Dai tragici greci a Lucrezio ai poeti moderni, la navigazione di Melillo nel mare agitato della civiltà europea

foto Antonio Melillo

foto Antonio Melillo

GABRIELLA MONGARDI.

“Saggio” è un’etichetta riduttiva per il lavoro di Antonio Melillo “Mare vorticato da venti”, riduttiva e fuorviante. Come minimo bisognerebbe aggiungere l’aggettivo “poetico”:  non perché parla prevalentemente di poesia, ma per lo stile ricco di parole tronche, d’uso poetico appunto, e per l’audacia delle immagini, a partire da quella del titolo – audacia tipica della poesia, che attraverso dei veri e propri ‘cortocircuiti’ logici consente una sintesi di folgorante potenza. Per non parlare del fatto che il testo si conclude con una lirica inedita di Melillo stesso, che sembra additare alla poesia del nuovo millennio una “via del canto” ancora percorribile, se si accontenta delle foglie / dei pioppi, del mare e del suo orizzonte, se la lucerna agitata e semispenta custodisce ancora la sua luce troppo fievole

Nell’intento di utilizzare la poesia europea e la filosofia per far luce sulla storia e sulla crisi della civiltà europea, in realtà il saggista-poeta Melillo, ripercorrendo la letteratura europea dall’antichità alla modernità, crea accostamenti profondamente originali fra gli autori, individua nessi assolutamente inediti, e finisce col gettare una nuova luce sulla poesia in toto, sul suo significato profondo. Dimostra infatti che i poeti, gli scrittori in genere, grazie alle loro bacchette di rabdomanti, sono i primi a captare i sommovimenti sismici della storia, le faglie sotterranee della società: così già in Eschilo si colgono le prime avvisaglie del nichilismo, la cui tragicità è intrinseca alla cultura occidentale fin dai suoi albori, ma è con Petrarca che nasce la modernità, caratterizzata dalla scissione tra umano e divino, terreno e celeste. La sua ‘accidia’ diventerà malinconia, noia e male di vivere in Tasso, Leopardi e Montale, ma sarà Pascoli il primo autore ‘novecentesco’ in Italia, quello la cui poesia nasce da un trauma intimo che si esprime attraverso la reticenza.

Se la storia può essere solo subita e non fatta, si fa strada il dramma esistenziale, la tendenza all’inazione, al lasciarsi vivere anziché a vivere: la poesia nasce da questo vuoto esistenziale e lo rispecchia fedelmente. È quanto fanno nel ‘900 i poeti crepuscolari, Michelstaedter, Govoni, Caproni, Cardarelli, Sbarbaro, Sereni e fuori d’Italia Celan, Trakl, Camus, Kafka, Mann, Musil, Jammes, Rilke e tutti gli altri a cui Melillo dedica anche solo un flash, a cui ‘ruba’ anche solo un verso, una parola-chiave, una pennellata, determinante però per l’affresco che sta dipingendo. Perdita di senso, esperienza degradata, tragedia dell’uomo comune, separazione dell’espressione umana dall’uomo, lingua ridotta a codice sono i ‘colori’ di questo affresco, in cui entrano anche pittori come Chagall o Füssli, chiamati a testimoniare con i loro quadri lo stesso disorientamento della civiltà europea.

Melillo grazie alle sue intuizioni e alle sue conoscenze letterarie, storico-filosofiche e linguistiche si muove con grande disinvoltura nel tempo e nello spazio alla ricerca dell’anima dell’Europa, dimostrando a che cosa serva la cultura, quand’è riscaldata come qui da un’intensa sensibilità poetica: a capire il deserto presente e a indicare dove attingere acqua per il futuro.