La serva del detto ostrogoto

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Stampa popolare d’epoca

CLAUDIA AZZOLA

I canali liberati dalla fanghiglia, del Ticinese, i barconi da carico, e da lì, le case da ringhiera, la successione dei cortili, attraverso la piena larghezza del caseggiato, fino all’altro naviglio: fu da uno di questi cortili, dal pavé lavato dalla lucida pioggia, che uscì una donna spettrale che aveva nelle mani un cartiglio con una scritta fantasmatica, da traslitterare da una grafia indecifrabile, da un oscuro alfabeto. Era una donna brutta, quasi ripugnante, che però aveva qualcosa da comunicare, e con certa imperiosa premura, che metteva in subbuglio l’animo della povera serva Filomena: lei, sensibile, catturata dai suoni delle lingue e dei dialetti che si impastano nella voce, e affamata di scrittura, dei segni sulla carta, e talmente ricca di perizia nella narrazione fiabesca, leggendaria, da fermare, narrando, la rotazione del mondo.

Era nata con queste prerogative, in una cascina del milanese, nel territorio della roggia Regina alla biforcazione con la roggia Mora, fra campi arati, dove le voci dei campagnoli, subitaneamente emesse e rimandate, erano voci dure, di taglio, poco articolate, onomatopeiche, di pura trasmissione di comandi e bisogni.

Destino di Filomena crescere con una voce interna, sottile loquela, sequela di grandi gesta, che trasfondeva nella narrazione delle favole. Come la Fenice, la favola maturava in lei da tempi antichissimi, scorreva nelle sue vene, smoriva e risorgeva con energia, andava a colmare un vuoto nella coscienza degli uditori, siano stati essi bambini o astuti adulti.

Ella si era svegliata la stessa mattina di quel giorno, all’alba, come aveva sempre fatto, da quando era una tosètta, e aveva percepito diffusa nelle membra la penetrante stanchezza, come se la notte non avesse confortato il riposo. Aveva saputo subito di essere ammalata. La sua malattia era lo sfinimento, anche inutile, non sapeva come spiegare questa mancanza di energie se non come inutile. Una cosa da signori, che non devono faticare. Si palpava i fianchi, le gambe, si massaggiava i piedi gonfi dopo avere sfilato gli zoccoli, o le scarpe di pelle morbida che le aveva dato la padrona, un avanzo del proprio guardaroba. Le doleva la testa, alla serva, e la teneva nelle mani, di sera, perché durante il giorno le mani le teneva tutto il tempo occupate, bagnate, gonfie e indurite per callosità, in movimenti da utensili, come fossero tenaglie. Non erano più fatte per accarezzare, per ricamare, o per prendere su oggetti piccoli, un ago, infilare un ago, infilare le perle della collana, persino usare un cucchiaino e, gesto di tempi remoti, voglia magari disperata, prendere un rougee pitturarsi un po’ le guance, rimirandosi nello specchio.

Sebbene non ancora vecchia, Filomena si ritrovava consunta, con le mani che quando le usava, doveva ormai voltare la testa, o abbassare gli occhi, per l’imbarazzo che provava di se stessa. Le mani di Amelia, la cameriera personale della contessa, erano bianche, sottili, due lunghe margherite che si aprivano e sbocciavano. Amelia tirava il pettine a scorrere tra i lunghi capelli di sua signoria, al mattino, li preparava per la notte, al crepuscolo e, se la padrona aveva da uscire o da ricevere, glieli spazzolava da capo, aggiungeva qualche perla, un tocco di cipria, una piuma rosata, un ornamento. A volte, con un pettinino piccolo azzurro, grattava la cute chiara spostando i capelli, aprendoli a sprazzi, poi rinchiudendoli dopo avere passato una pezzuola intrisa di acqua di colonia. L’operazione prendeva un’ora, un’ora e mezza, non proprio tutti i giorni, un giorno sì uno no. Mani che risaltavano agli occhi di Filomena staccate e bianche, non rette dalle braccia come i fiori dagli steli, ma moventi per vita propria, sospese e vive attorno, come nella fiaba dove l’eroina, in una notte solitaria al castello, è servita da mani che le versano il vino, le porgono i piatti, le sfilano le scarpine, la accompagnano in stanza per dormire.

