La resistenza continua che non smobilita.

olga

STEFANO CASARINO.

Un discorso pubblico di celebrazione ufficiale ha spesso un sapore di insopportabile retorica, di parole che suonano bene e che però dicono poco, a volta nulla. Personalmente, invece, sono convinto che le parole ‘pesino’, siano concrete e preziose e debbano essere sempre usate con grande cautela.
C’è la necessità di pesarle, di valutarle, di chiedersi cosa significhino: resto caparbiamente convinto che un’accurata educazione linguistica – oggi del tutto trascurata – sia la base ineliminabile di una seria educazione alla democrazia.
Dobbiamo conoscere e padroneggiare il significato delle parole, per la necessità di un uso corretto del linguaggio. Dobbiamo ripartire dall’insegnamento di Platone che afferma: “il parlare scorretto fa male all’anima”. Oggi quanto “parlare scorretto” ci violenta e ci avvilisce!

Allora, chiediamoci oggi assieme, a 72 anni di distanza da “quel” 25 aprile 1945, il significato di due parole: “Resistenza” e “partigiano”.
Cosa significa nella nostra lingua madre “resistenza”? Possiamo identificare due significati: uno “passivo”, nel senso di “riuscire a sopportare” (es. resistere all’età, alla crisi) e uno “attivo”: “opporsi, contrastare” (es. resistere al male, alla dittatura).
Quest’ultimo è anche e soprattutto il significato storico e morale della nostra Resistenza, che iniziò dopo l’8 settembre 1943, ma che fu anticipata da figure straordinarie come Matteotti, Gramsci e Montale, il poeta che scrisse: codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Quell’oggi risale al 1923 (Ossi di seppia), il fascismo nacque nel 1919: quel “non siamo”, quel “non vogliamo essere” significava anzitutto: non siamo e non vogliamo essere fascisti.
Affermo qui un mio personale convincimento: i primi che dovrebbero, che devono “resistere” sono gli intellettuali, gli uomini di cultura: altrimenti, se si rinchiudono altezzosamente in una loro torre d’avorio oppure se sono compiacenti e si trasformano in cortigiani di qualsivoglia potere, smettono di avere la funzione che da Platone in poi giustifica la loro vera dignità intellettuale e la loro insostituibile funzione sociale: si riducono ad essere degli eruditi, più o meno brillanti e più o meno noiosi.
Ed è di cultura e non di erudizione che abbiamo oggi e sempre bisogno, a tutti i livelli, non ultimo certamente quello europeo.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di intellettuali che dicano “no” a ciò che si profila nel “nostro” Occidente, nella “nostra” Europa ma non solo; che dicano “no” con tutta la forza possibile (che deriva dallo studio interiorizzato, dalla cultura, dalla riflessione) al nuovo divampare di intolleranze, di estremismi, di egoismi nazionalistici; che dicano “no” alla progressiva e ora quasi totale mancanza di quei valori di altruismo e di solidarietà che sono stati il lievito naturale della nostra Resistenza e di cui, se siamo oggi qui, dobbiamo essere tutti consapevoli ed orgogliosi, senza che ci sfiori nemmeno per un secondo la tentazione di comprometterli o di mercanteggiarli.
Ho citato Montale: non solo un grandissimo poeta, soprattutto un grande uomo, una grande coscienza di autentico liberale.

Un altro autore che ci dà un’indimenticabile lezione di “resistenza” è Antonio Gramsci. Le sue Lettere dal carcere sono una testimonianza imprescindibile per capire cosa vuol dire “resistere” pagando di persona, rinunciando a quasi tutto. Ecco cosa scrive alla madre:
“Ci vorrà pazienza ed io pazienza ne posseggo a tonnellate, a vagoni, a case.[…] Adesso […] sono diventato anche più capace di resistere ai colpi di martello sulla testa che gli avvenimenti mi hanno vibrato e ancora mi vibreranno[…] Sono sicuro di poter resistere anche in avvenire.”
Questo brano, secondo me, ci interroga, chiama in causa tutti noi: “noi” siamo in grado di “resistere anche in avvenire”, ora che l’avvenire sembra, come è stato detto da tante parti, più una minaccia che una promessa? Una domanda, questa, che non possiamo eludere, sia per noi che per i nostri giovani. Ci aiuta a rispondere un’altra riflessione di Gramsci, che in un’altra lettera scrive:
“Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio. Mi sono convinto che bisogna sempre contare solo su se stessi e sulle proprie forze; non attendersi niente da nessuno e quindi non procurarsi delusioni. Che occorre proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e andare per la propria via. La mia posizione morale è ottima: chi mi crede un satanasso, chi mi crede quasi un santo. Io non voglio fare né il martire né l’eroe. Credo di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo”.

