The much trumpeted Mister Trump

Trump

SILVANO GREGOLI

Come la maggior parte dei media, anche Margutte si è aperto ai commenti sulle ultime elezioni americane.
L’incipit è stato lo storico grido di dolore: «Heart Sick!» lanciato il 9 novembre 2106 dalla monregalese Leslie McBride Wile sulle pagine della rubrica Platonic Diversions.
Il secondo testo, The Trumpeteers – 20 novembre 2016, Le stanze di Cronos, Storia – è un’analisi storica, statistica, sociologica, antropologica, multidimensionale e frattale dell’avvenimento che ha causato lo storico grido della prima corrispondente.
Il terzo testo, questo, è un oggetto (a)politico, (non)utopico, sweet and sour, che mescola cose serie, vicende vissute, ironia e smorfie napoletane. È venuto fuori così.
Formalmente si presenta come una lettera alla mia amica Leslie (Heart Sick!). In realtà si tratta di un escamotage retorico per raccontare altre cose ad altre persone. Trump non c’entra quasi per niente.

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Dear Leslie,

rispondo  con molto ritardo al tuo accorato Heart Sick (Male al Cuore) per via di elezioni americane che non sono andate nel modo giusto.

Ti scrivo in italiano, ma sono sicuro che mi capirai. Ormai sei monregalese. Magari fatti dare un aiutino…

Non tutti sanno che siamo amici e che sono stato io a introdurti nel mondo magico di Margutte. L’ho fatto perché c’era una versione English di Margutte, e perché ho letto certi tuoi testi che mi sono piaciuti e che mi hanno commosso.
E poi, soprattutto, perché ho vissuto anch’io, con tutta la mia famiglia, la situazione che è attualmente la tua: quella dell’expatriate.
Io, tra l’altro, sono stato expatriate per lunghi anni in terre ‘anglosassoni’: le tue. Tu adesso lo sei nelle mie. Dei due non so chi lo sia stato, o lo sia, di più. Forse tu. Mi sembra più facile essere un monregalese in Inghilterra, Belgio, Australia e Israele, che un’americana in Gorzegna.

Ti ho già scritto una lettera, personale, per dirti che, secondo me, quel tuo Poem avresti fatto meglio a non scriverlo. Ma al cuore che fa male non si comanda. Ti ho anche spiegato che cosa non mi era piaciuto nel tuo poem. A questa lettera hai risposto, mi hai dato le tue ragioni e la cosa avrebbe potuto finire lì.

Perché, allora, ti scrivo adesso, urbi et orbi?

Perché voglio trattare un punto centrale del tuo poem che non ho trattato nella mia lettera e che potrebbe interessare ad altri. Anzi, diciamolo subito: questa mia lettera a te è soprattutto un escamotage per scrivere a molti altri. Si tratta ovviamente della frase chiave del tuo poem: The good people of America have elected one bad hombre as their president.

Non è tanto della seconda parte della frase che vorrei parlare, ma piuttosto della prima: The good people of America.

Per inciso: che tu sia una good girl è incontestabile: Nonostante il tuo Heart Sick, il tuo The good people of America include visibilmente TUTTO il popolo Americano, compreso l’immenso “basket of deplorables” (canestro di miserabili), come li ha chiamati Hillary, e cioè tutti quelli che hanno votato Trump, il bad hombre.

Leslie: se dovessi scegliere tra Hillary e te, nessun dubbio, voterei per te.

Dovrai tuttavia ammettere che per noi, che non siamo americani, è lecito chiedersi ogni tanto se il  people of America sia davvero così good.

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Ho trovato diversi siti che danno il timeline della nascita e della crescita degli USA rapportata alle sue guerre. Sembra, secondo questi siti, che gli USA siano stati coinvolti in una guerra o in un’altra, interna o esterna, 222 anni su 239. Gli unici cinque anni consecutivi di pace sono stati quelli della grande depressione. Nessun presidente degli USA ha gestito il paese senza coinvolgerlo in una o l’altra guerra. Nemmeno l’ultimo, un Democrat, Premio Nobel per la Pace 2009. Anzi, sembra che ci sia andato giù, pure lui, piuttosto duro.

Ti annuncio che stiamo entrando in politica. Sto infatti per rilasciare una serie di affermazioni assolutamente superficiali.

Nel mondo, cioè nel nostro mondo politicamente organizzato, ci sono le sinistre e le destre. Non cerchiamo il pelo nell’uovo: so bene che c’è dell’altro e che ci sono delle sfumature. Ma l’affermazione rimane valida. Tiene la strada.