Mani svolanti, morbide e al contempo precise, che non si perdono in movimenti insensati.

E dov’è il castellano? Chi comanda alle mani espressive di agire da sole, su un fondale nero, come nel teatro nero di Praga di cui aveva visto le illustrazioni in un libro della Boemia magica? È il signore del castello che si nasconde per non mostrare il proprio aspetto bestiale, frutto di un incantesimo?

Mentre Filomena si abbatteva ogni giorno di più, senza spavento, però, tuttavia con tenace nostalgia della propria giovane fioritura, conscia della chiusa vita che le spettava, Amelia toccava e sentiva i vestiti, i fili di perle, prendeva i bracciali, li soppesava, riponeva quelli che non erano stati scelti per la giornata, assisteva la signora al trucco, ascoltava i suoi discorsi. Filomena udiva le esclamazioni di Amelia:

“Oh, signoria, davvero? Gli ha detto proprio così? E il signore che cosa ha detto?”

Una volta, la signora aveva pronunciato le parole: “un amore romantico”. Filomena ne era rimasta talmente turbata che in qualche sprazzo di umana pace nel daffare della giornata aveva sentito la puntura delle lacrime, e nella testa le era entrato un significato inusitato per lei. Ciò le aveva rafforzato la sensazione che v’erano molte cose di una preziosità irraggiungibile ma autentica, diffusa nel mondo, alla portata di altri, che altri capivano, contando su sensi più ricchi, su un sentire più raffinato, e che solo la sua rozzezza le precludeva una vita di bellezza e di godimento.

Ma forse dalla donna spettrale veniva un altro messaggio, in un alfabeto ostico, espresso anche dall’ammiccare del volto: la rozzezza non era insita in lei, nonostante la vita fanciulla spoglia ed elementare, ma per così dire le era stata calata addosso come un bronzo fuso, nella pochezza e nella chiusura della sua vita.

Ma quando nella cucina, nella sospensione della fatica, narrava una storia, il mondo si fermava fuori dal tempo e dallo spazio, o quando i signori le chiedevano il racconto, allora si apriva una scena viva, calda, in un punto sospeso nell’incombere del frastuono e del movimento. Sotto l’arte del racconto, si agitava nel cuore di Filomena l’indecifrabile della scritta vista nel quarto, quinto o sesto cortile, portatrice, ora, di suoni vocalici e consonantici, o altri suoni, ancora da provare. Erano suoni di una lingua dell’origine, del gravame della sua condizione.

Quei suoni non potevano che essere gutturali, cupi, blu scuro, se avessero avuto un colore, della profondità di un pozzo o di una gola. Suoni di un dialetto prelombardo, ostrogoto, dal sapore di orda che avanzava battente, scalpicciante, elmi e scudi e bocche aperte nell’urlo di battaglia, un unico urlo in terra. Non era la favella in cui narrava, narratrice naturale delle fiabe, delle favole sapienziali. Le veniva in bocca il detto del Gatto Lupesco, strofe che si mescolavano in lei dall’infanzia delle campagne, dove saltava alla corda, inseguiva una compagna gettandosi in spazi tra le rogge, nel formentone, dalle parti di Vigevano dove era nata sua madre. Una bambina, una parente di primo o di secondo grado, una volta, era cascata nel Naviglio Langosco…C’erano persone che cadevano nelle rogge, nei fossi.

*

C’erano momenti d’intimità in cui Amelia e la padrona ridevano di gusto insieme, Amelia premendosi il ventre con le due mani, la padrona solo storcendo un po’ la bocca di lato, un’espressione di bambina divertita con una pagliuzza di capriccio di ricca negli occhi, e i capelli sciolti, ancora da ravviare. Amelia la confidente. Amelia l’astro della casa. Amelia quasi una figlia, una di casa.

“Elle est comme une fille! Elle est si jeune!”

