Mostre diffuse: progetto “grandArte” 2016/2017

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FULVIA GIACOSA.

Il progetto “grandArte” ha avuto inizio nel 2013 ad opera di due soggetti promotori: l’associazione culturale “grandArte” e quella di volontariato “Amici Case del Cuore onlus” che fa capo alla cooperativa Momo di Cuneo, con la finalità di raccogliere fondi a favore di nuove “case del cuore”, centri di sostegno sociale, educativo e psicologico per nuclei familiari in situazione di disagio.

La presente edizione, che porta il titolo interrogativo “Identità perdute?”, ha un volto nuovo: non una sola mostra ma una sequenza di quindici esposizioni sul territorio della provincia in luoghi e tempi diversi che coprono quasi un intero anno: dalla prima, in San Francesco a Cuneo, inaugurata venerdì 16 dicembre, all’ultima che aprirà in Palazzo Samone nuovamente nel capoluogo a ottobre 2017: il che costituisce anche l’occasione per conoscere realtà culturali associative di cui a volte il pubblico ignora l’esistenza. Il progetto intende non solo presentare il variegato panorama dell’arte che nasce in loco con ben 85 artisti in totale, ma diventare anche occasione di scambio tra artisti appartenenti a diverse generazioni – con una attenzione ai più giovani – e di dibattito sull’eco che le questioni socio-culturali attuali hanno nelle più varie forme espressive.

Rimandiamo a comunicazioni future il rendiconto delle mostre successive a questa inaugurale, ricordando che il programma completo degli eventi targati “grandArte” è reperibile nella sede espositiva di San Francesco e sul sito www.grandarte.it/

La prima mostra, aperta in San Francesco il 16 dicembre e visitabile fino al 23 aprile del prossimo anno è curata da Marco Meneguzzo ed ha per titolo “Le spine della complessità. Arte e artisti tra globale e locale”. Ideata e coordinata da Giacomo Doglio e Massimiliano Cavallo, essa merita innanzi tutto un plauso per l’allestimento, non certo facile quando lo spazio, come in questo caso, è una prestigiosa ed ampia chiesa gotica a tre navi, splendida nel restauro promosso e finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, che è anche uno degli sponsor dell’intero progetto; l’equilibrio che essi hanno saputo preservare tra l’ambiente storico e le opere può dirsi perfetto e i visitatori lo colgono al volo.

Vengono presentati lavori di Valerio Berruti, Nicola Bolla, Ugo Giletta, Fabio Viale, artisti la cui notorietà ha ormai valicato l’ambito nazionale ma che sono accomunati dalla scelta di operare nella loro terra d’origine, periferica ma certo meno assordante, cosa che ha consentito loro di sperimentare e lasciar lievitare con la giusta lentezza il linguaggio personale senza gli assilli del mondo globalizzato. Pur essendo autori dalle soluzioni tecniche e formali diversissime, direi che il fil rouge delle rispettive ricerche risiede in una riflessione sull’ambiguità tra vero/falso, apparente/reale, rassicurante/perturbante.

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Valerio Berruti, albese di nascita, lavora a Verduno in una chiesa settecentesca sconsacrata che ha restaurato e trasformato in studio.
I protagonisti della sua arte sono bambini: disegni a puro contorno con alcune interruzioni lineari che ne palesano la fragilità (“Ogignen. C’è troppa luce per non credere nella luce”, 2011, otto arazzi e una videoanimazione ); una sequenza di busti in cemento armato con collettini celesti affrescati, i volti che guardano a terra tra rassegnazione e malinconia (“Schoolchindren”, 2008); un fanciullo di grandi dimensioni “Fino a toccare il cielo” (2015, fusione in alluminio); una piccola figura in cemento, esserino sperduto ma tenacemente aggrappato alla distesa di sabbia del suo Sudafrica (“Udaka”, 2011). Dietro ad ogni immagine ci sono storie vere di terre vicine o lontane, spesso di innocenza calpestata e tradita, ma le opere sono di per sé toccanti anche quando non se ne conosce la genesi.
Ai bambini, custodi della nostra memoria, l’arte di Berruti ci fa tornare con l’auspicio che “tutto possa ancora avvenire”. Se per Pascoli il fanciullo era metafora della poesia, per Berruti è la musica a identificarsi nelle immagini adolescenziali, dal momento sorgivo della loro ideazione a quello finale della presentazione.

