Viandanti del tempo al Teatro Greco di Siracusa

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GABRIELLA MONGARDI.

Ciascuno ha la sua Mecca. Un luogo dove andare in pellegrinaggio almeno una volta nella vita. Per me, quel luogo è il Teatro Greco di Siracusa, durante il ciclo di rappresentazioni classiche organizzate dall’INDA, l’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Quest’anno, per la 53° edizione del Festival, vengono messi in scena I Sette contro Tebe di Eschilo e Le Fenicie di Euripide, due tragedie ‘gemelle’, legate allo stesso episodio del Ciclo tebano, lo scontro mortale tra i fratelli Eteocle e Polinice, figli di Edipo e della moglie-madre Giocasta.

Non ha senso esporre la trama di una tragedia greca, perché il centro dell’interesse dell’autore antico e del suo pubblico non è mai il “che cosa”, l’argomento mitologico già ben noto a tutti, ma il “come”: l’interpretazione, il taglio, il montaggio che ne viene dato.

Nella versione di Euripide è Giocasta a ‘raccontare’ nei dettagli il mito, a partire dalla fondazione di Tebe da parte del fenicio Cadmo, bisavolo di suo marito Laio, fino alla nascita del loro figlio Edipo sotto infausti presagi, che immancabilmente si avvereranno: infatti Edipo inconsapevolmente ucciderà suo padre e sposerà sua madre, e da questo groviglio di colpe annunciate scaturiranno le sventure della stirpe, fino all’attuale: l’arrivo di Polinice armato contro suo fratello e la sua patria, per riprendersi il trono di Tebe che Eteocle non gli vuole cedere, violando il patto di alternanza.

Ma il diritto di Polinice è solo fugacemente ricordato, Giocasta supplica Zeus che i suoi figli si riconcilino: la riconciliazione e la concordia dei fratelli sono per lei il valore supremo; per questo  li ha convinti ad incontrarsi, in Tebe, prima dello scontro.

Antigone e il pedagogo sulle mura di Tebe

Antigone e il pedagogo sulle mura di Tebe

Se tutto il teatro greco è sostanzialmente un “teatro di parola”, stante che i fatti cruenti, violenti, non avvengono in scena sotto gli occhi degli spettatori, ma vengono riferiti da un messaggero, il teatro di Euripide lo è in modo particolare: si direbbe che i vari quadri che compongono la tragedia (Antigone e il pedagogo che dalle mura riconoscono i campioni dell’esercito nemico – topos proprio dei poemi epici; il dialogo tra Giocasta e i due figli; i consigli di Creonte al nipote Eteocle; la profezia di Tiresia; il compianto sui cadaveri) non siano che occasioni per meditazioni filosofico-politiche. Sono considerazioni di grande attualità all’epoca in cui l’opera venne rappresentata per la prima volta ad Atene, nel 411 a.C., poco dopo un colpo di Stato oligarchico: l’invito alla concordia tra i cittadini-fratelli, la celebrazione della libertà di parola, il discorso sul potere e la sete di potere, la condizione dell’esule e la supremazia della legge – sono considerazioni di grande, perenne attualità…

Il regista, Valerio Binasco, ha voluto sottolineare questa perennità con costumi moderni e un angolo da salotto liberty, da dove una pianista accompagna con il suo pianoforte le parole ieratiche della corifea, ottenendo un effetto urtante di straniamento e accentuando forse fin troppo il distaccato intellettualismo del testo, che pone problemi senza offrire soluzioni, dando voce imparziale ai diversi punti di vista in modo addirittura dissacrante. L’unica certezza di Euripide, la cornice in cui tutto si iscrive è il fatalismo: bisogna sopportare ciò che ci viene dagli dei senza sapere perché; il destino ci vuole sventurati…

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La distanza dell’autore è annunciata fin dal titolo: il punto di vista adottato è quello delle Fenicie, le donne straniere del coro che, andando al santuario di Apollo a Delfi, arrivano a Tebe e assistono alla vicenda che qui ha luogo, e in cui loro non sono minimamente implicate. Questa estraneità, nella regia di Binasco, è espressa dalle maschere che le donne indossano, e dal loro silenzio: si limitano a commentare ciò che accade per bocca della corifea, senza intervenire in alcun modo nell’azione.
La scelta di un’attrice che parla italiano con un forte accento straniero per questo ruolo è giustificabile, con un po’ di sforzo si può giustificare anche la scelta di un attore straniero a interpretare Edipo, ma rimane l’impressione che siano provocazioni un po’ gratuite.

