoco gli occhi neri, i capelli di seta, la voglia di giocare, o il numero tatuato sul braccio, le violenze subite, il forno che le attendeva… Perché, quando i Russi il 9 maggio 1945 entrarono a Theresienstadt, soltanto un centinaio di bambini erano ancora vivi, dei circa 15.000 che erano passati in quel campo.

Si crea come un cortocircuito tra le parole, le sculture e i quadri: di primo acchito verrebbe da dire che le parole sono superflue, addirittura stonate: meglio il silenzio del quadro e della scultura che affidano ai segni, ai colori e alle forme il loro “messaggio”. Poi si capisce che in realtà sono complementari, perché le bimbe scolpite nei busti o disegnate nei quadri non hanno i lineamenti del volto: alcune hanno seni acerbi o un colletto a onde, un nastro o i capelli – ma nessuna ha occhi, naso, bocca: questi sono presenti solo nei versi.

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Giustamente il curatore della mostra Giorgio Olcese, Proboviro dell’Associazione Culturale “Angelo Ruga”, scrive: «Le “Bimbe di Terezín” sono come trasfigurate, liberate dall’orrore. […] Sembrano quasi la solidificazione di nuvole di fumo emergenti dai camini dei forni crematori».

Non si possono non citare le parole del filosofo Theodor W. Adorno: “Forse è sbagliato aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia […]; è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena”. 

Non è certo serena l’arte di Angelo Ruga, anzi: è un’arte severa, scabra, tanto nell’uso di materiali ruvidi quanto nei segni graffianti, che adempiono perfettamente l’intento di incidere nelle coscienze, stimolando la riflessione che comandava Primo Levi: «Meditate che questo è stato».