Centocinquant’anni da oggi: Luigi Pirandello, sofista del Novecento.

Luigi Pirandello,1933 Helsinki (da Wikimedia Commons)

Luigi Pirandello,1933 Helsinki (da Wikimedia Commons)

STEFANO CASARINO.
28 giugno 1867:  esattamente centocinquant’anni fa nasceva a Girgenti – la sicula Città dei Templi dal quadruplice nome: Akrágas per i Greci, Agrigentum per i Romani, Gergent per gli Arabi e Girgenti per i Normanni: quest’ultimo fu il nome ufficiale della città sino al 1927, quando il fascismo lo italianizzò in Agrigento: da aprile del 2016 il centro storico è tornato a chiamarsi ufficialmente “Girgenti” – Luigi Pirandello, il massimo autore italiano di teatro del nostro Novecento, una delle personalità letterarie più emblematiche della modernità.

Molto si è insistito sulla sua “sicilitudine” (categoria, questa, che si può utilizzare proficuamente anche per molti altri autori, quali Verga, Vittorini, Lampedusa, Quasimodo, Brancati, Bufalino), lo ha fatto in particolare Leonardo Sciascia: un eccesso, cioè, di introspezione psicologica, determinata dall’accidia e dal fatalismo; un compiaciuto indugio nell’inazione; una verbosa e prodigiosa capacità di analisi di ascendenza gorgiana.
Tutto certamente giusto, ma credo sia oggi importante rimarcare anche la statura europea e mondiale di tale autore, percepibile sin dalla sua formazione universitaria, che ultimò dal 1889 al 1891 in Germania a Bonn, dove si laureò con una tesi dal titolo Laute und Lautentwicklung der Mundart von Girgenti, cioè: Foni ed evoluzione fonetica del dialetto di Girgenti“: anche qui si può constatare la presenza fortissima delle sue radici siciliane in un contesto, però, decisamente europeo.
Possiamo citare molti esempi dell’internazionalità del nostro Pirandello: Il fu Mattia Pascal, del 1904, già l’anno dopo, tradotto da Ludmilla Friedmann, fu pubblicato a puntate a Vienna nella rivista Fremdenblatt; nel 1924 sempre a Vienna al Ramundtheater ci fu la prima assoluta della versione tedesca dei Sei personaggi in cerca d’autore (1921), già rappresentata trionfalmente a Milano, Londra, Parigi.
Inoltre, dal 1931 al 1936 la sua Compagnia fu in tournée in gran parte del mondo. Nel 1934, infine, Pirandello ottenne il premio Nobel per la letteratura, suggello definitivo alla sua fama mondiale di autore di novelle e romanzi, di saggista e di autore di teatro e persino per il cinema, come attestano i Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925) e le versioni cinematografiche di Enrico IV, di Ma non è una cosa seria e di Pensaci, Giacomino.
Ancor oggi Pirandello è uno degli autori più rappresentati sui palcoscenici di tutto il mondo: chi scrive ricorda qui con grande piacere la splendida rappresentazione de Il berretto a sonagli (regia e interpretazione di un eccezionale Sebastiano Lo Monaco) al Teatro della Corte di Genova domenica 13 novembre 2016, a cent’anni esatti dalla sua composizione.

Perché Pirandello piace ancora oggi, entusiasma il pubblico che assiste ai suoi drammi e i lettori che si accostano ai suoi romanzi e alle sue novelle?
Come prima, immediata risposta mi verrebbe da dire: per il fascino della parola!
I personaggi di Pirandello sono degli straordinari affabulatori, parlano sempre tanto: o meglio, pensano ad alta voce, perché in lui la parola non ha un valore soltanto estetico, ma è momento di alta meditazione e di rivelazione interiore.
La parola come scandaglio, come bisturi: usata con sapienza sofistica, alla Gorgia, per intenderci.
La parola più importante dell’azione e della situazione scenica. La parola che contemporaneamente. crea e distruggi mondi. La parola che affascina e che fa disperare proprio per la sua natura polimorfa.
È detto benissimo in uno dei suoi capolavori, i Sei personaggi:
Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose, ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente, le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai.
 
Il male, dunque, è tutto nelle parole. Ma anche il bene.
Esse sono la nostra croce e la nostra delizia.
Come non ripensare a Gorgia, di cui a mio giudizio Pirandello è una sorta di reincarnazione novecentesca?
La parola è una potente signora, che pur dotata di un corpo piccolissimo e invisibile compie le opere più divine: può far cessare il timore, togliere il dolore, produrre la gioia e accrescere la compassione.
 
