Ornitorinco in cinque passi

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LORENZO BARBERIS
“Ornitorinco in cinque passi” (2016) di Lorenzo Mari, recentemente uscito per le Edizioni Prufrock, è un libro di poesia che si presenta innanzitutto con una copertina particolarmente azzeccata. Protagonista si dichiara subito l’Ornitorinco, che ci verrà spiegato in cinque passi: e l’immagine al centro di un fondo dorato, quasi bizantino, è appunto un Ornitorinco fantastico ma non meno verace.

Il corpo è di papera, infatti, ma la testa di coniglio, richiamando una nota illusione ottica dalle molteplici declinazioni. Variazione interessante, poiché nella realtà, come noto, l’ornitorinco è in verità un mammifero con il becco, e non l’opposto, inesistente, uccello con la testa conigliesca.

Soluzione grafica brillante, e anche significativa: perché la poesia di Mari si gioca anche di antinomie volutamente ambigue, come già nella precedente “Nel debito di affiliazione”, che nella cover riportava un mistico monaco, levitante però con arti fasulle.

L’antinomia appare evocata di nuovo nella citazione in esergo, il debito a Fortini già pagato nell’opera precedente, dove il richiamo a “L’ordine e il disordine” è significativo in riferimento a questo ornitorinco “animale extraterrestre” (e però nei fatti esistente come “terrestre”) che viene omaggiato dai seguenti versi di  Argüez, in spagnolo.

Lo stimolo del gioco visuale  fa leggere “Ornitorinco I” nel segno del noto Indovinello Veronese, dove il seme nero lasciato su campi bianchi (innevati?) è la scrittura. Come già nell’opera precedente, l’autore alterna testi poetici e testi in prosa (altro dualismo, altra natura ibrida), e – tratto che mi sembra innovativo di quest’opera – suggerisce lui stesso delle possibili varianti nelle poesie a stampa, come in “In ordine inverso” (titolo significativo).

La riflessione sulla scrittura torna più palese in “Tra le grate”, “Nero su bianco” e in rime sparse in altre liriche; torna anche nella scelta di una parola poetica particolarmente cesellata, che alterna termini della lingua comune a parole rare, precise, con scelta non “preziosa” ma con intento riuscito di esattezza poetica, anche se spesso necessariamente oscura (“ermetica”, ma con un lieve scarto da questa grande tradizione).

Una riflessione poetica, questa di Mari, non lontanissima nemmeno da quella filosofica e semiologica di Umberto Eco nel suo Kant e l’Ornitorinco, in cui l’ambiguità dell’animale diviene occasione per una riflessione sui problemi dell’interpretazione del reale, tema centrale nell’autore. Su questo bel blog, qui precisamente, è riportato il passo che spiega il titolo echiano.

La scansione dell’opera è data dalle varie evocazioni dell’Ornitorinco, naturalmente, ed ecco allora che il secondo passo conferma tale riflessione, con la richiesta all’animale-guida di “svitarsi”, di scindersi nelle sue due parti, di risolvere la fastidiosa contraddizione di illusione ottica, di inganno mentale. L’opposizione “papera-coniglio” è qui chiarita come (anche) opposizione “immagine-parola”; un tema (ut pictura poesis, l’incontro scontro tra arte visuale e arte testuale) dalle radici antiche e dalle molte sopravvivenze moderne (è l’ossimoro che domina, ad esempio, l’arte del fumetto, di cui sono particolarmente appassionato).

In Mari appare, soprattutto, paradosso interno alla poesia, contraddizione tra l’aspetto fonico della parola poetica, la sua sonorità, e l’aspetto visivo, grafico, della poesia in quanto parola scritta prima che detta. Una transizione iniziata in Italia, nella scuola siciliana (forse anche prima, secondo gli studi più recenti, sebbene in forma seminale e meno autorevole) dove la poesia diviene concettualmente scritta e da leggere e non concettualmente orale – anche quando trascritta magari per finalità pragmatiche – e da recitare, se non da cantare e suonare.

Aspetto visuale che, specie nel Novecento, diviene centrale, con l’illusionismo ottico del futurismo marinettiano e poi con lo stacco di una parola poetica pura, isolata ungarettiana (che, stante il Flora ed altri, è comunque sottilmente visto da alcuni come un nuovo, più discreto e astuto, illusionismo).

Mari usa con discrezione tali stilemi grafici, ormai divenuti linguaggio poetico piano e non più citazione, ma li usa: naturalmente più quelli di matrice diremmo ungarettiana che quelli marinettiani.

Poter definire Mari un Marinetti sintetico sarebbe, di nuovo, un ben gioco di parole: però sbagliato. Magari, accentuando ancor più la digressione, trovarvi un asciugato gusto barocco, potremmo creare una paradossale triade poetica Mari / Marinetti / Marino.

Ornitorinco III segna una nuova tappa, e sembra andare oltre ancora, parlando di un segno impossibile, e riflettendo qui più pienamente sul dualismo della sua natura anfibia, che torna alle acque da cui è emerso lasciando segni contradditori, di entrata e uscita, col piede palmato. Il doppio segno giunge a una sintesi che non è “né cadavere, né nuova orma”: non quindi un totale fallimento della poesis (in senso più ampio che la stretta produzione lirica), ma nemmeno una nuova efficace sintesi del dire.

Ornitorinco IV coincide con una breve prosa, come altre presenti nel testo, dal segno piuttosto pessimistico, dove l’Ornitorinco poetico si pone nella sua indecifrabilità, nella sua incomunicabilità col mondo.

“Con la cognizione del capitale, l’ornitorinco ha visto il male di guerra, dei lavori sparsi, degli archi a tutto sesto. Ma gli archi a tutto sesto, i lavori sparsi, il male di guerra non hanno visto con la cognizione del capitale, e poco altro, quel che restava dell’ornitorinco, scambiando, per questo motivo, coniglio e papera, nome e nome, classe e classe. Poi hanno preso la massa, vista informe, le hanno dato nome di cultura, conferito uno stigma, si sono assicurati di gettare al fondo, sempre al fondo, ogni chiave. Si continua nella cura, in ogni circostanza, emanando la norma, si porta a compimento, senza uno sguardo, la distruzione di ogni ingiunzione di ogni atto di ogni pronome personale.”

Ornitorinco V, infine, di nuovo in forma di poesia, chiude con un segno dall’apparenza positiva, nel suo essere farmakon greco, “veleno e farmaco”:

Un messaggio,

innanzitutto, preso nel becco, ovvero

infitto nelle orecchie, che svelto  procede tra le granaglie e ripete: sì                                        

                                                                                         che se ne esce.

E – a parte un testo poetico in corsivo, che come altri nel corpo del testo pare avere una funzione a suo modo di “testo di raccordo” – l’opera si conclude con questa nota di disperata fiducia.

nessuna maledizione possibile 

e allora – fummo, foste, furono –

presi a cantare, per non analizzare, 

per non distinguere, senza sintesi:

presi a cantare in un’altra lingua, 

lasciando ogni spazio irrinnovabile

                                            ogni fulcro.