“Còn la mia tòsa parlèmm minga de politica!” aggiungeva la contessa ridendo e buttando indietro la testa, passando dal francese al dialetto con freschezza e usata franchezza.

“L’è dolza compagn d’on pan de mei! Compagn d’on pan d’angiol!”

“El mel, el zuccher, la regolizia in dolz!” si schermiva la ragazza, con faccia e gesti da bimba pudica.

*

Filomena la serva ingrigita dai lavori pesanti, che camminava a gambe allargate, come vanno quelli che hanno una grossezza da reggere, tutta sul ventre, peso della carne, delle gambe flebitiche, ma più di tutto, un peso del cuore, Filomena udiva ma spesso soltanto le capitava di assistere a un quadretto, da lontano, passando nel corridoio, passando…

*

La padrona non era una proterva donna, come altre padrone che venivano per casa, per sale e boudoirs, che trattavano i servi e i valletti peggio dei barboncini che venendo tra i piedi facevano inciampare. In fondo, la signora le voleva bene e, sotto la frivolezza nascondendo un cuore buono, intuiva il travaglio di una donna devastata non per mancanza o difetto propri, ma per le peripezie di una vita della quale conosceva qualche spezzone a volte, con pudore, gettato lì come di cosa di poco conto.

Filomena la narratrice, quella favola, del Gatto Lupesco, non l’aveva mai raccontata in tempi moderni, nella lingua italiana o nel francese che parlavano i figli dei signori, e sua signoria naturalmente, o nei dialetti lombardi, quella storia lei la raccontava in un idioma di suoni germanici, ma non sapeva spiegarsi di dove li avesse tratti, questi suoni. Ostrogoto, diceva la contessa, credendoci davvero. Era giusto che i signori, i loro amici, non volessero ascoltare una tale historia. Volevano ascoltare altre storie, come quella di Barbablu, che imprigionava le mogli nel palazzo e le scorticava vive, le buttava in un sotterraneo. Una sola delle mogli manteneva il filo con se stessa e si salvava salvando le altre.

Era una storia portata dalla Francia, portata come lo specchio che la serva aveva appeso nella cameretta, appiccicato insieme a due o tre quadretti, attraverso certi nobili scappati a Torino nel 1790 o 91, sull’onda della rivoluzione lontana, una specie di botto di cannone, con tante urla, di nuovo urla, che a lei incutevano terrore. La serva Filomena non recepiva nemmeno un tono più alto del basso continuo delle voci della normalità: sentiva una minaccia, le si seccava la bocca, le tumultuava il cuore come il fiore in boccio che affrontasse un immenso sforzo a sbocciare, e poi non ce la facesse, dovesse ripiegare su se stesso, rinchiudersi come un pugno, marcire, sfiorire.

Quello che non capiva, Filomena, era come dalla voce che esprimeva parole, e il pensiero che c’era dietro, si passasse sulla carta a vergare con inchiostro i suoni, addirittura le pause, poi c’erano dei segni: erano “la virgola”, “il punto”, il “punto interrogativo”, questo per lei fatto di stupore, un ricciolo sulla pagina, e quando leggevano non dicevano: “qui c’è punto interrogativo”, ma si sentiva che mutavano il tono, l’impostazione della voce. E anche i signori, alteri, distaccati, si presentavano in un modo di essere quasi umile, ponendo la domanda con quella voce ammorbidita, privata dall’abituale accento imperioso, una voce del colore dell’attesa.

Nei servi, nei valletti, il tono della supplica.

“Parla in milanès, o in italian, se te podet” le dicevano, ridendo, o a volte con facezia, simulando d’ essere scandalizzati, il signore e la signora.

La padrona, quando parlava in francese, assumeva una sfumatura gentilizia e preziosa che le donava più delle collane di perle bianche e di perle rosa, e perle di fiume, che uscivano dalle mani di Amelia come nella fiaba della sorella che emette perle e fiori dalla bocca. La sorella cattiva ha una tremenda punizione: di sputare spine e rospi. Filomena intuiva per dotazione linguistica naturale. Avrebbe parlato parecchie lingue, se solo avesse potuto vederle anche stampate nei libri. Per la pronuncia, le bastava udire e ripetere, anzi, era quasi in grado di rispondere con parole e frasi che aveva ascoltato in altra occasione, altra da quella ove erano buttate nell’aria, in quella o quell’altra circostanza. Ma era illetterata. Leggere era sillabare e mettere insieme faticosamente lettere e sillabe.

