L’arte della parola dall’antichità a oggi

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GABRIELLA MONGARDI.

Nell’ambito dell’iniziativa “Un pomeriggio alla scoperta di un libro” organizzata dalla Biblioteca Civica di Mondovì, verrà presentato mercoledì 13 dicembre a Mondovì nella Sala Scimé (corso Statuto 11), alle ore 15, il volume L’arte della parola tra antichità e mondo contemporaneo, a cura di Amedeo Alessandro Raschieri e Stefano Casarino. In esso sono raccolti gli interventi tenuti dai proff. Stefano Nasi, Gianluca Cuniberti, Lia Raffaella Cresci, Stefano Casarino, Amedeo Alessandro Raschieri, Matteo Grosso, Sergio Giuliani, Silvia Fenoglio, Ennio Desderi, Stefano Sicardi, Massimo Cavino, Paolo Heritier al Convegno dell’Associazione Italiana di Cultura classica (AICC), svoltosi a Mondovì tra aprile e ottobre 2014. 

Come evidenziato nella premessa dal prof. Casarino, presidente dell’AICC Cuneo, è di fondamentale importanza riflettere sul potere del linguaggio e sull’arte della parola proprio oggi,  “in quest’epoca in cui spadroneggiano selfie, tweet e SMS”, perché “senza linguaggio non esiste conoscenza” e non esiste società. “Le idee esistono solo se abbiamo le parole per nominarle e descriverle”, e la vita sociale e politica presuppone la capacità di articolare un discorso organico, adeguato alle varie situazioni ed esigenze comunicative. E questo lo insegna la retorica, nata nella Grecia antica. Per questo il libro si muove in prospettiva diacronica: parte dai Sofisti e da Senofonte per arrivare al diritto e alla politica attuali. Per questo i vari saggi che lo compongono, per quanto specialistici e rigorosi dal punto di vista scientifico, hanno un taglio divulgativo che li rende accessibili anche ai non-specialisti, per l’interesse sempre vivo suscitato dai problemi affrontati e per la coerente chiarezza espositiva.

Il prof. Nasi (Potere e parola nella cultura  dei Sofisti) mette in risalto lo stretto rapporto che lega parola e potere nella cultura sofistica, nell’Atene del V sec. a. C. Perciò anche gli studi linguistici e retorici più tecnici – come quelli di Prodico e di Gorgia – avevano in realtà implicazioni politiche, perché “chi possiede la parola possiede il potere; chi detiene il potere impone la sua parola”.

Con il prof. Cuniberti (La retorica nascosta e smascherata: Senofonte e l’arte socratica delle domande retoriche) si scopre che un artificio stilistico come l’uso delle cosiddette interrogative retoriche nello storico Senofonte è spia della sua precisa volontà di orientare il pubblico, inducendolo a interpretare i fatti nella prospettiva da lui voluta.

La prof.ssa Cresci parlando di Lisia (L’ “ethopoiìa” bifronte in Lisia) ci fa rivivere la teatralità di un processo ateniese, in cui le parti dovevano rappresentare se stesse davanti alla giuria popolare, puntando a convincerla delle proprie ragioni di accusatore o di accusato.  Emerge chiaramente “la necessità che chi vuole convincere non promuova nell’ascoltatore-giurato la ricerca della verità assoluta, della ricostruzione precisa e incontrovertibile dell’accaduto, bensì miri a catturarne la simpatia, a presentare la ricostruzione dell’evento sulla base di una serie di probabilità e verosimiglianze, che comportano un alto grado di soggettività e che riflettono appunto la mentalità di chi ascolta e al contempo decide”. In conclusione i processi, “oltre a dirimere il contenzioso complesso e talora minuto del vivere quotidiano di Atene, svolgono anche un altro ruolo, meno immediatamente percepibile, ma sostanziale: una celebrazione costante, una riaffermazione insistita e insistente del sistema politico, sociale, ideologico, una forma di propaganda a un tempo subliminale e esibita”.

Isocrate viene presentato dal prof. Casarino (La buona retorica e il “ lògos egemòn” di Isocrate) come un maestro che parla ancora ai nostri tempi, insegnandoci la funzione di “guida per l’azione” di una parola che nasce dal “pensar bene”: rifiutare questa parola significa “perdere un punto di riferimento essenziale, disorientarsi, smarrirsi. Credere di poterne fare a meno equivale a regredire ad uno stato ferino, preculturale e prepolitico”.

Con il prof. Raschieri (Cicerone come maestro di retorica) incontriamo invece Cicerone in una veste inedita, quella di maestro di retorica, un maestro molto attento all’efficacia pedagogica della trattazione, che addirittura arriva a concepire il manuale retorico quasi come un moderno ipertesto, con ‘link’ a precetti già esposti in precedenza, per evitare ripetizioni che lo appesantirebbero inutilmente. Da una puntuale analisi testuale del De inventione sono emerse le ragioni del suo successo come manuale retorico nei secoli seguenti: lo stretto legame tra teoria e pratica affermato da Cicerone, la sua sensibilità pedagogica e il fatto che l’insegnamento retorico sia inserito “in un orizzonte ampio in cui coesistono virtù tradizionali, apprendistato forense, educazione letteraria, riflessione filosofica e impegno civile”.