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Nicola Bolla è saluzzese e figlio d’arte. Considera le proprie realizzazioni oggetti da wunderkammer e, non avendoli “trovati” come spesso avveniva per le raccolte dei principi cinquecenteschi (Rodolfo II di Praga, tanto per fare un esempio), ha deciso di costruirseli. L’apparente ordinarietà e naturalità dei soggetti – prevalentemente animali e parti anatomiche – scompare nell’artificio dei materiali: se gli i Swarovski sono inganno ulteriore nell’ imitare le pietre preziose (“Vanitas, Ossuary, 2006-2007, con le forme brillanti che paiono uscite da uno scavo archeologico o da una antica sepoltura, posate come sono su un cerchio di terra nera), le carte da gioco compiono un processo inverso, diventando preziose squame, penne, ali angeliche che fanno concorrenza a quelle dugentesche del Cavallini. Un gusto che potremmo definire barocco per l’importanza della praxis, che qui basta veramente a caratterizzare l’artista, inventore di una tecnica produttiva di immagini in grado di fenomenizzare il pensiero. L’arte, come poetica della meraviglia, è strumento malizioso che riflette questioni ben più profonde, a partire dall’effimero in cui siamo immersi fino alla caducità delle cose come dei valori e in ultimo dell’esistenza stessa.

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Ugo Giletta non solo vive ma trae motivi dal luogo d’origine, San Firmino vicino a Revello. Notissimi sono i suoi “Volti”, tutto il contrario del ritratto fisicamente somigliante; svuotati d’ogni individualità per poter essere non uno ma infiniti volti, parvenze dilavate che, affiorando e insieme ritraendosi, traggono forza comunicativa proprio dall’indeterminatezza e dal silenzio. La disposizione paratattica dei 12 “volti” in mostra amplifica il tema del nulla di cui siam fatti. In una cappella laterale di San Francesco stanno tre figurine in filo d’acciaio infilzate su sottili aste, rivestite di pelli sfilacciate che paiono provenire da un ancestrale mondo di racconti popolari: le testine in gesso sono non così dissimili dai volti ad acquerello, altrettanto fragili e provvisorie, solo appena più lievi e gentili (”Senza titolo”, 2004).
“Due ragazze sedute a fianco di una cascata” (2012) è solo apparentemente un racconto; ricusata l’unità aristotelica di tempo e luogo si compone dell’incastro di tre video: uno registra in accelerazione temporale lo sfondo della natura, gli altri, realizzati in studio separatamente e con tempi diversamente rallentati, mostrano due figure femminili che si sovrappongono al primo: un “assemblaggio”, una interrelazione artificiale o narrazione plurima che produce una condivisione empatica quanto mai univoca e “filosofica” per quei piccoli scarti logici che invitano a meditare sul nostro vedere.

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Fabio Viale utilizza la personale e rara abilità di lavorazione del marmo per produrre veri inganni visivi: quella materia dura, con cui Michelangelo lottava per sublimarla in forma classica, qui si flette, morbida all’apparenza, si increspa al punto da apparire fragile carta (“Arrivederci e grazie”, 2016). E quando, invece, ricorre a icone del passato (“Venere” e “Kouros”, 2016) ecco che ancora una volta l’artista gioca d’inganno visivo: figure divine e torsi greco-romani si coprono di pigmenti in un dedalo di simbologie, alcune prese da tatuaggi in voga nel mondo della criminalità, che tolgono aura al mito dell’antica purezza statuaria, per sottolineare l’aggressività malavitosa dell’oggi.  La “Madonna”, 2014, collocata in una cappella, è  figura dalla forma perfetta nella sua tradizionale attenzione ai panneggi, realizzata in marmo bianco a imitazione di ben meno nobile materiale: un lavoro certosino ce la fa percepire come se fosse una aggregazione di leggerissime palline in polistirolo,  materiale che nella vita quotidiana serve a imballare – e preservare-  oggetti, mentre qui preservano una forma dell’arte nello stesso istante in cui la de-sacralizzano, puntando il dito su un’intera società orfana di sacro.

La mostra si può visitare dal martedì alla domenica con orario 15,30-18,30. Ingresso libero.