Dal Seicento, un bouquet di “sfarzosi affetti”

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GABRIELLA MONGARDI.

È possibile costruire il programma di un concerto come se fosse una playlist? È quanto ha fatto il maestro Enrico Onofri, uno dei violinisti barocchi più apprezzati nel mondo, per il secondo concerto dell’orchestra “I Giovani dell’Academia” della stagione 2016-2017: mentre la seconda parte della serata è stata riservata a due sole opere suonate nella loro interezza, il Concerto in Re maggiore op. 6 n.7 di Arcangelo Corelli e la Sonata V in Sol maggiore da “Armonico tributo” di Georg Muffat, nella prima parte sono stati presentati ben sette autori – quasi tutti del Seicento italiano, il periodo prediletto da Onofri – ma eseguendo perlopiù un solo movimento di un’opera più vasta: motivo conduttore e unificante della ‘playlist’ gli “sfarzosi affetti” che la musica barocca si incarica di esprimere, attraverso il virtuosismo degli interpreti.

Il Seicento musicale italiano è per così dire il crogiolo, l’incunabolo della musica moderna: questo secondo concerto dei Giovani ci ha portato agli albori, alle scaturigini della sonata, della sinfonia, del concerto, forme ancora fluide, magmatiche, che saranno poi canonizzate e regolarizzate nel corso del Settecento per generare la maestosità strutturale delle sonate, delle sinfonie e dei concerti del Classicismo di Mozart, Haydn, Beethoven. Qui invece c’è una grande fluidità di forme, le indicazioni dei vari movimenti non sono che modulazioni di stati d’animo, come risulta evidente dalle opere di Corelli e Muffat proposte nella seconda parte della serata: stiamo assistendo all’emancipazione della musica dal canto, in un dinamico trascolorare di pulsioni contrapposte.

Nel ’600 italiano, controriformista, l’unica distinzione importante era quella tra musica sacra e profana, non le differenze tra i vari generi musicali, men che meno tra musica vocale e strumentale, essendo la musica strumentale considerata mero accompagnamento al canto. In effetti nei brani proposti nella prima parte della serata è visibilissima la vicinanza di questa musica con il canto: l’orchestra sembra un coro a più voci, in un gioco di specchi tra strumenti e cantanti; uno dei brani interpretati (quello di Gabrieli) si chiama “Canzon”, nella Serenata di Biber l’aria è una canzone struggente per quattro voci maschili, introdotte da violini e viole in pizzicato e accompagnate dal solo contrabbasso.

Ma anche nella sinfonia di Landi  la mozione degli affetti è fortissima: è una vera e propria tempesta di passioni quella che investe l’ascoltatore, una tempesta creata dalla complessità ritmica, dai forti contrasti chiaroscurali, da rochi pianissimi da brivido, in cui sembra di sentire voci umane sprigionarsi dalle corde degli archi. Anche nella sonata di Castello la struttura fugata non è che un pretesto per l’intreccio dialogico di voci individuali che si stagliano sullo sfondo di compatte masse sonore, sotto cui si spalancano profondità abissali.

L’orchestra conferma le qualità interpretative evidenti già nel precedente concerto – grande sicurezza tecnica unita a talento e sensibilità artistica – galvanizzate da un maestro ‘perfetto’ come Enrico Onofri.