I figli degli emigrati italiani in Francia: testimonianze e riflessioni

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YVONNE FRACASSETTI BRONDINO.

Dopo circa 150 anni di flussi migratori costanti, nonostante le crisi e le guerre, si contano oggi oltre tre milioni di discendenti d’Italiani, figli degli emigrati che finirono con lo stabilirsi in terra francese e la cui appartenenza italiana è praticamente invisibile vista la fusione avvenuta tra i due popoli e le due culture. Negli anni Cinquanta, si incominciò a parlare in Francia, a proposito degli italiani immigrati, di un modello di integrazione rapida tra le due sorelle latine, grazie a una comunanza di valori e di cultura. Oggi, quando la Francia da sempre grande paese di accoglienza e l’Italia da sempre paese di emigrazione diventato recentemente paese di immigrazione, fanno entrambe fatica a trovare una strategia per fare fronte alle imponenti ondate migratorie dal Mediterraneo e dal Medio Oriente, ci si chiede se sia mai esistito un modello di integrazione, se si possono fare paragoni tra i vari fenomeni, se i fattori integratori che hanno unito due paesi tradizionalmente legati da flussi migratori sono ancora validi oppure se ci troviamo in un contesto storico e geopolitico così diverso da non poter trarre lezioni dalla storia. Fatto sta che, a ripercorrere le tappe dell’immigrazione degli italiani in Francia, ci si accorge che non vi fu nessuna empatia immediata tra i cugini latini, che si trattò di una storia lunga e dolorosa, e che furono gli italiani, partiti in massa alla fine Ottocento, a farne le spese prima di giungere all’integrazione.

Ce lo ricorda Isabelle Felici in un saggio appena uscito dalle Presses universitaires de la Méditerranée, intitolato Sur Brassens et autres enfants d’Italiens.  Lo sapevate che Georges Brassens, il famosissimo cantautore francese, era di madre italiana? “Il n’est guère d’enfant d’Italiens plus ‘authentiquement français’ que lui “ scrive laconicamente Isabelle Felici raccogliendo i ricordi, i racconti, le storie trasmesse dai discendenti di quegli emigrati italiani sparsi per il mondo.  Questo è il terzo volume (Vedi I. Felici,  Racines italiennes,  2006 e I. Felici et J.-C. Vegliante, Enfants d’Italiens quelle(s) langue(s) parlez-vous ? 2009)  che I’autrice dedica alla memoria dell’emigrazione italiana e con il quale  aggiunge un tassello al suo paziente e prezioso lavoro di salvataggio della memoria: quella degli Italiani emigrati nel mondo, qui in particolare in Francia, in Belgio e persino sulla riva sud del Mediterraneo, in Tunisia e in Egitto. Un lavoro documentario importante quando si tende a dimenticare la fatica di questi migranti italiani ormai così integrati  da passare inosservati, trasparenti, là dove sono rimasti, un lavoro provocatorio perché serve a sfatare,  oggi di fronte alle nuove ondate di migranti venute dal sud, l’idea che i nostri avi appartenessero ad una stirpe diversa, predisposta all’integrazione.

Una storia, tante storie: l’eterogeneità insegna
Ovviamente, l’obiettivo di I. Felici non è soltanto quello di raccogliere altre memorie (anche se la costituzione di un archivio storico e di fonti dirette è fondamentale sotto l’aspetto sia scientifico sia umano); è altresì di promuovere una riflessione ad ampio raggio, utile a chi scrive e a chi legge. Lo spiega nel suo Prologue sottolineando che oltre la testimonianza, questi racconti inducono noi lettori e gli autori stessi a riflettere sul percorso dei nostri avi ”pour prendre conscience de certains cheminements de leur mémoire italienne “ ora nascosta e taciuta, ora enfatizzata, ora pronta a riemergere dalle pieghe dell’animo appena la stuzzichi. La prima osservazione della studiosa, che mette sull’attenti il lettore pronto a trovare conferme troppo facili o semplici in tale o tal’altra storia particolare per assodare la propria opinione, è l’impressionante eterogeneità dei percorsi, delle reazioni, delle tracce lasciate nella memoria dei migranti, dei loro discendenti o di chi li ha accolti. Una eterogeneità che ci vieta di trarre conclusioni semplicistiche o di stabilire categorie rigide , modelli preconfezionati per dimostrare che ci sono uomini, culture o religioni più flessibili, più aperte, più idonee  all’integrazione. Ecco perché le 36 storie raccontate dagli emigrati o dai loro figli, provenienti da tutte le regioni d’Italia da nord a sud, nell’arco di quasi un secolo, prese nel loro insieme, ora spontanee e genuine, ora ricamate dalla nostalgia o dall’amarezza, sempre  nutrite dall’affetto, hanno il grande merito di mettere un freno al vasto processo di uniformazione e di “folklorizzazione” che rischia di  appiattire la storia dell’emigrazione italiana o,  peggio, di leggerla attraverso i filtri dei pregiudizi e delle ideologie ricorrenti nel discorso sull’emigrazione, quali il problema identitario o la questione dell’integrazione. Anche se talvolta già “contaminati”  – scrive l’autrice –   “ces récits rapportent les propos des immigrés eux-mêmes et de leurs descendants, faisant de ceux-ci les protagonistes et les artisans de leur propre mémoire et non plus seulement les instruments d’un mécanisme idéologique, économique, médiatique …”