Nonostante le sue peculiarità, il partito americano più vicino alla nostra sinistra è quello dei Democrats, cioè quello di Hillary Clinton. L’altra sponda, cioè la nostra destra, si riconosce più facilmente nei vostri Republicans, il partito di Trump. Ecco: già mi sento meglio. Il quadro è tracciato.

L’elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti ha reso Heart Sick mezzo mondo. Ma soprattutto la sponda opposta, i Democrats, la nostra sinistra. Mezzo mondo ha pianto, ma hanno pianto soprattutto loro. Il tuo accorato Heart Sick mi fa pensare che tu stessa ti identifichi più nel mondo dei Democrats, e quindi delle sinistre, che in quello dei Republicans e quindi delle destre. Penso perfino, e non credo di sbagliarmi, che questa tua scelta la assumi con orgoglio.

Te l’avevo detto che sarei rimasto in superficie. Vorrei estrapolare dicendo che le affermazioni precedenti valgono non solo per la sinistra-destra italiana, ma un po’ per tutte le sinistre-destre europee.

Ma adesso, non stare a credere che le cose siano così facili.

È vero: le sinistre europee, profondamente Heart Sick per la vittoria di Trump, hanno pianto sulle tristi spalle degli American Democrats. Ma, attenzione, non so se nessuno te l’abbia mai detto: le sinistre europee sono, ben più delle destre, sostanzialmente anti-americane. Più vai a sinistra, più l’antiamericanesimo diventa viscerale. E questo scombina un po’ tutti gli schemi precedenti. La complicità che le sinistre europee hanno con i Democrats americani, funziona bene solo quando c’è scontro con i Republicans. Se non c’è scontro la prospettiva cambia.

Sentissi cosa dicono di voi, people of America, le sinistre europee. Dicono che non solo non siete good: dicono che siete bad.

Dicono che siete nati su due grandi pilastri: la schiavitù e il genocidio degli indiani.
Molti sinistresi europei pensano e dicono di voi, good people of America, quello che Hillary dice dei Trumpeteers:  dicono che siete tutti un grande basket of miserables.
Vi rimproverano il Vietnam, le bombe atomiche, il maccartismo, le innumerevoli guerre, i diserbanti nel sud-est asiatico, le esecuzioni capitali, il porto d’armi per i bambini dell’asilo, il capitalismo, i fondi pensione che fanno fallire le imprese europee, ma soprattutto, soprattutto… il vostro indefettibile sostegno a Israele.

Si apre qui un secondo fronte, una seconda faglia fra te, good democratic girl, e le nostre sinistre casarecce. Queste ultime non solo sono antiamericane, ma hanno un altro vizietto: a me sembrano un pelino antisemite. Loro dicono di no. Dicono che sono soprattutto antisioniste. Cioè visceralmente pro-palestinesi e antiisraeliane. Di lì a essere un pelino antisemite il passo è breve.

Dai, Leslie. Non sarà mica per niente se per la festa di All Saints hai scritto per Margutte quel bell’articolo sul Jewish cemetery of Mondovì.

E così, tu che credevi aver trovato un sostegno al tuo Heart Sick negli ambienti della buona sinistra monregalese – loro pure Heart Sick di Donal Trump – non ti sei accorta che quelli avevano in serbo, nei tuoi riguardi, non una, ma due code di scorpioni.

Vuoi una prova? Il 19 novembre 2016, dieci giorni dopo la vittoria annunciata del bad hombre, Margutte ha pubblicato  una poesia di un Poeta dal Mondo, lo slovacco Pavol Janik, intitolata New York.  New York, Leslie; la tua amata città, quella che ha dato a Hillary una nettissima vittoria sul bad hombre: 58% su 37%. La città che ha visto i divi più famosi di Hollywood e degli States fare un muro compatto contro il sessista Donald, il populista, il volgare, il downmarket

Qualcuno l’avrà pur scelta, quella poesia, per figurare nella vetrina della non-rivista online monregalese. Per chi non volesse rileggerla tutta, lasciami solo evidenziare alcune frasi dal senso nemmeno troppo occulto..

NEW YORK

le punte di una città quadrata accoltellano direttamente il cielo stellato.
persone scomparse,
libertà morta,
la lussuria della grande città,
il messaggio di Einstein sulla velocità della luce (E = mc2 ? L’equivalenza della massa-energia? La bomba atomica?),
ettolitri di sangue di Hollywood,
da dove arriva l’impero di vetro e di marmo? Dove puntano i sottili missili dei grattacieli?

grattacieli new york

Per fortuna, l’astio dell’inizio poema si stempera, alla fine, in una desolata tristezza tipicamente terzomondista: Dio è nerocompra un hot dog in fondo alla strada del sessantesimo piano (attenzione: verificare la traduzione italiana!) e suo figlio è nato in una scatola di cartone del più recente tipo di schiavo.

