Tra peccati e virtù: ira e accidia

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Filippo Argenti visto da William Blake (1757-1827)

FRANCO RUSSO.

Ho attraversato la vita in adorazione della Divina Commedia e sono ancora convinto che di più non si possa. Infatti se penso ad ira ed accidia non mi vengono in mente i sette peccati capitali ma l’ottavo Canto dell’Inferno. Mi ricordo che, al liceo, al primo incontro con Filippo detto Argenti per il cavallo ferrato d’argento, simbolo del peccatore iracondo, lo stesso mi è sembrato un amico ed un complice. E, al tempo stesso, Dante mi è un po’ scaduto, per il suo atteggiamento infantilmente – e inutilmente – vendicativo nei confronti del dannato. Sia pure che il povero Filippo, di cui non sapevo niente, secondo le lettissime note a piè di pagina era di una famiglia nemica, ma un peccato “minore” non giustifica, secondo me, tanto accanimento. Vero che il “piccolo” Dante sembra un po’ meno piccolo rispetto al Romeo Lucignolo Virgilio che prima spinge il povero Filippo “via costà con gli altri cani”, poi conforta il povero Dante per la santa arrabbiatura “benedetta colei che in te s’incinse” e, infine, rassicura il complice ansioso di vedere Filippo straziato a morsi dagli altri dannati  “tu sarai sazio: /di tal disio convien che tu goda”. E Dante chiude degnamente la partita coinvolgendo l’inconsapevole Dio nella brutta pagina “dopo ciò poco vid’io quello strazio / far di costui alle fangose genti, / che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio”. E questo Dante minore, non  contento, chiama ancora, nel Paradiso, a complice dei suoi odi di borgata fiorentina l’antenato Cacciaguida, facendogli insultare la famiglia dell’Argenti: “oltracotata schiatta”, “picciola gente” E con questo si chiude la pagina più brutta della Commedia, quella che disegna i due viaggiatori come due antesignani dei bulli di periferia. Pazienza, come dicono quelli che hanno studiato: “Quandoque bonus dormitat Homerus”. Ma, su questo episodio dantesco, mi piace consegnare al lettore un’intrigante spiegazione che ricavo da Maria Soresina, “Mozart come Dante”. Egli – Dante – vuole vedere e riconoscere il male nel suo cuore, nella sua mente e, dove lo riconosce, lo affronta…contro Filippo Argenti si scaglia con una crudeltà che rasenta il sadismo non, come pensano i commentatori in quanto esponente dei Guelfi neri, bensì in quanto personificazione dei lati oscuri della sua anima: l’ira e l’orgoglio. “I’ ti conosco”. Certo che lo conosce, sono i suoi peccati.  Non so se sia così ma, se lo è, benvenuto Dante tra di noi!

Questa lunga premessa per spiegare perché dai sedici anni in avanti ho subito l’attrazione dell’ira e dell’accidia. O per giustificarmi dall’averle frequentate con una certa assiduità. Perché, in fondo, l’educazione inconsapevolmente cattolica mi ha fornito il senso del peccato per cui prima lo scelgo e lo pratico e poi mi aggrappo alla storia, alla filosofia, alla letteratura per giustificarmi.

Intanto il fedele Niccolò Tommaseo mi spiega che il peccato d’ira attiene agli iracondi e non agli irosi: “irascibile chi facilmente si adira ed è affine a iracondo ma l’irascibile, che si sente per temperamento portato all’ira, può vincersi; l’iracondo lascia le redini alla passione e, collo sfogarla, l’infiamma. Iracondo insomma denota l’abito vizioso; irato l’atto. Iddio non è iracondo ma può dirsi irato, sebbene sia meglio non lo chiamare così. L’uomo iracondo non può, né anche volendo, essere sempre irato; iracondo rimane anche quando dorme”.
Mentre l’accidia (etimologicamente α-χηδος = senza preoccupazione, cura) “numerata tra i vizi capitali è mancanza di quella cura che al bene dobbiamo; mancanza a cui segue, per necessità, certa cupa tristezza e tiepidezza noiosa che rende l’uomo men atto all’adempimento pur dei sociali doveri. Cassiano: Acedia est taedium et anxietas cordis “.