Il distacco intellettualistico si manifesta anche nell’ironia tragica, che non gioca solo sul diverso livello di consapevolezza tra personaggi e spettatori, ma vira decisamente al grottesco nel meccanico intercalare del messaggero («mi dispiace»), che comicamente vorrebbe portare solo buone notizie e invece deve annunciare a Giocasta la morte dei due figli… Altrettanto grottesco (anche nel trucco) l’indovino Tiresia, che vanifica la propria sacerdotale autorità dichiarando blasfemo: «Stolto chi pratica l’arte dei vaticini: solo Febo dovrebbe darli, ma a lui non gliene frega niente di nessuno». Eppure il suo vaticinio provocherà il suicidio di Meneceo, figlio di Creonte, che si vorrà sacrificare per la patria – ma anche questo gesto non è risparmiato da una (urtante) venatura di grottesco. Queste scelte del regista sono uno choc non da poco per lo spettatore – che a sua volta non può che difendersi con il distacco e la freddezza, evitando ogni coinvolgimento emotivo.

Con I Sette contro Tebe di Eschilo, invece, il coinvolgimento è massimo, a partire dal saluto che un attore, in veste di Prologo, rivolge agli spettatori, “viandanti del tempo”, ricordando che le pietre hanno conservato la memoria dei suoni e delle parole risuonate lungo i millenni nel teatro, e il vento adesso le risveglia… Comincia così un vero e proprio viaggio nel tempo, in cui la tecnologia moderna, i trucchi e gli effetti scenici diventano strumenti di una sorta di rito sciamanico, propiziatore di catarsi.

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Il regista Marco Baliani ha optato per un taglio antropologico: attraverso i costumi e le danze, i personaggi antichi sono assimilati ai primitivi, esprimono i loro sentimenti attraverso il corpo, con una gestualità apparentemente molto spontanea, che infonde calore anche alle parole e ai giochi di parole – soprattutto le antitesi – tese a esprimere la condizione tragica dell’uomo.

La tragedia, rappresentata per la prima volta ad Atene 56 anni prima delle Fenicie, si apre con il coro dei giovani tebani in preda alla paura per l’imminente arrivo dell’esercito di Polinice: dalle gradinate della cavea, attraverso gli altoparlanti, si ode la voce di Eteocle che li rincuora, esortandoli a fare ciascuno la propria parte per difendere la patria minacciata. Gli spettatori si vengono così a trovare al centro del dialogo teatrale, mentre altrettanto fuori scena, dall’alto di una rupe, il messaggero annuncia che i nemici sono alle porte.

Eteocle e Antigone

Eteocle e Antigone

C’è un grande dinamismo in questa rappresentazione, imperniata sul coro agitato dalla paura per qualcosa che non si vede e quindi appare ancora più terribile: e i rumori della guerra – scalpitar di cavalli accorrenti, nitriti, colpi minacciosi – riempiono tutto il teatro… 

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Quando il messaggero indica quali sono i sette guerrieri scelti da Polinice per attaccare le sette porte di Tebe, ed Eteocle a sua volta designa i sette difensori, la lunga scena corale, grazie al graticcio di canne di bambù e alle maschere, diventa quasi una cerimonia rituale di iniziazione, mentre ricorda l’Haka dei Maori la battaglia combattuta contro una minaccia invisibile, fatta solo di rumori. Si entra in una dimensione onirica, da incubo, se non fosse per la vibrante luminosità del cielo, per l’impassibile serenità dei cipressi e dei lecci sullo sfondo…

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Nell’ultimo episodio, di fronte ai cadaveri dei due fratelli che si sono reciprocamente dati la morte, Antigone piange tutta l’assurdità del loro e del suo destino, di divisa tra i due fratelli, e il coro ugualmente si divide: la parte maschile ubbidisce al decreto emesso dall’altoparlante di seppellire il solo Eteocle, la parte femminile si oppone e dà sepoltura a Polinice, perché «è sempre mutevole ciò che un governo ritiene giusto» e «non si può sfuggire a un dolore voluto dagli dei».

Quella di Baliani è un’interpretazione del testo greco forse filologicamente discutibile, ma teatralmente fedele al suo spirito profondo – che come insegna Nietzsche è lo spirito della musica, unione di apollineo e dionisiaco – e lo rende percepibile, vivibile, allo spettatore di 2500 anni dopo.

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