E’ interessante non tanto rendere conto di ogni singolo racconto che il lettore potrà assaporare con il ritmo e la sensibilità che gli sono propri, ma evidenziare i grandi temi che, nell’eterogeneità delle reazioni, danno a questo volume la consistenza epica di un romanzo e la dimensione riflessiva di un saggio storico. Il tema dominante è sicuramente la sofferenza, una sofferenza silenziosa, spesso taciuta, talvolta ignorata dai figli degli emigrati e strappata alla memoria dei genitori a forza di domande non sempre esaudite. Il silenzio infatti è il corollario del dolore che ha contraddistinto queste migrazioni: esso stende un velo sulla sofferenza, esprime la volontà di dimenticare, di passare ad altro, di non guardare indietro, di non volere fare un bilancio perché non si sa se sarebbe positivo. Più autori parlano della forza del “non detto” (A. Costigliola, Y. Fracassetti ) che ha impedito loro, sin dall’infanzia, di indagare su una zona d’ombra che la famiglia emigrata non voleva rievocare.

Leggendo questi racconti, si valuta lo spessore di questa sofferenza le cui cause vanno ricercate prima nella miseria poi nella condizione di essere straniero. La varietà delle storie ci rivela che ognuna di queste fonti di dolore va letta nella sua interezza temporale e spaziale: la miseria prima dell’emigrazione, quella che ti ha fatto fuggire e la miseria del dopo, talvolta più acuta e insospettata; il sentirsi straniero nella comunità estera ma anche in patria per chi ha fatto l’esperienza del ritorno.

Il peso della miseria
La miseria che svuota le valli e spopola i villaggi, il flagello dell’Italia dalla fine ‘800, incapace di nutrire una popolazione in continua crescita (ovunque si parla di famiglie numerose) fino agli anni 1960, quando finalmente il “miracolo italiano” frena l’emorragia di uomini e donne disperati. Partono dal nord  e dal sud, a piedi dal Piemonte verso Nizza, in treno, qualche fortunato in macchina, in nave dalla Sicilia (“terra di sassi e dolore”) verso Marsiglia,  nei paesi vicini, la Francia, sempre alla ricerca di braccia e manodopera a buon mercato per garantire il suo sviluppo e la ricostruzione post-bellica, il Belgio che nel 1946  firma un accordo con l’Italia (braccia per le miniere in cambio di carbone). La miseria, causa di quasi tutte le partenze, anche se non mancano i racconti che  parlano di emigrazione professionale come quella famiglia di pescatori di Gaeta che sceglie di sistemarsi a Sète dove il pesce abbonda e dove il livello di vita ne assicura lo smercio, o di emigrazione politica per antifascisti e comunisti costretti a fuggire. Ovunque la stessa miseria ma se dovessimo indicare un solo racconto per darne la dimensione, sceglieremmo Une cabane au fond des bois dove M. Carminati descrive in poche parole “la chronique d’un départ annoncé”: “Avant, il avait fallu grandir dans la montagne,  à Catremerio, dans la Val Brembana, s’endurcir, suivre les hommes dès l’âge de neuf ans, à pied, pendant de longs mois, et Suisse et dans les Vosges … Et puis, la guerre. La Grande. Jeter des ponts, tailler des chemins de mules à même la roche des Dolomites, lancer des vie ferrate vers le ciel, crever de faim, manger du rat …Revenir en permission pour enterrer deux sœurs, mortes la même semaine de la grippe espagnole… Alors en ce jour de février 1926, ils ont dit au revoir au village, aux près et aux troupeaux, aux familles. On raconte que la grand-mère s’est évanouie, qu’ils ne se sont pas retournés, qu’ils ne l’on jamais revue” .