È un vezzo, Leslie. Un vezzo di cui le sinistre europee si addobbano da più di sessant’anni ormai. Ormai si è calcificato nelle loro connessioni neuronali: America = badthe good people of America = the bad people of America.  È fatta, non si cambia più. Vedi che non era inutile parlarne?

Riguardo alla domanda fondamentale del precedente poema slovacco: Dove puntano i sottili missili dei grattacieli (di New York)? devo ammettere che mi trovo totalmente impreparato. Dove punteranno? Giuro che in questo momento mi manca ogni tipo di risposta.

Anche perché a quella domanda potrei io stesso affiancarne un’altra: “Dove puntano gli ancora più sottili missili degli ancora più sottili grattacieli della Penisola Arabica?”

Grattacieli Dubai nebbia

Dove punta il sottilissimo missile del Burj Khalifa, impero di vetro e di marmo, emblema del Dubai dalle grandi limousine? E dove puntano tutti gli altri sottili grattacieli della stessa penisola? Quelli che grondano degli ettolitri di sangue pachistano, bangladese, indiano, filippino, versato per 100 dollari al mese, 14 ore di lavoro al giorno, più di cinquanta gradi all’ombra, passaporti confiscati dal più recente tipo di schiavista: l’uomo in gellaba candida?

grattacieli Dubai-Riyad

Ma non era a New York ‘il più recente tipo di schiavo’ secondo il poeta del mondo Pavol Janik? Dai, Janik, leggiti un po’ QUESTO.

Ma allora, se è così, dove si nascondono, gli strenui difensori dei diritti dell’uomo e della donna? Perché non si manifestano, anche qui, sulle libere colonne della libera Non-rivista online di letteratura e altro, con sede a Mondovì? Non riusciranno a trovare, nelle pieghe di ciò che resta delle Primavere Arabe, in quel poco che resta di libertà d’espressione nei paesi esportatori di schiavi, uno o due sparuti Poeti dal Mondo, magari underground, magari un po’ anarchici come va di moda sulla rive gauche dell’Ellero, che si facciano portatori di un qualunque messaggio di rivolta? Di speranza?
O forse l’antiamericanesimo della sinistra più zuccona d’Europa è diventato una forma di emiplegia consolidata, contro cui nulla è ormai possibile, nemmeno l’esistenza di una pallida nozione di par condicio?

***

E adesso che mi sono sfogato, che ho fatto la transizione, chissà se potrò slittare sul mio argomento preferito? Trovo infatti che questa mia lettera si presti particolarmente bene a parlare anche un po’ di me. La par condicio di Margutte me lo permetterà?

Sono stato per più di quattro anni un expatriate in Israele, la bestia nera dei benpensanti nostrani.

Lì non mi è andata così bene come è invece andata alla nostra amica Silvia, di Margutte, expatriate nella Penisola Arabica. Terra da lei ‘trasfigurata in una nuova terra promessa’, dove ha trovato una sorta di ‘vicinanza, culturale e affettiva, con la sua cara Langa’ come si legge in una sua breve biografia su Margutte 2013. Fortunata, moderna Sherazade! Expatriate in un altrove gemellato con le terre langarole che vanno dall’albese al murazzanese! Che pacchia!

Io, invece, nei miei quattro anni passati in Israele ho imparato a non aver più nessuna idea precisa. Ne sono venuto fuori completamente suonato. Incapace di trovare un punto fisso nel cosmo. Ecco perché è da un po’ di tempo che mi aggrappo al piano di oscillazione del Pendolo di Foucault che è l’unico riferimento fisso nel panta rei universale. Ma sorvoliamo.

Vuoi che ti racconti qualche storia di Israele? Non sarà così privo di interesse sentire qualcuno parlare delle sue esperienze schizofreniche in un paese così schizofrenico. Così diabolizzato da parte di quelli che credono di avere di lui delle idee chiare.

