La poesia ristabilisce legami. Béatrice Bonhomme

uccelli - inverno (2)

Passaggio del passerotto

Il passerotto è un uccellino di passaggio, un piccolo alato della specie di quelli che passano e attraversano, affusolati, la vita fugace.

Il passerotto è effimero, egli è passo di fiore, passiflora, appassionato come l’anemone che vibra nel vento popolato di faville.

Di uccello effimero i suoi polmoni, i suoi bronchioli si ramificano nel tessuto polmonare, lo attraversano e si prolungano attraverso dei sacchi aerei che sono intessuti di oro e di sogni nel fiato delle nuvole.

Il passerotto tende il respiro nel flauto del suo canto come messaggio di un cielo così vicino e come volo del passaggio.

Tra le cose volatili, materia volatile evaporata nella fibra del mondo egli vola nell’oscurità della notte come nella luminosità del giorno.

Egli taglia nelle ali e nell’aria fino a trovare la forma giusta di un anniversario di foglie.

Egli è il soffio della notte che urta la parete dei fiori.

Egli gira tutt’intorno alla tavola dei morti, e in veglia funebre , s’intarsia nella vetrata.

Il suo occhio di vetro rosso dona iridescenze al colore.

Sulla neve non resta che l’esile impronta della sottile zampa del passerotto posatasi sul fiorame delle tombe.

Egli passa, uccello effimero, come la precarietà dell’amore.

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Per me, il passerotto è blu, ma non so mai bene il suo colore. Egli è blu come l’uccello dell’infanzia e soffre le pene d’amore.

Per me, il passerotto è rosso, ma non so mai bene il suo colore, insanguinato delle stimmate della pioggia, attraversa le lacrime.

Per me il passerotto è grigio, poiché io conosco bene il suo colore. Egli passa scivolando leggero con le ali tese, discreto, attraversa la vita fugace.

E tra le piante aromatiche, la mirra di una strana culla, passa e rinasce, passerotto, uccello di cenere e di luce.

(Traduzione di Enzina Sirianni)

Estratto da Passaggio della luce (Editions de l’Arrière-Pays, 2008)

beatr bonho

Come è giunta alla poesia e quando?
La poesia per me è concreta. La parola è fisica, materiale. È in diretta relazione con il corpo. Il mio rapporto con la scrittura, con la creazione passa per il corpo attraverso la lettura. Io ho ricevuto contemporaneamente il mondo e le parole. Ho imparato a leggere nella natura attraverso il corpo di mia madre. Io penso che la scrittura mi transiti per il rapporto per mezzo del corpo materno e della madre reale. Colei che mi ha insegnato a leggere in mezzo alla natura, colei che ha fatto sì che le parole fossero concrete, piene, colei che ha fatto sì che le parole fossero di materia corporale, elementare, che facessero parte del mondo. Le parole per me, da bambina, sono state il modo per toccare il mondo. Tra le parole e gli oggetti, gli esseri del mondo. Non c’erano distanze, spazi. Io ho imparato a leggere in mezzo alle erbe della collina nizzarda e quando sono riuscita a decifrare la prima parola del libro, ho creduto di possedere il mattino pieno di luce, le erbe rosseggianti sulla collina, il calore sonoro dei grilli, ed è stato come se io possedessi il mondo che si era venuto a posare sulla pagina del libro. Questo perché, sempre, le parole hanno avuto per me come una materia vitale. Mentre leggevo, le parole prendevano colore e luce. Me ne sono ritornata allora verso quelle parole dell’inizio che mi avevano fatto innamorare. Il filo d’innesco della lettura, la prima esperienza, è stata quella di apprendere a leggere sulle colline di Nizza, tra le erbe riarse dal sole, in un roseto di fiori selvatici e rose, forse rosaspine, di cui sentivo il profumo accanto a me.
Dopo questo apprendistato molto fisico, concreto della lettura, molto presto nella mia vita, io ho avuto un forte desiderio di scrivere il meglio possibile, il meglio di cui fossi capace. La scrittura, era il mio essere al mondo, la mia maniera di esistere in esso, e di essere me stessa in rapporto, in comunicazione , in scambio, in relazione con gli altri. Non avevo nessun altro mezzo ed è questo che ho scelto per essere in collegamento con il mondo e gli altri.
A cinque anni, mi misi a scrivere con ostinazione un piccolo giornale; più tardi ho voluto scrivere un romanzo che raccontava la storia di una famiglia. Non lo avevo mai fatto. Mia madre mi dava tutti i giorni una riproduzione di un’opera su carta postale e mi chiedeva di stendere un piccolo commento. Era il mio lavoro giornaliero. L’unico in effetti. Non sono andata a scuola fino a dieci anni.
Consideravo le parole viventi allo stesso modo dei quadri e della musica . Ed è per questo che per me la poesia è fisica, legata al corpo, al respiro, alla respirazione, esattamente come la calligrafia o la pittura. Ho pubblicato il mio primo testo in una rivista, nel 1986.