A parere mio, questo è il vero ritratto del “partigiano”: un uomo medio, normale, né martire né eroe, né santo né satanasso.
Dovremmo tenerle ben presenti queste parole, oggi che siamo passati con estrema facilità dall’esaltazione acritica, da una sorta di venerazione della Resistenza, ad una demistificazione spietata, molto spesso eccessiva ed ingiustificata.
Ma allora, cosa vuol dire “partigiano”?
Anche qui, simmetricamente, come per “resistenza”, possiamo identificare due significati: uno “negativo”: “chi parteggia, chi è fazioso”; e uno “positivo”: “il combattente non appartenente ad un esercito regolare”.
E anche quest’ultimo, proprio come prima per “resistenza” è il vero significato storico. Chi sono stati, storicamente, i “partigiani”?
Non certamente e non solo intellettuali, ma gente semplice, come noi: il popolo, che allora non ha dato vita a nessun “populismo”, o meglio “nazionalpopulismo”: che termine orrendo, ora così inflazionato!
Non si raccomanderà mai abbastanza di diffidare di molti termini che finiscono in “-ismo”: se mi è concesso un facile gioco e un pizzico di ironia anche in un serio discorso ufficiale, meglio i termini in “-esimo”, ad esempi “Umanesimo” e “Cristianesimo”!
Quel popolo ha dato vita anzi ad una reazione esemplare per altezza morale e per grande disponibilità al sacrificio personale.

Da una visione d’insieme del fenomeno storico della Resistenza, senza soffermarci sulla triste, anzi tremenda contabilità della guerra (quanti partigiani sono morti e sono stati deportati? Quanti civili sono stati uccisi per rappresaglia? ecc…) possiamo arrivare alle seguenti – spero condivise – considerazioni.
I partigiani sono stati comunque una minoranza: ricordo una vecchia vignetta di Giovanni Mosca (in Storia d’Italia in 200 vignette, 1975) che rappresentava Mussolini sbraitante dal palco e sotto di lui tante pecore plaudenti, con una voce che chiedeva: “Questi chi sono?” e l’altra che rispondeva: “I futuri leoni dell’antifascismo”: ieri come oggi, la massa (che non va confusa col popolo: la prima non ha consapevolezza di sé, resta anonima ed indistinta; un popolo, invece, ha una sua identità derivante da valori condivisi) è facile da ingannare e da turlupinare! Quelli che allora presero la via dei monti non furono la maggioranza; anzi la maggioranza, ieri come oggi, è quella di gente per la quale, come per il manzoniano Don Abbondio, “il coraggio uno non se lo può dare”: e invece la Resistenza italiana proprio questo ha dimostrato, che il coraggio in certi momenti bisogna darselo!
I partigiani non erano di un’unica “parte politica”: furono azionisti, socialisti, comunisti, cattolici, liberali, monarchici: il denominatore comune a tutti quanti è però facile da identificare: l’ antifascismo.
Credo che oggi questo si stia un po’ finendo per dimenticarlo, a tutto vantaggio, purtroppo, della nascita subdola e virale di nuove forme di “fascismo postmoderno” che stanno sempre più infestando il nostro presente.
I partigiani erano in prevalenza giovani: l’ età media era di 24/25 anni. Da quegli anni abbiamo assistito a tante trasformazioni della gioventù, dall’impegno al disimpegno, dalla contestazione all’acquiescenza, ma stiamo molto attenti alle facili etichettature. Qualcuno in tempi molto recenti ha affermato: “i giovani non leggono, sono apatici, sono indifferenti, sono bamboccioni, sono choosy (schizzinosi, con la puzza sotto il naso). Ci sono momenti nella storia, non troppo lontani da noi, nei quali i giovani hanno dato una formidabile lezione di etica e di impegno civile!