Questo è il percorso obbligato di quasi tutti perché nessuno parte per scelta in queste condizioni e tutti partono per assicurarsi giorni migliori. Quello che si dice meno è la miseria che si trova dall’altra parte del tunnel, almeno nei primi anni, laddove si sperava di migliorare la propria sorte. Non si dice perché è meglio dimenticare e perché non si vuole pensare di aver sbagliato. Il merito di queste testimonianze è anche di sfatare l’immagine di un’emigrazione facile dove il benessere all’estero fa seguito agli stenti in patria. Alla fine del viaggio, quando il carretto s’inoltra nel bosco per raggiungere la comunità di boscaioli bergamaschi, quando scorge la capanna che fungerà loro da riparo, Marietta capisce: “Elle pressent et entrevoit la misère noire, le travail bestial, les sacs de bois et de charbon portés sur le dos,  les enfants qui ne vont pas à l’école, la nostalgie de Catremerio, la faim lancinante … deux ans d’un calvaire sans nom … deux ans de vie sauvage et de purgatoire en guise de laissez-passer vers la civilisation”. Quanti, all’inizio, avranno rimpianto  il calore delle loro povere case italiane, nelle baracche di minatori senza riscaldamento, né acqua, né elettricità, isolati e rifiutati come pestiferi. Difficilmente gli emigrati raccontano queste tragedie, occorre strappargliele. È un dolore muto il loro, non si lamentano mai perché alla fine, i conti devono tornare: guardando indietro (“un pays qui ne donne pas à manger à ses enfants, on n’en parle pas!”) ma pure guardando avanti, per vivere nella nazione dove hanno scelto di restare.

Essere straniero
La seconda fonte di sofferenza, ricorrente nella maggior parte dei racconti, è il sentirsi straniero, il sentirsi diverso e rifiutato. Ovunque “traspira la differenza”, nel parlare certo, ma anche nel cibo, nel vestirsi, nel relazionarsi. Si potrebbe fare un lungo elenco delle manifestazioni del rifiuto francese nei confronti degli immigrati italiani,  sul lavoro, a scuola, per la strade, nei quartieri, in fabbrica,  un elenco delle umiliazioni, delle “frasi assassine” che Rosa Morel riporta, anche se è stata lei a chiedere di restare e a fare della differenza un’autentica ricchezza; ma si potrebbero  anche elencare i casi di razzismo alla rovescia in cui sono i bambini degli emigrati tornati in patria a subire gli insulti , i franseizun per rispondere ai macaroni, una nuova emigrazione, nell’altro senso, (M. Vassevière, A. Pesenti) un disagio che continua perché si è sempre stranieri. Il caso estremo è forse quello “dell’araba italiana”, Soukaina Ouhajji , che dopo una prima emigrazione felice dalla Sicilia alla Tunisia dove ha imparato la coabitazione culturale, deve subire il disprezzo francese, da araba italiana, in seguito ad una seconda emigrazione verso la Francia (nel 1962 quando viene smantellata la collettività italiana in Tunisia). Ancora una volta l’eterogeneità dei casi dimostra che la differenza è ovunque rigettata prima di essere accettata. Anzi, è illuminante  M. Vassevière Magnaldi quando osserva come la resistenza dei suoi genitori  “pour assumer leur étrangeté”,  impedì loro di regredire, come tanti, in una visione  populista del mondo, ostile al diverso e oggi purtroppo imperante: “l’étranger nous habite” – continua e alimenta ora la nostra apertura all’altro.

Lavoro e scuola, pilastri dell’integrazione
Tra sofferenza e riscatto dalla miseria, che ne è dell’integrazione? “Qu’est-ce-que l’immigration réussie? Nos ancêtres italiens  ont certes amélioré leur qualité de vie, accédé à la propriété, permis à leurs enfants et petits enfants d’en faire autant; mais à quel prix?” – si chiede M. Fusaro- “celui du refoulement, de la honte, de l’autocensure? Celui de l’abandon d’une culture, de la mise sous silence d’une langue …?” A loro modo, i 36 racconti raccolti da I. Felici tentano di rispondere a questa domanda tracciando un percorso di integrazione, eterogeneo certo, ma trasversale e pur sempre guidato, i cui i pilastri sono:  il lavoro, la scuola e quindi l’ascesa sociale e talvolta la scelta della naturalizzazione. Non c’è dubbio, “l’intégration de fait à travers le travail” – assicura G. Furlanini- il lavoro dei minatori, dei muratori, dei pescatori, degli operai e degli artigiani per i quali lavorare voleva dire “riuscire”, accedere alla classe media, poter tornare al paese e dimostrare che “non si tornava poveri” e che era valso la pena di partire. Il lavoro degli uomini, ma pure quello delle donne, particolarmente valorizzato nell’analisi di B. Van Camp, Derrière chaque grand homme se cache une femme, che mette in evidenza il ruolo fondamentale della donna nell’emigrazione, il coraggio di assecondare il lavoro del marito con la determinazione e la consapevolezza di una sfida comune da sostenere, talvolta con abnegazione, spesso con un senso del risparmio e della gestione casalinga eroico. Così, con il lavoro accanito e economie da equilibristi, riuscivano a comprarsi una casa decorosa, a lasciare le baracche e i quartieri degradati a loro assegnati, a stupire i Francesi increduli e preoccupati di vedere arrivare nelle zone benestanti delle loro città, stranieri invadenti e sconosciuti. Anzi, con l’acquisto della casa – lo segnalano vari racconti – crescono (temporaneamente) la diffidenza  e lo scontro con i locali perché ciò significava infrangere le regole della segregazione e della discriminazione, barriere contro l’integrazione e quindi contro l’intreccio delle culture.