Come definirebbe la poesia?
Ho scelto la scrittura poetica perché ritengo che la poesia sia la forma più vicina al pensiero impersonale e anonimo, indirizzata all’alterità. Ciò che è condivisibile in poesia, paradossalmente è quanto ci sia di più intimo. La nostra emozione originale, esclusiva, diviene comune attraverso le parole della poesia. Come se il più incomunicabile divenisse il più comune e viceversa.
Legata alla mia storia personale, alla mia più profonda interiorità, la poesia, pur essendo una traversata impersonale, può essere così condivisa da tutti. Invece di rinchiuderci nella sfera del sentimento personale, il lirismo ci proietta verso l’altro. Come dice bene Philippe Beck :« Il momento in cui il mio io si esprime è un momento impersonale [....] il momento in cui l’amore si esprime in modo intenso, serrato, completo, è un momento impersonale, di un’impersonalità paradossale».
Quando scrivo in poesia, io tratto di archetipi come quelli di un corpo sofferente, o del bene dell’amore, di una casa abbandonata, di un lutto. Sono cose condivisibili da tutti. Nella poesia, secondo me, non c’è più lo svolgimento narrativo, piuttosto un’intensità lirica impersonale in cui l’io e il tu restano anonimi, là dove il tu è la voce dell’opera poetica, l’altra è per se stessa, per tutti, per chiunque. Tocchiamo qui il paradosso per cui il più incomunicabile sia altresì il più comune e viceversa.
La poesia per me è un momento condivisibile proprio perché è impersonale.
Per concludere, la poesia mi sembra capace di trasmettere dei comportamenti, un’etica, una filosofia, umane ritualità, delle relazioni tra gli elementi che guardano a tutta la loro importanza. Essa permette, credo, di ristabilire legami, il legame con l’altro, con il mondo.

(Traduzione di Enzina Sirianni)

Passero

Béatrice Bonhomme-Villani nasce nel 1956 ad Algeri. Figlia del pittore Mario Villani (1916-2006), cresce tra paesaggi mediterranei e la bella campagna del Berry, vivendo in un’ atmosfera artistica di musica e pittura ed apprendendo dalla madre, narratrice, il gusto dello scrivere. Studia a Nizza, al Liceo Masséna. Nel 1994 crea con Hervé Bosio la rivista di poesia NU(e) (NUDO-A), nel 2004 dà vita, con Jean-Yves Masson, alla Società dei lettori di Pierre Jean Jouve, che pubblica dei Quaderni presso le Edizioni Calliopées.
Si devono a lei diverse raccolte di poesie e diversi saggi critici, specialmente su Pierre Jean Jouve, Jean Giono, Salah Stétiée sulla poesia contemporanea.
Professoressa associata di Lettere moderne, insegna dal 1990 letteratura francese, prima all’Università di Aix-en-Provence, poi all’Università di Nizza. Nel 2003 crea, in seno al CTEL (Centro Transdisciplinare di Epistemologia della Letteratura e delle Arti vive dell’Università di Nizza-SophiaAntipolis), un “asse” di ricerca dedicato alla poesia: POIEMA.
(Biografia a cura di Franco Blandino)

Disegni di Franco Blandino

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