L’intervento del prof. Grosso (Il mezzo e il messaggio. Le tecnologie della parola nella storia della ricerca sulle tradizioni sinottiche), affronta i vangeli sinottici nella prospettiva del rapporto tra oralità e scrittura, utilizzando la metodologia e i risultati del performance criticism, che si propone un approccio ai testi delle origini cristiane dal punto di vista della loro esecuzione pubblica da parte di un performer e della loro ricezione da parte di un’audience. In questo modo la ricerca sul movimento dei seguaci di Gesù e le sue tradizioni li restituisce alla complessità del divenire storico.

Il prof. Giuliani (Hermann Broch e i diversi fini dell’arte della parola. Virgilio versus Augusto) affronta con vibrante intensità il complesso romanzo-poema di Hermann Broch La morte di Virgilio (1945) – per la precisione la parte Terza, quella che narra il dialogo di Virgilio con gli amici Vario e Tucca e poi con l’imperatore Augusto sull’Eneide per mettere in luce i diversi fini dell’arte della parola. Ne emerge una concezione ‘assoluta’ della parola del poeta, liberata dalla sottomissione a doveri concreti, vincente rispetto alla logica esclusivamente strumentale e politica dell’imperatore; si confrontano due modi antitetici di concepire la conoscenza e il valore del linguaggio, e si arriva fatalmente all’incomunicabilità.

La prof.ssa Fenoglio (Tra parola e azione. La lezione di Leonardo Ferrero filologo e partigiano) ricorda l’esempio di “buona retorica” lasciato dal cuneese Leonardo Ferrero (1915-1965), allievo di Augusto Rostagni, docente di Letteratura Latina all’Università di Trieste e partigiano. All’arte della parola Ferrero si dedicò sia con i suoi studi sull’eloquenza in Roma antica, in rapporto alla storiografia, sia con le scelte politiche e civili che attuò nei difficili anni in cui visse, nella convinzione che l’uomo di cultura non possa “tenersi in disparte, disinteressarsi della società in cui vive, ignorarne i problemi”. Una figura di cui è doveroso tener viva la memoria.

Dal prof. Desderi (Aristotele chiama Obama) la retorica antica viene utilizzata per leggere un’importante orazione dei giorni nostri, il discorso tenuto dall’allora Presidente degli USA Barack Obama a Bruxelles il 26 marzo 2014, e rivolto ai giovani europei. Quella di Desderi è un’analisi molto accurata, che mette in risalto i punti di forza e le debolezze dello speech presidenziale, ma soprattutto evidenzia la persistenza e l’attualità della retorica antica e della sua precettistica, di cui Aristotele è il prestigioso simbolo.

Con l’intervento del prof. Sicardi (Retorica e diritto. Spunti introduttivi) entrano in scena i giuristi, stante che “da sempre retorica e diritto sono strettamente correlati”. Con estrema chiarezza si illuminano i problemi relativi allo statuto scientifico del diritto stesso, approdando alla conclusione che il diritto non è una scienza esatta, ma che ciò non autorizza derive volontaristiche, con il rischio che il concetto di diritto si dissolva nella legge imposta dal più forte. “La consapevolezza dei margini di opinabilità del diritto deve portarci piuttosto a limitarne gli elementi di arbitrarietà”. Se la logica del diritto è quella argomentativo-retorica, di ascendenza aristotelica, “occorre uno sforzo costante al fine di prospettare percorsi ragionevolmente prevedibili e verificabili. […] Questo è quanto i giuristi si debbono sforzare di fare, senza pretendere di promettere (e poi di non mantenere) di più”.

Il prof. Cavino (Circolo ermeneutico e autorità della tradizione. Tentativi di ricostruzione tra diritto e letteratura) sviluppa un interessante parallelo tra interpretazione letteraria e giuridica. Il giudice, interprete della legge, ha di fronte a sé tanto il caso concreto quanto le disposizioni di legge e deve per così dire armonizzarli, componendo “nel modo più soddisfacente possibile le esigenze del caso e quelle del diritto”. Rispetto alla tradizione giuridica si crea una sorta di “catena narrativa” in cui “il nuovo autore che scrive è quindi l’interprete, ed in particolare il giudice, che risolve i casi concreti attuali alla luce dei precedenti”

Infine il prof. Heritier (Tra umanesimo e postmodernità. La politica, l’uso normativo dell’immagine e la retorica processuale) si sofferma sull’uso ‘giuridico’ dell’immagine, per far luce sulla “matrice storica della normatività dell’immagine” e fornire alcune prime indicazioni “circa la possibilità di configurare tratti normativi dell’immagine non in contrasto con l’accostamento al diritto proprio di un ordinamento giuridico contemporaneo”. La sua conclusione è che “il ruolo politico e giuridico dell’immagine, la loro connessione e la loro distinzione, non possono essere sottovalutati, e la soluzione non consiste più nella mera riproposizione della distinzione moderna: la legge scritta e razionale, l’immagine irrazionale e ambigua. Questo è solo un aspetto, certo drammatico e  inquietante, del problema, che ne cela al suo interno (e al suo esterno) molti altri: che non possiamo certo risolvere facilmente e con slogan, ma che richiedono la formazione di nuovi equilibri culturali, ma anche tecnologici, economici, e teologico-politici”. Se c’è una retorica dell’immagine, c’è anche una retorica dell’anti-immagine: certo è che con la pervasività dell’immagine dobbiamo fare i conti, e questo solo grazie alla forza della parola.