Diario di una giovinezza, undicesima puntata

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FELICE BACCHIARELLO

La ritirata

Ci raggiunse al nostro posto l’ordine di ripiegamento e, da questo momento, altro non mi balena innanzi agli occhi che una enorme massa di soldati vestiti in tutte le fogge proveniente da diversi punti e tutta convergente in una colonna centrale (fa ricordare la descrizione, nell’Apocalisse, dell’adunata finale, al suono delle trombe divine) snodantesi come un gregge senza ovile, senza pastore, cercando invano una via d’uscita; una massa di uomini imprecanti, urlanti come forsennati, sorretti dallo spirito di sopravvivenza, che si chiamavano a vicenda come naufraghi in balia delle onde.

Poche si presentavano le probabilità di salvezza, ed infatti questo fu ampiamente dimostrato dall’esiguo numero dei reduci da quel fronte; da quello stesso da cui Napoleone, vinto, a capo chino, seguito da pochi uomini unici superstiti del suo formidabile esercito, un giorno tornava in Francia a ricevere il disprezzo del popolo che poco prima lo aveva portato in trionfo.

Si retrocedette a marce forzate (70 chilometri senza sosta) nella neve, con la tormenta, a 40 gradi sotto zero, per due giorni senza incontrare resistenza da parte russa. Quanti mancavano già alla prima tappa! Vinti dal freddo, sfiniti, divorati dalla febbre, molti erano caduti nella neve esausti, senza più rialzarsi. Bastava che uno avesse avuto la sventura di inciampare e fosse caduto per non più essere in grado di rialzarsi. Molti poi trovando dei magazzini abbandonati avevano approfittato dell’occasione per bere abbondantemente, cognac, anice e marsala, parendo di ricevere forza dal liquore, ed invece, passato il primo fumo, eccoli accasciarsi a terra, ubriachi, le braccia distese sulla neve gelida ed il volto proteso verso il cielo nella notte nera. Così già nella prima notte il nostro cammino era disseminato di cadaveri, triste visione che doveva durare per ben oltre quindici giorni, sempre più numerosa, ogni giorno, la schiera dei condannati a rimanere per sempre nella inospitale steppa, insepolti, in pasto ai corvi.

Avvenuti i primi scontri con i Russi, che già erano penetrati ovunque e che ognuno aspettava di vedersi arrivare addosso da ogni parte, anche i reparti più compatti furono disorganizzati e danneggiati come successe al mio Battaglione con tutto il resto della divisione.
Da ogni lato sparavano le armi automatiche perché all’arrivo in ogni paese era giocoforza combattere con i Russi che già lo presidiavano. Ovunque era la morte. Per procedere, in molte località, si era costretti a calpestare i resti dei nostri fratelli che coprivano letteralmente il terreno. Chiunque, colpito in pieno, ferito, sfinito dalla fame, dalla febbre e dal freddo, si accascia al suolo, ivi trovava morte sicura, perché le membra venivano invase dal gelo ed in pochi istanti, nella precisa posizione in cui si era accasciato, rimaneva assiderato. Incredibile con quale celerità il cielo si impadronisce dell’uomo.

Muli, slitte, camion passavano addosso questi corpi, da appena mezz’ora assiderati, senza produrre sugli stessi il minimo segno, tanto erano induriti, ed i corpi dei congelati da poche ore erano così bianchi da confonderli con la neve.

Mentre lungo il cammino cadevano a migliaia gli uomini, un sottile nevischio, che specialmente nei primi giorni non mancava mai, ne copriva le spoglie, e così saranno rimasti fino a primavera. Povere mamme che ancora aspettano il ritorno dei loro figli, spose, bimbi, in quale triste illusione vivono!

Così durò la vita per diciassette giorni, da un paese all’altro, senza mai potersi concedere una notte di riposo, tutt’al più due o tre ore, poi svegliandosi di soprassalto alla sparatoria delle mitraglie, dover correre via all’impazzata per fuggire, se quello era destino, al piombo nemico e alla cattura.

Si mangiava quando capitava l’occasione di poter arraffare in qualche isba un po’ di patate e farle cuocere nel forno, standosene qualche momento, il puro necessario, al caldo, al riparo, per poterle mangiare lesse. Ricordo il furore con cui fu preso d’assalto un cavallo caduto senza che nessuno avesse pensato ad ucciderlo. Decine di uomini, resi selvaggi e furibondi all’inverosimile dalla fame, spingendosi, urtandosi e persino insultandosi, coltello alla mano, si gettarono ad ondate sulla povera bestia, che in sulle prime, con il capo rialzato, con gli occhi intelligenti e tristi, impotente, guardava e seguiva, nello spasimo, lo svolgersi della brutale scena sulle sue carni, fino alla completa spolpatura delle sue cosce. Poi anch’esso dissanguato e vinto dal gelo, si abbatté al suolo alla mercé di altri affamati che seguivano, fino a lasciare sul terreno null’altro che uno scheletro stecchito. Similmente, a centinaia e centinaia, si ripetevano queste scene, lungo la pista del triste cammino. La carne asportata si mangiava cruda cammin facendo o, capitando in vicinanza di case, sia abbrustoliva quel tanto che bastava appena da affumicarla, tanto si era impazienti ed impossibilitati a resistere più oltre agli stimoli della fame.

(Continua)

Fonte dell’immagine: Wikipedia

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