La contessa andava all’opera, andava alla Scala, dove manteneva un palco, con il conte, con le figlie, con le cugine, con coppie amiche. Andava a teatro. Era appena stata a vedere “El nost Milan” di Bertolazzi. Per l’Aida, tutta la famiglia stravedeva, per Ghislanzoni, per il Maestro Verdi. Quanto alla Traviata, Mariarosa suonava al piano il pezzo “Libiamo ne’ lieti calici” e c’era sempre qualcuno che spremeva una lacrima.

Filomena avrebbe voluto dirle qualcosa, “Sciura, perché la parla no in frances?A mi me pias! Me piang i occ!”

Perché, Filomena, non dici: mi fa piacere?

Hai mai conosciuto il piacere, Filomena?

Ultimamente, Filomena soffriva di insonnia. Si buttava sul letto con il sonno che colmava gli occhi, ma dopo un’ora, due ore, era desta, gli occhi aperti, e tutta la notte davanti da consumare senza sogni.

Per entrare nel sonno in modo pieno, occorre avere un giusto impasto di placidità, di pelle liscia, del lasciarsi andare alla vita. Pareva alla servente di non possederlo, questo impasto, di essere, anzi, chiusa dentro una pelle grigia, inadeguata a contenere la mente e i suoi sfavillii, per dover piegarsi su un piano di esistenza basso, come passare dai piani alti, arredati con sfarzo, tende di raso e pareti di damasco, alle cantine, scendendo una scala impervia priva di corrimano, col rischio di cadere e spezzarsi in due. Pelle e membra si negavano alla clemenza del sonno.

Lo slancio vitale era quando raccontava la storia di Pelle d’asino: le si insinuava un vermetto sotto pelle, toccando il punto dove la fanciulla, finito il massacrante lavoro di sguattera, nella camerella, si sveste del bestiale camuffamento e indossa abiti cuciti di raggi di luna, del celeste colore dell’universo, si riconosce nella sua figura autentica di principessa e di futura sposa di un re.

Ed è vista, dal di fuori, da un giovane: è ammirata dallo sguardo dell’uomo nella bellezza di donna: questa fiaba era il suo incanto. Lei narrante assumeva toni profondi, colorandosi di sensualità che esce negli incontri intimi, come solo in un’età primaria della vita aveva provato, con l’uomo suo benvoluto: suo teatro minimo, il cui sipario si era chiuso in un giorno di primavera brillante nei canali.

Vedere senza essere visti, doveva essere il potere di quel giovane, che lei stessa assumeva quando narrava le storie, artefice della narrazione, che esisteva e scorreva di per sé, dal tempo più grande di lei, ma cui di volta in volta apportava minime correzioni, il suo apporto piccolo, la nuance nel colore della storia. Viso, capelli, mani e gesti, il ventre, i piedi delle ragazze: tutti frammenti del corpo che viveva una vita a sé, e non era capito.

Perché, del resto, nominare il corpo? La Madonna non aveva corpo: il corpo delle donne era nascosto, nemmeno le gambe e le braccia si potevano guardare. Solo le signore mostravano una splendente scollatura tagliata nell’abito di seta e pizzi. E le braccia nude, fin sopra il gomito erano fasciate negli alti guanti.

Un giorno Filomena aveva sentito parlare del “Detto d’amore” da un ospite abituale della Casa, Arrighi, “Cletto”, il signor Cletto. Quell’uomo le sembrava proprio uno per bene. Aveva scritto un libro importante, che gli aveva aperto le porte dei salotti più in vista. Aveva redatto il dizionario del dialetto milanese. Filomena non pensava fosse bizzarria scrivere un dizionario del dialetto: per lei lingua e dialetto erano due gemme della stessa miniera. La miniera era uno spazio magmatico da cui originavano voci del mito primordiale, non quello costruito e “vestito”, come nei quadroni alle pareti del palazzo padronale, ma energia naturale che non si spegne e trapassa la morte.

