La lezione del passato per le sfide di oggi: ospitalità e accoglienza – 2

Foto-Bruna-BoninoSTEFANO CASARINO

Il nostro tempo è funestato da problemi gravissimi: un mondo diventato improvvisamente troppo piccolo assiste impotente da una parte ai recenti, tremendi fatti di Bruxelles, Parigi, Nizza, Londra, Berlino, Barcellona e dall’altra a quasi ininterrotti naufragi, sbarchi, esodi di fortuna lungo tutte le coste del Mediterraneo.

Alti, troppo alti i costi di vite umane; difficile ragionare a caldo sul dolore e sulla rabbia che certe notizie immediatamente suscitano, estremamente arduo fare la tara delle tante speculazioni pseudoreligiose e pseudoideologiche che fanno di tutto per rinfocolare l’odio e lo scontro tra le civiltà. Dobbiamo, però, comunque provarci: e in ciò possiamo, dobbiamo farci aiutare dalla cultura, proprio da quegli studia humanitatis oggi così negletti, che invece ci danno indicazioni, suggerimenti: ci insegnano, insomma, ancora e davvero qualcosa di importante.

L’OSPITALITÀ NEL MONDO GRECO

L’OSPITALITÀ NEL MONDO ROMANO

Passando alla Roma classica, la latinità, culturalmente deferente verso la grecità, non ci offre concetti o paradigmi nuovi riguardo a questo tema, ma ha il pregio grandissimo di tradurre in prassi e in norma ciò che è stato elaborato altrove. È sufficiente, allora, riflettere su due “particolarità” giuridiche: la tessera hospitalis, una sorta di antenato del nostro “passaporto” e il praetor peregrinus, una magistratura particolare, la cui istituzione può essere considerata forse come prodromo del diritto internazionale. La tessera hospitalis era una tavoletta, di forma svariata e di materiale diverso (osso, avorio, bronzo, ecc…), sulla quale venivano incisi i nomi dell’ospite e dell’ospitato: serviva da riconoscimento e da garanzia perché gli stranieri potessero accedere e commerciare a Roma. Ed è proprio grazie a una tessera hospitalis che avviene il felice riconoscimento (l’agnitio) dell’identità del Poenulus (letteralmente “il Cartaginesino”), commedia plautina del 197 a.C.

Nel quinto atto¹⁸ compare in scena Annone, un cartaginese che si è recato nel luogo in cui si svolge la vicenda (Calidone, in Etolia), perché sa che qui abitava una volta il suo ospite Antidamante, ormai morto: ma è rimasto il suo figlio adottivo, Agorastocle, al quale egli sta portando la tessera ospitale che ha conservato per farsi riconoscere (v. 958: ad eum hospitalem hanc tesseram mecum fero: “porto con me questa tessera ospitale per lui”), in modo che lo possa aiutare a ritrovare le due figlie che gli sono state rapite. Avviene esattamente così: appena Agorastocle vede la tessera, riconosce che è come quella che possiede anche lui (v. 1049: est par probe quam habeo domi, “è identica a quella che ho a casa”) e così Annone può esclamare gioiosamente: «O mio ospite, salute davvero! Tuo padre Antidamante è stato mio ospite, dopo esserlo stato di mio padre e ci siamo scambiati questa tessera ospitale». Ma subito dopo si appura che anche Agorastocle è originario di Cartagine, da cui è stato rapito quando aveva sette anni, che i due sono zio paterno e nipote e che le due figlie che Annone cerca sono proprio lì: la più grande andrà in sposa del cugino, col consueto lieto fine che caratterizza la commedia.

Due cose, però, vale la pena sottolineare: in tutta l’opera il tema dell’ospitalità è essenziale e Plauto mette in scena dei nemici, dei cartaginesi (nel 197 a. C. le guerre puniche non erano affatto concluse), che riscuotono la simpatia del pubblico.

Il praetor peregrinus fu, invece, istituito nel 242 a.C., quando stava terminando la prima guerra punica e aumentavano sempre più i rapporti economici con gli stranieri grazie all’espansione romana nel Mediterraneo. A tale magistrato fu assegnata la competenza nelle controversie tra cittadini romani e stranieri o tra stranieri: ciò determinò la nascita di una “giurisprudenza creativa”, che affermò e diffuse contratti economici quali la compravendita (emptio/venditio), la locazione (locatio/conductio), la società (societas) e il mandato (mandatum), accessibili sia ai Romani che agli stranieri e si caratterizzò per la duttilità e la rapidità nelle decisioni delle controversie. Il praetor peregrinus inizialmente si contrappose al praetor urbanus, che giudicava le cause relative a chi godeva della piena cittadinanza (cives pleno iure) in modo più solenne e formalizzato; restò in vita fino al 212 d.C., quando la Constitutio Antoniniana de civitate estese la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero. L’incontro/confronto tra genti diverse e la necessità di normare i rapporti tra cittadini e stranieri, tra chi accoglie e chi viene accolto, hanno dato, quindi, uno straordinario impulso al diritto, per quanto concerne sia i rapporti tra i singoli (diritto privato) che quelli tra i popoli (diritto internazionale).

La cultura cristiana, poi – di cui troppo spesso si evidenzia lo iato e troppo poco invece si coglie la connessione con la cultura classica – continua e potenzia l’etica degli antichi, conservandone persino il lessico. Ai fini del nostro discorso, è sufficiente leggere rapidamente qualche passo: a esempio, il Vangelo di Matteo (25, 34-35), dove Gesù dice: «Venite, voi benedetti del Padre mio, e ricevete il regno preparato per voi sin dalla creazione del mondo. Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; sono stato forestiero (ξένος) e mi avete ospitato»²⁰. Il termine che compare è, appunto, ξένος (si noti: non βάρβαρος): sarà accolto in Cielo chi è stato pronto ad accogliere su questa terra; il valore dell’ospitalità è, ovviamente, da Gesù riconosciuto e addirittura santificato. Paolo, poi, nella Lettera agli Ebrei (13, 1-2) così scrive: «Permanga la fraternità. Non dimenticatevi dell’ospitalità (φιλοξενία), per cui alcuni ospitarono a loro insaputa degli angeli». Φιλοξενία, cioè “l’amicizia, la disposizione favorevole nei confronti dello straniero; non la ξενοφοβία, “la paura per lo straniero”, che è la vera responsabile dell’odio e del rifiuto aprioristico dell’Altro: di un Altro, si badi, che si presenta come bisognoso, profugo; non come un barbaro che viene a conquistare o a imporre le sue idee. È fondamentale distinguere e ritornare al punto da cui siamo partiti: attualizzandolo, ξένοι sono tutti coloro che ci chiedono rifugio, perché fuggono dalle guerre e dalle carestie, perché giungono come Odisseo, privi dell’essenziale e dopo essere scampati a esperienze tremende; βάρβαροι, invece, coloro che uccidono l’ospite, e non importa neppure per quale motivo: certamente non è un alibi, semmai un’aggravante quello di farlo in nome di un Dio che si chiama in causa a vanvera.

(da “Nuova Secondaria”, n. 5, gennaio 2018)

Foto di Bruna Bonino