Nino Manfredi, una vita in palcoscenico

Intervista a Nino Manfredi

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CLAUDIO SOTTOCORNOLA.

Quell’inaspettata lettera di Calvino

Smessi i panni del commissario in TV, Nino Manfredi indossa quelli del biografo e, con un pizzico di quel sano narcisismo che contraddistingue gli artisti (più ancora, gli attori) ci parla di sé, dei suoi 71 anni passati tra palcoscenici e set cinematografici, ma anche tra gli affetti familiari: la moglie Erminia, i figli Roberta e Luca, i nipotini Sara e Matteo (il suo «ultimo grande amore», dice lui). Lo fa attraverso un’autobiografia che ha incuriosito un po’ tutti, non foss’altro che per quel titolo, «Nudo d’attore», ed. A Mondadori, che vuol esprimere in realtà la sua intenzione di narrare con sincerità «vita e ammaestramenti» di un uomo da palcoscenico.

Noi lo abbiamo raggiunto per tentare insieme un’operazione di «scrematura dei ricordi», così che emergessero i più essenziali di questo «Nudo d’attore», una specie di «Manfredi story» da Castro dei Volsci a Broadway, che è poi anche storia nostra, di un’Italia postbellica sospesa fra povertà ancestrali e speranze di riscatto.

Manfredi, sprofondato in una comoda poltrona di un grande albergo di una grande città, con una tuta da ginnastica bianca che sottolinea ancor più la sua vitalità straordinaria, si racconta volentieri, con il gusto, la fantasia e la brillantezza di un grande affabulatore.

Come è stata l’infanzia di Nino Manfredi?

«Difficile. Sono praticamente figlio di emigranti: mia madre è stata in America dall’età di sei anni fino ai quattordici, quando morì suo fratello, il primo figlio maschio della famiglia. Mia nonna, che aveva maledetto la terra che le aveva rubato il figlio, s’è riportata la figlioletta in Italia, a Castro dei Volsci, paese poverissimo. Mio nonno è rimasto in America a lavorare (“…tornerò presto…”) per altri 22 anni, perché aveva bisogno di farsi una casa. A mia mamma avevano comperato anche la bicicletta, che poi s’è portata in Italia, ma siccome a Castro dei Volsci le ragazze in bicicletta davano scandalo (allora non c’erano ancora i pantaloni per le donne…), gliel’hanno appesa al soffitto. Il matrimonio fra mia madre e mio padre era stato combinato da un sensale, perché in un paese di 700 abitanti non sempre si trovava il compagno o la compagna adeguata. Mio papà viveva in un paese a nove chilometri da quello di mia madre, ma era considerato ormai un “cittadino”, perché faceva il vigile urbano a Roma, e quindi aveva bisogno di una donna adeguata: che te credi, che solo i principi guardano a ‘ste cose? Così si sono sposati, un matrimonio bellissimo che a me, invece, ha dato solo dolore».

Perché le ha dato dolore?

«Ho avuto un’infanzia, un’adolescenza terribile. Sono stato più volte in punto di morte: a tre anni con una gravissima enterocolite, a dieci per una difterite, tanto che mi hanno dato l’estrema unzione, a quindici anni ho preso la tubercolosi: “Non vivrà più di un paio di mesi!”, aveva detto il professore che mi aveva in cura ai miei genitori… Con questa prospettiva sono entrato in sanatorio, e ci sono rimasto tre anni, curandomi con l’unico mezzo allora a disposizione, il pneumotorace. Ma è proprio lì che ho scoperto il teatro. Recitavamo in un teatrino del sanatorio tutti i sabati, e le domeniche facevamo uno spettacolo, l’unica gioia che avevamo. Era uno spettacolo molto difficile da mettere su, perché ogni settimana ne moriva qualcuno. Il sabato, quando ci riunivamo, capitava che qualcuno dicesse: “Ma Antonio, non è venuto?”. E un altro: “No, Antonio è morto mercoledì!”. E noi: “Mannaggia, e adesso chi ci mettiamo al mandolino?”. Pensa come la vita si adatta…».

