Dal diario di una trentenne

25-novembre

GABRIELLA MONGARDI.

Avevo undici anni quando sono stata “molestata”. I miei genitori, allora, non avevano dato peso alla cosa, forse per proteggermi. E poi, l’understatement è la cifra della nostra famiglia. Minimizzare, non drammatizzare sono le nostre parole d’ordine. Solo oggi ho il coraggio di parlarne, dopo aver letto, in un articolo di Elisabetta Rasy, affermazioni coraggiose e controcorrente, come queste:

«Il caso Weinstein ha un merito: ha messo in campo, oltre a uno smodato desiderio di dire la propria opinione e di creare tifoserie contrapposte, un interessante pregiudizio basato sostanzialmente su un unico capo d’accusa: se molestie ci sono state andavano smascherate subito e invece, arrivando anni e anni dopo i fatti, la denuncia delle donne è in colpevole ritardo. Vero, giusto, proprio così, non si potrebbe mettere meglio a fuoco la situazione: la parola delle donne è in ritardo. Solo che non si tratta di quei venti anni dai fatti, cioè dalla prepotenza sessuale del produttore americano. Gli anni sono molti di più: sono secoli e millenni. La parola femminile sconta un ritardo infinito per essere stata tacitata da un inviolabile obbligo di silenzio lungo tutto il corso della storia. È davvero da molto poco che ha conquistato uno spazio pubblico, e solo qua e là nel mondo uno spazio di ascolto. Ed è un ritardo certamente colpevole, essendo la colpa però non di chi non può parlare ma di chi impedisce all’altro di farlo: non è un silenzio qualsiasi, è l’impossibilità di parola che sempre si verifica quando c’è uno sbilanciamento dei poteri, uno squilibrio dei diritti».

Ma quello che più mi ha lasciata di sasso è la battuta di un collega durante il coffee-break in ufficio, stamattina. Eravamo in tre, io ero l’unica donna. I due maschi parlavano appunto di molestie sessuali sul lavoro, con un tono leggero – per non dire frivolo – che  mi sembrava decisamente fuori luogo. Per farli smettere ho confessato, in forma assolutamente asettica ma scandendo bene le parole e guardandoli negli occhi: «A undici anni sono stata molestata da uno sconosciuto, in pieno giorno». E per tutta risposta mi sono sentita dire da uno di loro: «Anch’io sono stato ripetutamente molestato da signore e signorine e, in un paio di occasioni, anche stuprato. Forse è venuto il momento di parlarne pubblicamente. Non mi sembra giusto che tutti gli uomini siano lupi cattivi né che tutte le donne siano Cappuccetto Rosso. Che, se vogliamo, alla fine della storia il povero lupo ci rimette la pelle mentre Cappuccetto Rosso ricomincia a puttaneggiare nei boschi». 

Mi sono cadute le braccia e non ho saputo replicare niente. Neanche che almeno nella favola muoiono i lupi, nella realtà le donne… E che io non stavo proprio “puttaneggiando”: stavo semplicemente tornando a casa, da sola. O la libertà di movimento è una colpa, per una ragazzina?

Gli manderò il link all’articolo, forse si renderà conto dell’insensibilità dimostrata. E per un po’ starò alla larga da lui.