L’Arrighi aveva spiegato agli astanti (e ne vedeva ancora i volti curiosi, interessati) che “Il Detto d’amore” era attribuibile a Dante. Chi era Dante? Un uomo vissuto tanto tempo fa. Un poeta grande, passato per l’inferno e giunto per rupi, scale, e gironi pieni di dannati, al paradiso. Un poeta tremendo, che aveva contrastato l’autorità, che era stato per questo motivo anche imprigionato. Da un Papa, si era detto abbassando la voce.

Su queste nozioni, su queste notizie si arrovellava, fervida di idee che non le riusciva di radunare e di sistemare in sé. Erano materiali, minerali, astri in firmamento, zolle, riso e pane, erano acque del fontanile, gente e angeli, tutto riportato insieme. Scoppiavano, specie durante il sonno, immagini che di giorno ricacciava in un angolo quando si metteva in camicia e seminare l’orto, impastare il pane e la pasta, lavare la biancheria in acqua dei cavi fossi.

*

Come poteva un papa essere malvagio? Come poteva un papa fare imprigionare un poeta così grande che era, lui sì, al di sopra di tutti gli uomini? L’istinto le diceva che quel poeta, Dante, parlava ancora adesso, perché la sua Commedia era una grande fioritura, ed egli stava in un luogo di delizie, alle Isole Fortunate forse, da raggiungere con un volo breve e leggero o con la piccola navigazione di una barchetta. Dante faceva parte del mito, della favola, che per lei coprivano il tempo della storia. Dante era passato per l’Inferno.

All’alba Filomena se ne andava al lavatoio, ma non tutti i giorni, due o tre volte la settimana, recando anche l’asse di legno che aveva una zigrinatura e una specie di tasca per il sapone di Marsiglia. Lavava i panni nell’acqua gelata che d’inverno spaccava i sassi, inginocchiata, quasi dentro il canale. Un canale simile al Naviglio Langosco in cui una bambina, tanto tempo fa, era caduta ed era annegata.

Non il lavoro la massacrava. Il continuo fare, dalla mattina alla sera, quando si spegnevano i lumi e ritornava alla sua casa, per svestirsi e infilarsi nel letto, la stava portando allo sfinimento, lungo una strada dove, alla fine, salendo su un’altura, sarebbe precipitata nel niente. La malattia avvolgeva la sua carne come il frusciante mantello di pelliccia avvolgeva la figura snella della padrona.

C’era il paradiso di Dante, ma nella testa di Filomena il paradiso era un giardino di pertinenza bensì della provvidenza divina, ma ornato di ogni sorta di piante rare e di acque in cui potersi specchiare, nel vero specchio che lei avrebbe accettato, perché dopo essersi rimirata, bella, rinata, avrebbe incontrato Artù, all’isola di Avalon, all’abbazia di san Dustano. Dove si mangiavano dolci e pan di mistura, il mescolo di segale miglio e saggina che costituiva per lei la delizia somma, boccone prelibato da riservare alle nascite e alle nozze.

Ritornando a casa, si aspettava sempre di imbattersi nella donna spettro. Solo quella donna repellente aveva l’unico vero definitivo insegnamento da trasmetterle. Dopo, si sarebbe rialzata, rinnovandosi come la Fenice, come l’eroina della fiaba che si trasforma, uscendo da sotto la ruvida pelle della bestia, nella splendida principessa che era già stata.

Nel dormiveglia si inseriva, a volte, una pennellata del Naviglio delle campagne, delle risaie sommerse, il mare a quadretti, delle alzaie, nel frusciare dei barconi trainati da riva da tozzi e possenti cavalli. Conoscendo a sensazione le acque sotterranee, fontanili, risorgive interiori, lei usava questo materiale che buttava dentro il racconto: un accenno, una memoria.