E così eccomi ingabbiato e travolto da iracondo, iroso, irato e da accidioso, pigro, malinconico, torpido. Spesso è più facile praticare peccati e vizi che definirli. E allora prima provo a cercare qualche precedente illustre ma poi cercherò di nobilitare, se possibile, la mia ira e la mia accidia.

Se parto dagli inizi e penso a Dio che scaccia Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre mi chiedo se fosse irato, iroso o iracondo. Propenderei per il primo ma gli concederei l’attenuante della grave provocazione. Opera, casualmente, di Eva.  Vero che, nella nota vicenda, Adamo parrebbe, a sua volta, colpevole di accidia, beato boccalone tra le lusinghe di sesso e frutta fresca. Ma cherchez la femme pare la chiosa giusta.

Salto la Bibbia, che pure ci offre un panorama di irosi, irati ed iracondi di tutto rispetto, per trasferirmi nel cortile del Tempio, dove un adirato Gesù – secondo il dottissimo amico Paolo Lamberti spalleggiato da seguaci altrettanto adirati – caccia mercanti e banchieri rovesciando i loro tavoli e, sempre citando Lamberti, creando le premesse per la propria condanna. Ma i Vangeli ci consegnano altre raffigurazioni di un Gesù non proprio iracondo ma certo abbastanza incline all’ira. Un carattere difficile ma è pur vero – citando Montanelli ma la maternità, forse, è di Anna Magnani – un carattere o è brutto o non è un carattere.

Caratteraccio anche quello di Achille che prima si arrabbia con Agamennone, poi si ritira nella tenda dove impigrisce – in preda ad una certa accidia? – salvo ricadere nel grembo dell’ “ira funesta” quando gli uccidono il diletto Patroclo.

E, cercando un’ira meno famosa, è stato divertente trovare quella del Giovin Signore del “Giorno” di Parini, quando si manifesta contro il povero parrucchiere: chè il tuo Signor vedresti ergers’in piedi/e versando per gli occhi ira e dispetto/mille strazi imprecarti; e scender fino/ad usurpar le infami voci al vulgo/per farti onta maggiore; e di bastone/ il tergo minacciarti; e violento/rovesciare ogni cosa, al suol spargendo/rotti cristalli e calamistri e vasi/e pettini ad un tempo  che se la vede brutta ma, per sua fortuna quasi foco di paglia è il foco d’ira/in nobil cor  e il povero parrucchiere la scamperà e, forse, sarà persino pagato. Mi sarebbe piaciuto attribuire al Giovin Signore anche la colpa di accidia ma, onestamente, la figura che emerge al suo risveglio, dopo sera e notte di bagordi, qual istrice pungente, irti i capegli, mi sembra più preda di subito torpore da stravizi che da nobile e scelta accidia.

E dolce è l’ira in aspettar vendetta: bello questo verso – Tasso, “Gerusalemme liberata” – che evidenzia la dolcezza dell’ira – un ossimoro? – di Armida che, dopo i piaceri del corpo, assapora il piacere dell’anima che aspetta di vendicarsi dell’inconsapevole Rinaldo. Seduttrice, sedotta, abbandonata, irata e vindice. Che più?

Ire nobilissime e giuste e accidie altrettanto nobili: l’ira di Carducci nell’Inno a Satana e l’accidia di D’Annunzio vecchio che, dal Vittoriale, in una lettera: da sei giorni non vedo nessuno e sono nauseato della gran quantità di vettovaglie che mi giungono da ogni parte e che si accumulano in guisa di grassi fiori intorno al feretro di non so qual Gargantuasso. Perdonami il lungo e ingiustificato silenzio. E’ vano spiegare i miei enigmi senili senza sfingi.