Gran parte della riflessione del Novecento si concentra sulla filosofia del linguaggio, particolarmente in area tedesca: da Walter Benjamin a Wittgenstein, da Heidegger a Gadamer la lingua viene considerata una sorta di condizione preesistente dell’uomo, abitatore del linguaggio.
I personaggi pirandelliani abitano le parole e abitano, quasi tutti, in interni borghesi (il salotto è il locus pirandelliano per eccellenza), in spazi chiusi che – come ha giustamente osservato Giovanni Macchia (Pirandello o la stanza delle torture, 1981) – si trasformano in veri e propri inferni, in cui gli strumenti che tormentano  e dilaniano sono, ancora una volta, le parole: un esempio evidente è Così è (se vi pare), dramma che non potrebbe avere un titolo più pirandelliano e che richiama un altro aspetto di derivazione sofistica, tipico del dibattito intellettuale del V sec. a.C., cioè il rapporto tra realtà/verità (aletheia) e apparenza/opinione (doxa).
Ciò che appare non è mai ciò che è.
Il fenomeno è in Pirandello sempre travestimento, alterazione, “maschera”.
Questo convincimento è una sorta di fil rouge di tutta la sua produzione: chi si creda adultera non lo è affatto (L’esclusa, suo primo romanzo, 1901), salvo poi diventarla davvero quando viene riabilitata – en passant, qui c’è un altro aspetto tipicamente pirandelliano, quello dell’inversione umoristica (Saggio sull’umorismo, 1908, 1920) che ha molte affinità col meccanismo della metabolé della tragedia classica –; chi è considerato pazzo in realtà è più savio degli altri (Il berretto a sonagli, Enrico IV); chi non esiste o esiste solo sulla scena è ontologicamente più concreto di chi crede di esistere (Sei personaggi in cerca d’autore).

In tutta questa confusione, il principio d’identità va a farsi benedire: tutti noi siamo uno, nessuno e centomila  come il Vitangelo Moscarda del romanzo del 1926: mi sia concessa un’altra digressione: se il cognome “Moscarda” è esemplato sull’etimo spagnolo che designa “il moscone”, mi viene in mente un altro possibile rimando alla cultura greca, a Simonide di Ceo che in un suo celeberrimo frammento paragona la vita dell’essere umano a quella, appunto, di una mosca: Tu che sei uomo non dire mai cosa accadrà domani, né, se vedi un uomo felice, quanto a lungo lo resterà: così veloce neppure di una mosca alata è il volo.
Ciascuno di noi è perso, si perde in uno dei cangianti specchietti del prisma che costituisce la propria composita esistenza; ciascuno è incapace di “trovarsi” davvero.
Trovarsi è il titolo di una commedia, composta nel 1932 per Marta Abba che ne fu la prima interprete: la protagonista, Donata – vero nomen omen – Genzi è attrice di professione e nei tanti, troppi ruoli che interpreta ha smarrito per sempre la propria identità, non sa più quando (e se) vive e quando (e se) recita. La maschera, cioè, ha finito per aderire al suo volto, per sostituirsi del tutto ad esso: non se la può più strappare di dosso.
Va ricordato che “Maschere nude” è il titolo voluto dallo stesso Pirandello per la prima raccolta delle sue opere teatrali, pubblicata da Treves dal 1918 al 1921.
Ripensare a Pirandello a centocinquant’anni dalla sua nascita è incontrare ancora una volta questo “figlio del Caos”, come egli stesso umoristicamente si definì:
Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti. Colà la mia famiglia si era rifugiata dal terribile colera del 1867, che infierí fortemente nella Sicilia. […] quella campagna continua, per i piú, a chiamarsi Càvusu, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Xáos.
 
Un “figlio del Caos” che continua a sorprenderci e a sconvolgerci, introducendoci come meglio non si sarebbe potuto fare in un’età dalla quale ancora non abbiamo preso le distanze: quella dell’inautenticità, della disappartenenza, dello smarrimento esistenziale.
Così moderni e così disperati: con lucida consapevolezza, Pirandello solleva il velo delle illusioni metafisiche e ideologiche, ci costringe a squarciare la maschera, ci rivela lo strappo nel cielo di carta, come scrive magnificamente in un brano giustamente famoso de Il fu Mattia Pascal, che considero imprescindibile. Il padrone di casa, Anselmo Paleari, di Adriano Meis alias Mattia Pascal, gli parla di una rappresentazione dell’Elettra di Sofocle – guarda un po’, ancora la presenza del greco classico – in un teatrino di marionette – i “pupi” siciliani, altro imprescindibile elemento di “sicilitudine” pirandelliana – e così filosofeggia (come certi personaggi di Euripide?):
Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.
- Non saprei – risposi, stringendomi nelle spalle.
- Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe sconcertato da quel buco del cielo.
- E perché?
- Mi lasci dire, Oreste sentirebbe ancora gli impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, tra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.

Brano davvero splendido, di straordinaria efficacia. Potremmo chiosarlo solo aggiungendo che, dopo Pirandello,  quel buco non è mai stato rabberciato e noi, ben più smarriti di Amleto, tuttora continuiamo a fissarlo senza capire e senza agire.