Quando vivevo a Tel Aviv, avevo degli amici/conoscenti expatriate come me. Molti lavoravano per ONG che agivano con fondi europei, o Onusiani, per aiutare i palestinesi a sopravvivere ‘nell’inferno di Gaza’. Ai tempi di Yasser Arafat e della sua combriccola. Professavano dunque in pubblico un profondo antisionismo, venato, in privato, di franco antisemitismo. Dove vivevano? Tutti nelle ville dei quartieri residenziali di Tel Aviv dove vivevano centinaia di altri expatriate come loro. E come me. La sera, cocktails, festicciole intorno alle piscine, cibo multiculturale, champagne francese, parmigiano italiano, bistecche fresche arrivate nella notte dall’Argentina. Di giorno, Heart Sick, partivano con i loro autisti israeliani nelle loro auto diplomatiche israeliane  e andavano a sostenere finanziariamente i politici palestinesi che abitavano ‘nell’inferno di Gaza’. Di sera, ritorno alla Terra Promessa, dove scorre il latte e il miele, lo champagne e la Nutella. Il riposo del guerriero.

Continuiamo. Tu saprai certamente che anche in Israele c’è una sinistra. Una sinistra che, come tutte le sinistre europee che si rispettano, è pro-palestinese. Piccola eccezione: la sinistra israeliana non è anti-americana. Anzi.
A parte però quel piccolo neo, la sinistra israeliana è una vera sinistra, con la sua brava estrema sinistra. Tutte le correnti sinistresi israeliane hanno contribuito a portare all’interno della Knesset un nutrito gruppo di parlamentari arabo-israeliani (cittadini israeliani con passaporto israeliano, di origini arabe, di madre lingua araba, con tradizioni arabe e con il cuore dovunque tranne che in Israele). Te lo immagini un gruppo parlamentare, riconosciuto, finanziato dallo Stato, di cittadini arabo-israeliani in ogni parlamento di Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Oman, Yemen?

In Israele c’è dunque una sinistra che conta ed è molto presente sui media. Loro vogliono due popoli e due paesi. Sovrani. Diversi ma collegati. In pace tra di loro. Shalom. La frangia estrema di questa onorabile tendenza è rappresentata da una ONG che la pace non la vuole dilazionata nel tempo: la vuole subito: Shalom Achshav, Peace NowLa Paix Maintenant, La Pace Adesso. Sono trent’anni che la cerca, invano.

Prendiamo adesso il famoso Muro, il Muro della Vergogna come è chiamato all’interno della politica mainstream. Un Muro che rende Heart Sick miliardi di persone nel mondo. Lo sai tu che, non solo questo muro è approvato dalla stragrande maggioranza del popolo israeliano, ma perfino da una buona fetta della sinistra israeliana, incluso un piccolo basket di Peace Now? E che, se invece di essere eretto sulle frontiere del dopo guerra 1967 (tendenze espansioniste) fosse stato eretto sulla frontiera della Linea Verde del 1949 (primo armistizio arabo-israeliano) sarebbe approvato, caldeggiato e benedetto da TUTTO il good people of Israel, comprese le frange più sinistresi di Peace Now?

Adesso senti questa. Gli americani e la lobby delle armi. Obama è contro: good. Trump a favore: bad hombre.

Ero appena arrivato in Israele. Lavoravo per l’UE nel campo della cooperazione scientifica tra i centri di ricerca europei e quelli israeliani. Mi avevano appaiato un funzionario del Ministero della Scienza e Tecnologia che mi aveva già introdotto negli ambienti scientifici israeliani più top level. La Silicon Valley del Medio Oriente. Lui era un israeliano-americano e si chiamava Neil. Un uomo sui quarantacinque-cinquanta, gentilissimo, parlava a voce bassa; per me un aiuto prezioso. Un giorno andiamo in visita di certi centri di ricerca agronomica in Galilea, nord Israele, fascia Arabo-Israeliana. Partiamo con la  sua macchina. La sera ci fermiamo in un albergo. All’ingresso troneggiava la macchina X-rays che scruta i bagagli dei clienti. Io metto la mia valigia sul tappeto scorrevole e lui mette la sua. Dal mio punto di vista potevo osservare lo schermo che faceva il suo lavoro. Sorpresa! Nella valigetta di Neil, praticamente vuota, c’era un nettissimo Kalashnikov. L’inserviente dell’apparecchio l’aveva visto ma non aveva detto niente.

Ho avuto paura:  era la prima volta che vedevo un kalashnikov così da vicino. Sarà un terrorista che vuole ammazzarmi? Prendermi come ostaggio per spillare qualche milione all’UE?
Abbastanza imbarazzato gli dico cosa ho visto. Un breve sorriso. Noi israeliani, a turno, una settimana al mese, dobbiamo sempre avere un’arma con noi.