Lei però è ancora qui a raccontare…

«Ti posso dire che di quell’epoca credo di essere uno dei pochissimi ancora vivi. E devo ringraziare il bacillo di Koch per aver potuto fare il teatro. Infatti, a mio padre avevano fatto su di me un sacco di raccomandazioni: “Non prenda mai le correnti, deve stare al caldo, deve mangiare molto – si era in tempo di guerra – e, soprattutto, non deve mai baciare nessuno, perché è pericoloso”. Mio padre faceva il vigile urbano, così stava sempre in mezzo al freddo, alla pioggia, per la strada. Però quando lo mandavano al ministero, vedeva la targhetta “Dott. Tal dei Tali”, e quello stava sempre dentro una stanza, al caldo, capito? Così si mise in testa che io dovevo prendermi una laurea e diventare “Dott. Manfredi”, chiuso dentro a una stanza. Io, invece, in sanatorio avevo imparato a fare il teatro, allora pensavo che il teatro fosse una prerogativa di ospedali e parrocchie… Ma quando ho scoperto che c’era una scuola, l’Accademia di Arte Drammatica, dove si imparava a recitare, ho fatto un patto con mio padre: mi sarei laureato in giurisprudenza, a condizione che mi lasciassero frequentare l’Accademia. E così fu».

Una lunga carriera, piena di successo e di popolarità: quali tappe ritiene più importanti?

«In Accademia si insegnava solo il teatro, ma quegli insegnamenti mi spingevano a cercare di capire altro, per esempio, il mondo del cinema, che allora era per lo più software, commediole. Io, invece, ero diventato “serio”, avevo studiato, avevo conosciuto maestri come De Sica e Zavattini, mi ero innamorato di Chaplin, il più grande, volevo vedere che cosa avevo capito del cinema. Mi avevano insegnato che prima viene il corpo, e poi la parola. Allora ho voluto provarmi in un episodio muto, ispirato a “L’avventura di un soldato’ di Italo Calvino, una difficile storia d’amore fra un soldatino e una vedova, che sembrava intraducibile cinematograficamente. Quando uscì, Calvino mi scrisse una lettera: “Caro Manfredi, sono stato a vedere ‘L’amore difficile’ – così si chiamava il film – e, mentre guardavo il nostro episodio, ho scoperto che piano piano mi nascondevo nella poltrona perché mi sentivo scoperto dentro”. Senti che bello? Ma solo un grande può dire questo».

E poi?

«Ho avuto molte richieste, ma la cosa a cui sono più legato è la mia prima regia completa, “Per grazia ricevuta”. Ho cominciato a perdere un po’ la fede in sanatorio, e mi sono trovato “come color che son sospesi”, diceva il Poeta. Così, e lo spiegai a un gesuita che mi venne a trovare, ero sicuro che, cercando di capire me stesso, sarei stato utile anche agli altri. Il film fu un successo: vinsi il premio a Cannes e tanti altri, fra cui il San Fedele, quello dei Gesuiti, che mi preferirono a Fellini, Bergman e Bunuel. Sono stato invitato anche in Vaticano, e ricordo che, dopo la proiezione del film, quando si è accesa la luce e mi hanno portato in scena, mi trovavo in un certo imbarazzo; c’era una platea di soli preti, tutta nera, e allora dissi: “Luce in sala!”. È il mio modo di cavarmela, le battute… M’hanno fatto tante domande, anche difficili, e finalmente un cardinale mi venne in aiuto, tuonando col suo vocione baritonale: “Manfredi, Manfredi… vale molto più questo film che tante nostre prediche!”. E così finì in un applauso bellissimo».

Che ruolo ha la famiglia per un attore?