Basta! La mia ira e la mia accidia mi sembrano, adesso, modeste manifestazioni di un ego ipertrofico che ha tentato di assomigliare ai grandi. Ricordo – e perdono – la mia ira quando, per la prima volta, ho ascoltato la confessione della mia fanciulla che mi ha confessato il tradimento. E ricordo che, la sera dello stesso giorno sono sceso sulla riva del Gesso ed ho gettato nel fiume (sono passati più di cinquant’anni e il reato è prescritto) tutto quello che mi aveva regalato nel nostro passato. E mi sono seduto sulla riva del fiume senza nessuna voglia, senza pensieri, senza odio, con qualche autocompatimento, preda di una avvolgente, mielosa, rassicurante accidia. O quante volte le ingiustizie, le violenze, le pugnalate, i tradimenti di barbari assassini contro bambini, donne, animali, barboni, deboli mi hanno fatto scattare indignazione, odio, ira e voglia di fargliela pagare. Senza sentire alcuna contraddizione tra giustizia e vendetta. E quante volte mi è successo, in montagna, su una spiaggia, in un bosco di sdraiarmi e di lasciarmi aggredire da torpore, voglia di fare niente, malinconia e forse anche voglia di morte. Ma se accadeva che la coppietta in cerca di un discreto scoglio, o una banda di chiassosi alpinisti o un più discreto ma calpestante foglie cercatore di funghi interrompessero il mio spleen sentivo una legittima rabbia salirmi dentro e, dimentico della regola che in quei posti si saluta e si fraternizza, li avrei presi a pietrate. Perché ira e accidia richiedono scenari diversi: l’ira ha necessità della vittima, di quello sul quale sfogarla, mentre l’accidia postula solitudine, silenzio, raccoglimento, autococcola e compatimento di se medesimo. E, in effetti, se provo a ripercorrere la mia vita in retro mi accorgo di aver molto frequentato l’ira da giovane: mi arrabbiavo spesso, in automobile, allo stadio, a scuola, nello sport. Riuscivo sempre a trovare un avversario da trasformare in nemico, odiarlo e dar mano libera all’ira che lo investiva. Oggi, da vecchio, non è più così. Non frequento più l’ira mentre indulgo molto all’accidia: ore passate a poltrire e a guardarmi intorno mentre mi passano per la mente immagini un po’ sfuocate di persone e situazioni e se vedo momenti in cui sono stato preda di ira ne sorrido, stancamente, e mi dico che non ne valeva la pena. Ed ecco che mi pare di vedere una soluzione. E se, dico se, fosse che l’accidia è figlia d’ira? Se non fosse che un inevitabile percorso, per cui da giovani pensiamo di cambiare il mondo e, se ci scontriamo con chi non vorrebbe, ci adiriamo, reagiamo, attacchiamo e, di solito, siamo sconfitti? Prendi schiaffi oggi, prendili domani, con l’età arriva, anche se non vuoi, la saggezza. Ti rendi conto che è inutile, che non c’è niente da fare, che il mondo non ha avuto e non avrà bisogno di te. Folgorato dalla scoperta, con l’ego ammaccato e dolente ti ritiri nei tuoi appartamenti e cominci a pensare che non è male che gli altri si fottano, che non è brutto mangiare quando hai fame e dormire quando hai sonno e che è addirittura gratificante avere una cosa da fare ma decidere di farla domani.

Ho cercato a lungo un modo intelligente ed originale per concludere queste note, ma più cerco e più mi chiedo se ne valga la pena: perché è bello pensare che potrei anche scrivere che… oppure che…ma mi piacerebbe di più… vado, torno, mi fermo, mi sdraio, chiudo gli occhi e il naufragar m’è dolce in questo mare. Chiudo con una confessione: sono felicissimo di aver praticato l’ira come nobile e giusta indignazione fin quando ho potuto, ma ancora più felice della mia quotidiana dose di accidia.

Es bueno no acer nada y luego descansar .