La Resistenza non fu un fenomeno “maschile”: fondamentale (come sempre) il contributo delle donne. Furono utilizzate come “staffette”, per garantire i collegamenti tra le varie brigate e tra i partigiani e i loro familiari. Voglio ricordare qui , film del 1976 di Giuliano Montaldo, grande regista e grande uomo, invitato dall’ANPI di Mondovì nella nostra città due anni fa, giovedì 23 aprile 2015: come tante delle iniziative che si organizzano qui da noi, permettetemi di dire che avrebbe meritato certamente maggiore risalto.
Ma le donne furono anche straordinarie combattenti: alcune di loro furono capi squadra, altre ebbero incarichi di responsabilità istituzionale: è il caso di Gisella Floreanini nella Giunta provvisoria della Repubblica dell’Ossola, che così scrisse: “La Repubblica dell’Ossola è la sola che abbia immesso una donna nella Giunta provvisoria di governo […]. Fu questa già una prova di una maturità democratica della Repubblica ossolana; essa sta ad indicare sia il peso che ha avuto il lavoro che le donne svolgevano, sia la maturità politica degli uomini della Giunta e proprio perché i Commissari al governo dell’Ossola portavano avanti un’Italia che pochi pensavano che così sarebbe stata. È l’Italia anche delle donne. È l’Italia del voto alle donne, del riconoscimento dei loro diritti politici, sociali, civili. [...]. Una donna che non fosse una regina, una principessa, una badessa, è diventata dirigente di governo!”. Lei fu la prima “Ministra” in Italia, dal 9 settembre al 23 ottobre 1944: ma allora nessuna la chiamò con quel termine, oggi così politicamente corretto e così brutto!
La Resistenza non fu affatto un fenomeno “laicista”: da laico, personalmente mi commuove il fenomeno dei “Preti partigiani”; vorrei ricordarne solo uno, recentemente scomparso, don Aldo Benevelli (morto il 19 febbraio 2017, a 93 anni), arrestato e torturato dalle SS, fondatore nel 1966 della Associazione Internazionale Volontari Laici (LVIA): esempio di vita davvero cristianamente al servizio del prossimo ed esempio di “resistente perenne”.
La Resistenza non fu un fenomeno solo italiano: dobbiamo essere giustamente orgogliosi della nostra, ma mentre la festeggiamo non dobbiamo dimenticare quella degli altri Paesi, e anche facendo ciò possiamo e dobbiamo sentirci “europei”. Ricordiamo i maquisards francesi (coloro che si danno alla macchia, maquis : un Paese che oggi avrebbe più che mai bisogno di ricordarsi di loro); la resistenza polacca, greca.
Un risalto particolare merita quella spagnola, antifranchista, che mi permette di citare un grande autore, Ernst Hemingway, che partecipò alla guerra civile spagnola (1936-39) e che ci ha lasciato formidabili ritratti di partigiani e resistenti in Per chi suona la campana (1940; il film è del 1943).
Curando in precedenza un documentario, Terra di Spagna, Hemingway nel discorso di presentazione del 4 giugno 1937 affermò in modo perfetto, con quella nettezza di stile e di pensiero che lo contraddistingue: “Il fascismo è una menzogna detta da prepotenti: anche questo è bene non dimenticarlo mai”.

Infine, e forse soprattutto: i partigiani non sono morti: muore davvero, come ci insegna la cultura classica, chi viene dimenticato, ma loro vivono nel nostro ricordo, vivono oggi che ne parliamo e li celebriamo.
E soprattutto non sono morti per niente. Ci hanno dato questa libertà che oggi noi diamo tranquillamente per scontata (come la pace, come il non soffrire davvero la fame): ma che scontata, invece, non lo è mai, per niente, come la Storia purtroppo continuamente ci insegna.

Recentemente è scomparso Tzvetan Todorov (Sofia 1939 – Parigi 7 febbraio 2017), grande pensatore bulgaro naturalizzato francese, un “profugo”, insomma.
La sua ultima opera si intitola: Resistenti. Storie di donne e uomini che hanno lottato per la giustizia (2015) e contiene biografie di personaggi come Pasternak, Solzecnicky, Nelson Mandela: nell’Avvertenza l’autore afferma che il libro è stato scritto prima dell’attentato terroristico alla redazione di Charlie Hedbo.
Cambiano i nemici contro cui si deve resistere: oggi sono i nuovi integralismi, i fanatismi religiosi, i nazionalismi che erigono muri, i populismi, il terrorismo.
Ma non cambiano le motivazioni: si resiste per non soccombere all’ingiustizia, all’odio, alla violenza, alla follia assurda, ieri di chi credeva nella superiorità di una razza su un’altra, oggi di crede nella superiorità di una fede su un’altra, di una cultura su un’altra.
E allora, al termine di queste riflessioni condivise con voi, forse il senso più profondo di resistenza credo si possa trovare in una bella affermazione di Remo Cantoni (1914-1978): “La rivoluzione continua è quella di una intelligenza critica che non smobilita”.
Se al termine “rivoluzione” sostituiamo il termine “resistenza” la frase mantiene inalterato il suo significato, che vorrei consegnare a tutti voi: “La resistenza continua è quella di una intelligenza critica che non smobilita”.
Non smobilitiamo, per favore, di fronte alle tante, troppe ombre che oscurano il nostro presente: solo se saremo vigili e “resistenti” potremo garantire l’alba di un domani migliore, per noi e, cosa ancora più importante, per i nostri figli.
Quindi davvero: “Ora e sempre Resistenza”.