«Per me è importantissima. Quando ho incontrato Erminia, l’ho trovata straordinaria: lei è figlia di madre siciliana e padre lombardo, tu sai che so’ er mejo de tutti… Ti faccio una confidenza. A Roma, noi viviamo in stanze separate, perché io vado a dormire alle tre, alle quattro, lei invece si alza presto, però m’addormento quasi sempre nel suo letto, dopodiché mi dice: “Nino, vai a dormire!”. Certo che adesso lei preferisce dormì coi nipotini che con me, e questo m’ha un po’ ingelosito, ma insomma, l’ho superato…».

Nino Manfredi è un maestro della «commedia all’italiana», un genere che ha molti detrattori. Che cosa pensa che abbia dato questo genere al cinema italiano?

«Io sono convinto che quando la gente ride, in quel momento, la ragione che l’ha fatta ridere le rimane più impressa dentro. Il “castigat ridendo mores” rimane il livello più alto per dire delle cose. Ti voglio raccontare un episodio, che mi è successo in Francia, ad Arles, dove c’era un festival al quale partecipavo con “C’eravamo tanto amati”, di Ettore Scola. Presentammo questo film all’Università di Arles e, dopo la proiezione, io e Scola salimmo in palcoscenico per sottoporci alle domande degli studenti. Uno di loro ci chiese: “Vorrei sapere perché il vostro genere si chiama ‘commedia all’italiana’”. Risposi: “Perché è un genere dispregiato un po’ dalla critica, ‘all’italiana’ perché è una cosetta fatta così, come gli spaghetti ar pomodoro, ojo e peperoncino; è un genere più leggero che non è molto apprezzato in Italia”. Questo ragazzo si è alzato e ci ha risposto: “Si dice ‘tragedia greca’, non si dice ‘tragedia alla greca’!”. Stupendo».

Qual è il personaggio interpretato che ha amato di più?

«Quando Comencini mi chiamò per fare Geppetto nel suo “Pinocchio” televisivo, me so’ molto arrabbiato, perché ero ancora giovane, e gli ho chiesto le ragioni della scelta. Mi ha dato una risposta bellissima: “Ho scelto te perché, secondo me, sei l’unico attore in Italia che può parlare con un pezzo di legno”. Questa cosa mi commosse, allora gli chiesi due giorni di tempo per riflettere, per trovare la chiave del personaggio. Li passai ai giardinetti, scrutando questi vecchietti in pensione che prendevano il sole o portavano i nipotini a giocare. A un certo punto, mentre chiacchieravo con uno di loro, sento il nipotino che parla con un pupazzo: “Adesso tu stai fermo qui, che ti vado a prendere l’acqua, perché l’acqua fredda ti fa male al pancino”. “Sì, vai pure – gli dico io – sto attento io che non beva, perché l’acqua fredda, è vero, fa male al pancino”. Lui mi guarda con un sospetto, perché voglio entrare nel suo gioco, e allora io riprendo a parlare con il nonno e faccio finta di niente. Dopo un po’ mi sento tirare la giacca: “…perché l’acqua fredda gli fa male al pancino…”. Aveva abboccato. Allora io ho capito che non dovevo fare un vecchio, ma un bambino. Ho telefonato a Luigi Comencini e gli ho detto: truccatemi pure da vecchio, datemi un paio di scarpe più grandi per ciabattare… e io reciterò come un bambino, con dentro la dolcezza e la pulizia di un bambino. Ecco perché è uno dei personaggi che amo di più, perché rivela il nipotino che c’è in me, quello che non ha mai smesso di amare le favole e di raccontarle».

(pubblicata per la prima volta il 17 agosto 1993 su La Provincia. Oggi in: Claudio Sottocornola, Varietà. Taccuino giornalistico: interviste, ritratti, recensioni, approfondimenti, ricerche su costume, società e spettacolo nell’Italia fra gli anni ’80 e ’90, Marna editore, 2016. Margutte ne parla QUI)