Il dio-lavoro,  i figli lo bevevano con il latte materno. “L’image implacabile du travail” – scrive A. Costigliola – la portavano con sé a scuola perché “nous, enfants d’immigrés, nous devions travailler mieux que les autres pour être considérés”. Le voci sono unanimi per vedere nella scuola un altro pilastro dell’integrazione per la seconda generazione. I genitori investono in modo particolare sulla scuola affinché i loro figli possano riscattare tutte le umiliazioni subite. I figli capiscono subito che “la conquête de la liberté passait par la réussite scolaire  [et que] l’ignorance est une prison et la connaissance permet l’indépendance d’esprit” -  dice Angelina Bidar, sicura di aver trasmesso questo bagaglio alla terza generazione, resa “volitiva e determinata” dall’esperienza di emigrazione della famiglia. Per questo, (lo segnalano tutti gli studi sulla scolarizzazione dei figli di emigrati), gli alunni italiani portatori da questa sfida sono spesso i primi della classe, suscitando la gelosia e lo sdegno dei Francesi; gli altri, non motivati e sfavoriti in partenza, sono gli ultimi, marginalizzati come i loro padri; raramente si collocano a livello medio. Per tutti, la scuola è stata  il primo luogo del confronto, della scoperta della differenza, delle umiliazioni ma allo stesso tempo il luogo del riscatto, il terreno sul quale vincere la sfida dell’uguaglianza. E’ stato anche il luogo per eccellenza dell’eterogeneità degli incontri con compagni e instituteurs  meschini e ottusi, oppure con gli amici del cuore, al di là di ogni appartenenza, e maestri aperti, signori della République.
Lavoro e scuola erano le due strade privilegiate per salire i gradini dell’ascesa sociale, il vero leitmotiv, l’ossessione delle famiglie immigrate (F. Belmonte).

I volti dell’italianità
Ma a che prezzo? – ci chiedevamo con M. Fusaro – Certamente al duro prezzo della fatica e del coraggio, ma pure mettendo in gioco, ognuno a modo suo, la propria italianità. Se esiste un ambito in cui i sentimenti e i comportamenti sono eterogenei, è proprio quello dell’italianità declinata nei vari racconti con le più diverse tonalità anche se gli ingredienti sono sempre gli stessi: la lingua, la cucina, le relazioni famigliari, la nazionalità.

L’italianità difesa con le unghie, ultimo baluardo dell’identità contro l’assimilazione; l’italianità messa in sordina per meglio integrarsi, persino negata anche se raramente; l’italianità alimentata e nutrita per non perdersi e per trasmetterla alle generazioni successive; l’italianità perduta  e poi ritrovata nell’euforia delle radici riscoperte dopo  lunghi anni di silenzio: sono tante reazioni, tutte giustificate e sentite, nessuna delle quali va giudicata, ognuna dettata da una strategia personale o collettiva per gestire l’impatto dell’immersione  in un’altra cultura e un’altra società. Tra l’orgoglio di essere italiani – difficile da esternare anche per il contesto storico, in particolare la posizione dell’Italia fascista durante la seconda guerra ma vissuto nell’intimità – alla vergogna di essere italiani, autentico handicap che costringe l’immigrato “à oublier d’où il venait ou, si ce n’était pas possible, à taire son origine, oublier que le pays natal les avait trahis, oublier qu’il était la source de leur échec, oublier qu’il était la cause de leur rejet” (A. Ricard), gli emigrati italiani hanno gestito in modo diverso, indipendentemente dalle regioni di provenienza, la loro integrazione nel paese di accoglienza.