A monte, nella pre-coscienza, un vago ricordo di Naviglio imbrigliato che perde energia entrando in città, diventando esangue già per la còclea in rame che lo imbriglia. Filomena era stata imbrigliata, come il fiume, piccola donna, entrando in città su un barcone, per andare a servizio, accompagnata dal padre in abito della domenica.

La serva, l’ortolana, la lavandaia, la tuttofare della casa patrizia aveva conservato un freddo controllo della propria rispettabilità. Serva sì, dalle mani callose e arrossate per lo strofinare, l’impastare, ma padrona a casa propria. Un minuscolo quartierino attaccato alla bottega del fornaio, al forno da cui traeva calore, era regno e territorio: nessuna lusinga e nessuna minaccia avrebbe potuto strapparla da lì.

Il Naviglio nelle ore della notte verso l’alba, era una striscia incolore attraversata dal ponte, la cui forma d’ogiva (considerando il riflesso nell’acqua che ne raddoppiava l’arcata) si teneva salda, al di sopra e dentro la materia liquida: tale era l’immobilità dell’acqua. Non un soffio agitava gli elementi e l’atmosfera, cosicché si poteva pensare a un mondo immoto, sospeso, bastante a sé, come l’astro nel centro dell’universo statico. Un mondo originato da una forma formante, che nel tempo si modificava. A Filomena piaceva così, perché le forme non intaccabili la infastidivano, e anche un po’ la sconcertavano. Come il corpo: tante parti, da toccare o da curare, o medicare, e anche la sua lenta trasformazione, da pensare e da nutrire. Come le uova in cereghin, che mutavano forma se erano gettate nella padella, e struggendosi in una macchia sfrigolante, ricordava la tonsura dei chierici.

*

La percezione di sé mutò. Quando si svestiva per mettersi a letto, sentiva che la pelle si affinava, e le membra e i muscoli si rinsaldavano in un nuovo tessuto, fresco, e la calma scendeva in lei nell’attesa del sonno. La prima volta fu dopo avere preso parte alle preghiere, con la famiglia della contessa e, inaspettatamente, avere sentito il canto di un’ospite, bionda e gentile, un canto cantato di struggente bellezza. Un balsamo le lisciava la faccia, le lisciava la gola e il petto, e si avvolgeva dietro, sulla nuca, sciogliendo i grumi imputriditi dalla durezza degli anni deprivati della dolcezza, e balsamo giù fino alla vita, fino alle gambe, ai piedi che forse, piano, si sgonfiavano.

Tutti i famigliari erano rapiti all’ascolto mentre il canto si dipanava. Filomena vide il conte che rilasciava i lineamenti del volto in un sorriso beato, ma lo vide come attraverso una cortina di garza o di nuvola. Niente andava perso in lei, niente va perso per l’artista, che di ogni grano di polvere, di ogni sasso buttato, di ogni frammento della realtà e del sogno si serve per l’opera.

Vedeva le ragazze distendersi, le trecce sciogliersi dal folto dei capelli di giovinezza, e due o tre giovani uomini invitati guardarle con ammirazione e languore. Ella stessa, Filomena, si sentiva più giovane, anche nella postura del corpo, più leggera, lucente.

Erano lucenti le iridi degli occhi, e dolci le mani che pettinavano e sbrogliavano i nodi, felice la nuova dignità della sua figura.

E così fu che, di sera, dopo avere percorso la via che la portava al suo rifugio a cinque minuti di cammino dal palazzo, arrivando a casa, aprendo la porta, ebbe un subitaneo mancamento nel mentre che era colpita in faccia dall’ala fredda di una presenza. Il timore cedè all’attesa e allo stupore, ma gioioso, non d’imbarazzo. Una magnete la tirò verso la finestra, di dove guardò fuori. Nel cortile c’era la donna brutta, sciancata addirittura, e sembrava cieca, perché agitava le mani in gesti esagerati, a significare qualcosa.

D’improvviso, la donna-simulacro era sul balconcino, vicinissima a Filomena, a cui trasmetteva un alito di gelo. La serva non aveva nemmeno notato che la sua finestra era aperta: era stata lasciata aperta? Strano, per lei, davvero normativa nel preordinare e nel fare.

