La letteratura spiega la politica

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STEFANO CASARINO.

La politica non mi dice nulla. Non mi piacciono gli uomini indifferenti verso la verità.
Leggo dal Dottor Zivago (1957, sessant’anni fa) e rifletto: forse hanno pensato così i tanti, troppi cittadini che non sono andati a votare in questa recente tornata di elezioni amministrative?
Questa è la vera antipolitica, l’allergia al voto quando si tratta persino del proprio Comune, del posto in cui si vive, come è successo anche nella cittadina in cui risiedo: quasi quattro cittadini su dieci non sono andati alle urne.

Da tempo, ormai, ha preso forza – e temo sempre più ne prenderà in futuro –  il convincimento che oggi leggere serva a poco, che lo studio della letteratura vada considerato un’attività secondaria, residuale – a cui dedicarsi, cioè, se proprio non si ha di meglio da fare – , oziosa e parassitaria (tu sprechi il tempo a leggere mentre altri faticano).
Resto convinto, invece, che non sia affatto così: che quasi sempre il vero “utile” non sia ciò che è immediatamente monetizzabile; che l’attività principale, alla quale dovremmo quotidianamente educarci, sia invece quella di tentare di capire ciò che accade.
Perché solo se si capisce, si agisce in modo sensato e significativo: altrimenti, si esegue, più o meno automaticamente (e allora, meglio le macchine).
Per capire davvero, letteratura e lettura restano, almeno a mio parere, strumenti formidabili e insostituibili.
Ad esempio, per comprendere cosa è successo (cosa sta succedendo) con queste elezioni amministrative, niente è più “utile” che rimettere mano a Il Gattopardo (1958, questa volta non ancora sessant’anni), opera pubblicata postuma di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, morto l’anno prima, e divenuta anche uno splendido film nel 1963 per la regia di Luchino Visconti.
Credo che per molti luoghi in cui si è votato –  e certamente anche un po’ a riguardo della politica nazionale, inviluppata sull’atavica questione della riforma della legge elettorale – due particolari presenti in quel libro diano indicazioni importanti su cui riflettere: l’affermazione, celeberrima, proferita da Tancredi al suo “zione”, il principe Fabrizio  Salina, e la stupefacente “carriera” di don Calogero Sedara, il “nuovo” sindaco di Donnafugata.
Allo zio di comprovata fede borbonica, preoccupato che il nipote si unisca ai garibaldini, così risponde il nipote: Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.
Questa la quintessenza del “gattopardismo”, della vera natura della politica italiana, dal Risorgimento ad oggi.
Il cambiamento, cioè, di facciata, non di sostanza.
Il riciclaggio facile e palese di chi ieri era da una parte ed oggi è da un’altra.
Ieri Borboni, oggi Savoia.
Ieri Destra, oggi Sinistra: o viceversa.
Ieri in maggioranza con gli uni, oggi in maggioranza con gli altri.
Con un’unica, incrollabile fedeltà: quella ai propri interessi, in nome dei quali ci si può (anzi, si deve) camuffarsi da innovatori, restando però conservatori nell’intimo. Conservatori delle proprie rendite di posizione, dei rapporti di potere stratificati e consolidati nel tempo con un’accurata rete di relazioni interpersonali.
Il gattopardismo è figlio consapevole di una scanzonata, iperrealistica e assolutamente statica concezione della politica: il potere sempre agli stessi, da generazione in generazione, da gruppo a gruppo, gabellando per “nuovo che avanza” il “vecchio che trionfalmente perdura”. Così, nessuno perde mai in nessuna elezione, ma a vincere sono sempre gli stessi. Rientrano i fenomeni passeggeri, ritorna un bipolarismo apparente, trionfa soprattutto la voglia di coalizione, in modo da garantire qualcosa a tutti e molto sempre ai soliti noti.
Più interessante ancora, leggendo il capolavoro citato, è l’ascesa al potere del sindaco: non intelligente, ma furbo (la furbizia della volpe, per dirla col troppo spesso frainteso Machiavelli, è la dote essenziale, almeno da noi, del vero politico); capace di dare un prezzo a tutto; pronto a servire per poco pur di comandare poi; untuoso e servizievole, cinico e implacabile.
Ogni cambiamento, più o meno reale, è per lui occasione per accrescere il proprio tornaconto.
Quanti “don Sedara” sono usciti, stanno uscendo dalle urne?

C’è ancora un ultimo aspetto, per il quale può venirci in soccorso la letteratura.
Queste elezioni, si è detto, hanno visto il trionfo delle liste civiche e delle coalizioni.
Tanti hanno scoperto improvvisamente di avere la vocazione per la politica, si sono volentieri sobbarcati l’onere della campagna elettorale: molte liste, un numero di candidati esorbitante.
Per una città di meno di 23.000 abitanti – cito solo un esempio –cinque candidati sindaco, 18 liste, 288 candidati come consiglieri comunali.
Che encomiabile partecipazione politica, si potrebbe dire.
Peccato che non abbia riscontro in un’analoga partecipazione al voto.
Seguitando così, corriamo il rischio di  avere in futuro più candidati che votanti.
D’altronde, c’è forse bisogno oggi di avere un minimo di preparazione specifica per diventare amministratore, per fare carriera politica?
Certamente no, altrimenti sarebbe discriminatorio, elitario, antidemocratico.
Si era perfettamente accorto di ciò Leonardo Sciascia – ecco il terzo contributo alla comprensione dell’oggi che la letteratura ci può offrire – quando in Una storia semplice (1989, solo ventotto anni fa) immagina il colloquio tra il vecchio professore di lettere Franzò e il magistrato inquirente, antico alunno del primo.
Accertatosi che l’anziano docente si ricordasse di lui, il giudice così gli si rivolse (copio integralmente questo scambio di battute, perché ritengo spieghino perfettamente il punto della questione):

“Posso permettermi di farle una domanda?…Poi gliene farò altre, di altra natura…Nei componimenti di italiano lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?”
“Perché aveva copiato da un autore più intelligente”.
Il magistrato scoppiò a ridere. “L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…”
“L’italiano non è l’italiano: è il ragionare”, disse il professore, “Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto”.
La battuta era feroce. Il magistrato impallidì. E passò a un duro interrogatorio.

Ritengo questo brano addirittura profetico di come si sia evoluta (?!) da quei tempi la situazione nel nostro Paese. Con l’istruzione e la cultura come zavorre di cui liberarsi e da dileggiare; con la spregiudicatezza che fa fare carriera.
Quel magistrato, che da ragazzino non aveva remore a copiare e poi è diventato un importante funzionario pubblico, è ancora una volta, gattopardescamente, il simbolo di tanti che troppo spesso si insediano saldamente in posti di potere.
Certamente, mi viene da concludere, leggere e far leggere è davvero pericoloso.
Può far venire strani pensieri, può permettere di capire addirittura troppo bene come va la politica. A tutti i livelli.