La lingua è al centro di questo processo. Ma quale lingua? L’italiano che pochi sapevano arrivando nel paese straniero o il dialetto parlato nella famiglia di origine? In Belgio, Ines si dedica alla vita associativa per aiutare le donne italiane immigrate e finisce per imparare tutti i dialetti (B. Van Camp); spesso l’uso dell’italiano è proibito a casa , “on parle la langue du pays qui nous donne à manger” e finisce per essere dimenticato; ai figli nati in Francia si dà un nome francese ma magari i nipoti della terza generazione tornano ad essere chiamati con nomi italiani. Molti fra gli autori dei racconti sono diventati insegnanti di italiano in Francia (dopo averlo imparato a scuola) o viceversa (M. Carminati, Y. Fracassetti, C. Lloret, S. Ouhajji)  e portano genitori e nonni alla riscoperta gioiosa di una lingua smarrita. In altri casi, la lingua è rimasta il pilastro dell’italianità in famiglia, a scapito spesso (per i genitori) di un inserimento linguistico vitale nella società francese, ma anche questa è una scelta intima da rispettare.

In questa ulteriore eterogeneità, in ambito linguistico, meritano uno spazio a parte la canzone e la musica,  consacrati in modo unanime come legame profondo con le origini. Ovunque si canta in italiano, anche laddove l’italiano è stato messo a tacere: le canzoni popolari dell’epoca (Mazzolin di fiori, le Tarantelle….) in italiano o in dialetto, le arie liriche più famose. Si ascoltano Tino Rossi e Gigliola Cinguetti, si va a teatro: il canto e la musica sono un’arte nazionale che continua a fare vibrare le corde più sensibili dell’italianità. Ne è la prova Brassens  – racconta I. Felici – “le fils de l’italienne” (così chiamava sua madre) che non parla italiano, ma ha acquisito il gusto dell’Italia attraverso la musica e le canzoni di sua madre. Uno studio puntuale della sua produzione musicale porta a riconoscervi “la présence insistente du rythme de la tarantelle ” dovuto certamente all’ambiente famigliare, ma anche alla forte presenza italiana nella canzone francese dell’epoca. Per altri ancora (ma anche per Brassens che trasmette ad un ristoratore parigino la ricetta dei cannelloni di sua madre), la cucina rappresenta un segno distintivo irrinunciabile, carico di profumi, di sapori, di gusti e tradizioni che animano la vita collettiva.

La naturalizzazione – coronamento di un percorso di integrazione, dilemma o tradimento, compromesso indispensabile – è l’ultimo traguardo della vita dell’immigrato, ma non per tutti assume lo stesso significato. Ora punto di onore, ostentato con fierezza, “preuve d’un choix fondamental” (G. Furlanini) o di un’ascesa sociale riuscita (A. Costigliola), ora scelta obbligata perché “devenir français etait le seul moyen de se créer un avenir” (A. Ricard), vissuta con rassegnazione perché significava rinunciare al sogno del ritorno (C. Lloret) o valutata con saggezza, essa tocca le fibre profonde dell’appartenenza e non corrisponde sempre ad un bilancio positivo del percorso dell’immigrato: è il caso di questa famiglia veneta, perfettamente integrata e senza rimpianti, che si fa radiare dalle liste elettorali in Italia ma non chiede mai la nazionalità francese (A. Pério).

Nel proporci questa terza raccolta di storie di migranti, tutte così pregnanti  nella loro diversità, I. Felici ha raggiunto un altro traguardo: liberarci dall’idea monolitica di identità e consolidare  la percezione rispettosa della sensibilità altrui, prendere coscienza dell’immensa condivisione umana del dolore legata ad ogni emigrazione, allontanarci dalla convinzione che i migranti sono gli altri o che gli oltre 100.000 Italiani che emigrano ancora oggi, ogni anno, siano diversi cioè espatriati  e non migranti. Ci  propone un’altra visione del mondo in cui le radici, perse o ritrovate che siano, non diventano una nuova prigione, un mondo in cui la storia possa essere maestra, in cui si possa evitare – come si augura M. Fusaro – che “les prochaines générations ne donnent naissance à certains mostres amputés d’une partie d’eux-mêmes qui cherchent dans la violence un palliatif  à leur déracinement”. E con lei cogliamo l’invito a riascoltare le parole del poeta creolo Edouart Glissant, cantore dell’ibridazione:

Un homme
Est devenu jaloux des murs
Et puis, têtu, c’est des racines
Qu’il ne peut plus se démêler.
Il s’assoit à l’écart,
Un corps habitué,
Exclut les portes,
Exclut le temps,
Voit dans le noir
Et dit : amour.