La sera attardata si vestiva della notte. Si voltò per vedere la sua donna-anima ritrovata, ma questa era sparita, no, la rivide nel cortile, guardando giù d’istinto dalla finestra aperta. Era inverno eppure non sentiva il freddo. La donna spettrale stava nel mezzo del cortile, ritta nel freddo e nella neve, che iniziava a scendere dal cielo, in un silenzio intimo e ostinato. Un momento dopo, si riscosse: voltò il capo in su, verso la finestra, con le occhiaie vuote e le iridi bianche. Filomena ebbe un palpito. La donna simulacro guardava lei, e lo sguardo si allungava oltre la sua persona fisica, giungeva dappertutto, tutto vedeva. Fin dentro il cuore, vedeva. Ecco: sarebbe venuto, adesso, il messaggio atteso. Sarebbe venuta la risposta. Una forza benefica? Nel suo abitacolo, Filomena sentì mani ben curate che la svestivano, le facevano indossare la camicia da notte, e una mano le pose un lieve diadema sulla fronte. La mettevano a letto come una principessa, mentre perle di neve brillavano alla finestra e al finestrino gnomico della cucina.

La donna-spettro giocava con lei?

Di giocare non era più il tempo: di che cosa sarebbe stato il tempo, d’ora in poi?

Cercò dentro di sé l’antica lingua gutturale con la quale esprimeva il detto del Gatto Lupesco, ma venne prima il sonno, a prenderla, lasciandola, per tutta la durata della notte, consapevole di essere assistita da una presenza, perché aveva l’orecchio interiore desto, che percepiva persino il non rumore della neve che scendeva.  Il mattino seguente, uscì dal letto con una mossa leggera.

Trovò una lingua ricca di significati, di sottintesi, di simboli, vero linguaggio del sangue. Vi si accomodò, tra anse e labirinti che finalmente esprimevano tutta la gamma delle sue sensazioni, corporali e immaginali, una ricchezza di pensiero immaginale in cui aprirsi alla vera e prima e profonda conoscenza.

Fu subito in sintonia con il senso della giornata. Aprì la finestra. Il cortile era animato da bambini delle scuole primarie, con le cartelle: era il chiasso di pulcini lasciati liberi di scorazzare. E alcuni gettavano le palle di neve.

Dopo, Filomena scendeva le scale regalmente, sostenuta da una sicurezza nuova, preparata alla giornata che si sarebbe svolta, non da serva, ma da donna saggia che aveva ampliato l’innata sapienza tutta in una notte, notte di prodigio, notte di preparazione, impregnata d’incantesimi.

Fu così che la vide la padrona, che la vide Amalia, che la videro i famigliari, che la vide per primo il guardaportone, quando arrivò a palazzo. E, verso sera, il cappellano venuto per il vespro.

Chi videro, costoro?

Una donna ammirevole, che mostrava un tratto davvero elegante, une femme savante, une femme gentille, una gentildonna improvvisamente arrivata in una casa signorile lombarda a insegnare ciò che i padroni ancora non avevano saputo imparare, né comprendere: costoro si resero partecipi di un senso più sottile, psichico, e sacro, del mondo e delle cose esistenti attorno a noi, che legava tutto, nel grande come nel piccolo e nel quotidiano.

Filomena era calma e tranquilla. Tante cose si erano compiute. L’ala gelida alla sera l’aveva toccata, ma il calore della vita, la vera voce interiore, per quanto tempo? era tutta la sua sostanza.

Con reverenza, la contessa la fece accomodare alla sua tavola e le fece servire il pan di mistura, mescolo di segale miglio e saggina, boccone prelibato riservato alle nozze, alle nascite. Alle rinascite. Questi tratti d’eleganza, in un’altra favola, Filomena li aveva già conosciuti.

Da Parlare a Gwinda, Claudia Azzola, Edizioni La Vita Felice, Milano, 2014.

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Lettura scenica e regia di Mariella Parravicini a Milano