Filosseno

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GABRIELLA VERGARI.
«Filosseno, Filosseno…»
La voce di mio padre mi giunge alle orecchie sollecita, ma attutita dalla sordina di distanze che non stenterei a definire siderali. O forse è solo la mia mente che, nel soffice involucro di quelle distanze, galleggia compiaciuta e rifiuta, irritata, ogni sollecitazione contingente.
Ad un ultimo, più spazientito “Filosseno”, mi riscuoto tuttavia, e torno ad inquadrare i contorni dello scoglio su cui l’intrepida avanzata di una colonia di granchi affamata attesta, inconfutabile, la lunga immobilità della mia posa. Rassicurato dall’evidenza della mia staticità, un passero è giunto finanche a saltellarmi tra i piedi scalzi dei sandali che ho preferito abbandonare poco più in là, a riva. Ma il repentino sobbalzo, che segna il mio ritorno alla realtà, gli fa subito riguadagnare il cielo, in un frullo di spaventata sorpresa.
Ḕ tardi, lo so, e il sole, magnanimo, già spande da un pezzo la splendida lama dei suoi raggi verticali. E mio padre sarà certo esasperato dal mio ennesimo ritardo. Ma come spiegargli che nessuna urgenza può mai per me valere le teorie di quell’uomo straordinario, capace di stabilire rapporti tra entità disparate, studiare l’equilibrio dei piani, sondare la rifrazione della luce e perfino sollevare il mondo, con un semplice punto d’appoggio?
Oggi ad esempio quell’uomo, Archimede, mi ha rivelato un altro, meraviglioso segreto, sull’acqua e le sue forze e, sgomento, sono corso al mare non tanto per osservarlo, con quelle sue mille braccia nascoste, in grado di far riemergere i corpi in superficie proprio come se li sostenessero, respingendoli a galla, quanto per riflettere sugli illimitati poteri della mente umana, così vigorosi da penetrare l’invisibile, e formidabili da squarciare le tenebre delle leggi universali.
Sono ormai mesi che, come predatori ansiosi di piombare finalmente su una preda succulenta, pregustata da gran tempo, le triremi del console romano Marcello presidiano le nostre coste, guatandole sornioni. E sento, purtroppo, che si avvicina sempre più il giorno in cui la Sicilia resterà orba del suo incantevole “Occhio” e Siracusa si spegnerà in un’orgia di rapine e ruberie.
Quale meraviglia che il genio di uno solo di noi, Archimede appunto, in una con la previdenza del nostro grande, antico tiranno Dionisio, sia però al momento riuscito, non dico ad allentare, ma addirittura a spezzare la morsa dell’assedio nemico?
Eppure, quando i Romani sono giunti in forze, investendoci dai due fronti di terra e di mare, nessuno di noi l’avrebbe né detto né sperato. Malgrado ne fossimo andati fieri per decenni, il nostro “chiodo”, il castello Eurialo, con tutto il suo solido muro di sbarramento, la triplice fila di fossati, le cinque massicce torri quadrangolari, le ampie cisterne, i numerosi trabocchetti e l’intricato sistema di cunicoli appositamente studiati per eventuali sortite dall’interno, ci è parso allora un baluardo appena sufficiente. Ricordo anzi benissimo come ci siamo disperati di poter mai fronteggiare quell’attacco imponente, ma proprio quando meno ce lo aspettavamo, eccoci un saggio di quei singolari poteri della mente, validi a tutto, se scaturiti dall’ingegno di un uomo eccelso, anche a soggiogare, a distanza, frotte di nemici ritenuti invincibili.
Convinto dalle nostre insistenze ed impietositosi della nostra sorte, Archimede ha infatti condotto le sue macchine belliche all’interno del castello, e ha cominciato a far piovere sulla fanteria romana massi enormi che ne hanno scompigliato i ranghi, mozzando il fiato a chiunque abbia assistito a quello spettacolo atroce ma a suo modo grandioso.
Ha fatto poi proiettare all’infuori della cinta muraria pali lunghissimi che, puntati in direzione delle navi nemiche, le hanno affondate inesorabili, o le hanno colpite dall’alto con pesi immani, o le hanno sollevate dritte, afferrandole per la prua con ganci di ferro, o becchi simili a quelli delle gru, per poi immergerle di nuovo nell’acqua, dalla parte della poppa.
Con cavi azionati da dentro la città, altre navi sono state invece fatte girare come impazzite fino sfracellarsi contro gli scogli, o le rocce sottostanti.
Ma la vittoria più bella l’abbiamo conseguita contro la “sambuca” di Marcello, la macchina da guerra con cui il console aveva confidato di poterci mettere in ginocchio, progressivamente raggiunta da massi pesanti più di dieci talenti ed interamente sconquassata dalla base.
Non a caso i disertori ci hanno successivamente riferito come il console, avvilito da quest’ultimo smacco portentoso, non abbia saputo trovare di meglio che esclamare: «Ma non la smetterà mai dunque di tormentarci questo Archimede che, con la sua scienza, supera, da solo, e di gran lunga, la forza dei giganti a cento mani, di cui i poeti favoleggiano?»
La scienza!
Ḕ grazie a lei se adesso la vita di Siracusa sembra ritornata alla normalità ed i nemici paiono aver desistito da qualunque manovra scopertamente offensiva.
E però, quanto ancora durerà questo clima di calma apparente?
Guardo in alto, verso l’Epipole, dove il castello Eurialo, il nostro gioiello difensivo, pare emettere riflessi rassicuranti alla carezza dei raggi meridiani, ma la torre abbandonata che scorgo nei suoi pressi non mi lascia affatto tranquillo.
Dovrei forse parlarne con il Maestro, ma è tornato ai suoi studi e tralascia ormai di occuparsi di tutto ciò che non nasca da esigenze puramente speculative.
Non fa che tracciare linee e figure, dovunque, perfino sulle membra del suo corpo unto di balsamo dopo il bagno, assorto per ore alla ricerca di impossibili risposte. Quanto alle sue macchine micidiali, ha chiesto che non ne resti nulla e che solo una sfera inscritta in un cilindro possa un giorno contrassegnare la sua tomba.
Ho quasi raggiunto mio padre.
Prima però di accostarlo, mi fermo ad osservare ancora una volta la città. Ed essa in contraccambio mi sorride con uno sfolgorio di luci sontuose al punto da renderla davvero bellissima.
Bellissima ma vulnerabile come non mai: li scorgo infatti ribollire all’orizzonte i nuvoloni, tumidi di pioggia e funesti come demoni danzanti in attesa della carneficina.
Così, quando infine lo raggiungo, non alzo gli occhi su mio padre per nascondergli come siano gonfi di pianto.

tratto da: GABRIELLA VERGARI, L’isola degli elefanti naniAG Edizioni, Catania 2003