L’indomani sera rientriamo a Tel Aviv in macchina. Eravamo ancora in Galilea quando Neil riceve una telefonata sul suo (pesante) cellulare. Lunga telefonata, concitata, in ebraico. Cerco di chiedergli cosa succede. Mi zittisce brutalmente. Stacca. Glielo chiedo di nuovo. Niente, sta già telefonando ad altri, poi al suo ministero. Lunghe telefonate gutturali, concitate. Alla fine, silenzio.
Gli chiedo: «Neil, che cosa sta succedendo?»
«Un attacco kamikaze a Tel Aviv.»
«Ci sono dei morti?»
«Sì.»
«Dove è avvenuto?»
«Nel centro di Tel Aviv.»
«Dove?» le mie due figlie si erano da poco iscritte al Liceo Francese, nel centro di Tel Aviv.
«In un caffè del centro.»
«Quale?»
Esita parecchio, poi mi dice: «È un caffè francese, L’Apropo».
«È vicino al Lycée Marc Chagall?»
Scrolla le spalle.
«Quanti morti?»
«Quattro, per il momento. Quaranta feriti».
Era l’ora dell’uscita dalle scuole, molti allievi erano già fuori da un po’ di tempo. Mi sporge il pesante cellulare e mi dice, brusco: «Telefona a casa».
Sospiro di sollievo! Non era toccato a loro.
Benvenuto in Israele.

Avrei altre storie da raccontare. E forse un giorno le racconterò. Ma qui mi rimane ancora un po’ di spazio per delle storie atipiche, che forse non molti avranno sentito.

La maggior parte degli aerei che partono dall’aeroporto Ben Gurion per l’Europa lo fanno di mattina presto, verso le 5. Il taxi percorre dunque le strade di Tel Aviv, la periferia e la campagna fra le 3 e le 4 di mattina. A quell’ora, le strade di Tel Aviv, il lungomare e i viali delle periferie sono affollati come Mondovì il sabato mattina. È una cosa impressionante. Alle tre di notte incroci gruppi di giovani, ragazzi e ragazze, che si aggirano per strada, su e giù, cercando chissà cosa. Hanno l’aria di giovani che si divertono. Non è raro, anzi è abituale, incontrare per strada, ma anche nei vialoni scuri della periferia, delle ragazze giovanissime che cercano di rientrare a casa in autostop. Da sole.

Ho chiesto a molte persone, ho fatto delle ricerche, mi sono informato da israeliani di sinistra e di destra. Mi hanno dato tante risposte tra cui quella che gli israeliani bevono poco e si drogano poco (sarà poi vero?). Ma la risposta più sorprendente, quella che mi è stata data da tutti, è anche la più incredibile.
L’assenza, o meglio lo scarsa presenza di criminalità nella società israeliana è legata alle armi, alla guerra, a Tsahal: l’esercito israeliano, insomma. I sei milioni di cittadini israeliani hanno tutti fatto, o faranno, una guerra. In ogni famiglia ci sono foto di ragazzi e ragazze morti in una delle tante guerre che hanno punteggiato la loro storia. Ognuno di quei ragazzi e ragazzi che girano per le strade sta facendo, ha appena fatto o farà i suoi tre anni (due per le ragazze) di servizio militare. Per quelle strade festose, in quelle saccocce giovanili ci sono centinaia di pistole, di machine guns, di kalashnikov.
La prima volta che ho preso un autobus in Israele mi si è incollata contro, nella calca, una ragazzina che sembrava avere 15 anni. Di statura minuta. Ma la cosa che mi si è incollata contro non era il corpo minuto di una ragazzina minuta. Era un fucile mitragliatore più alto di lei. Con tanto di piedini per appoggiarlo a terra e sparare a raffica.

Se qualcuno pensa che la presenza diffusa di armi tra i civili israeliani sia la ragione della scarsa criminalità penserebbe giusto, ma solo a metà. Penserebbe giusto perché il portatore dell’arma non è come lo scentrato americano che se la compra da un armaiolo per andare a sparare in una scuola. Quella sua arma è una cosa non sua, appartiene a Israele. Gli hanno insegnato, alla dura, a considerarla come un oggetto sacro, una necessaria lifeline al servizio della comunità.
L’altra metà del ragionamento è più esotica. Come ho già detto, i sei milioni di israeliani hanno come comune denominatore il pesantissimo servizio militare. Si conoscono tutti, direttamente o indirettamente. Se a qualche sciagurato saltasse il ticchio di aggredire un’autostoppista, di violentarla per poi lasciarla mezza morta in un fosso, sarebbe morto lui stesso. La rete militare lo troverebbe, lo troverebbero i suoi compagni di leva, scomparirebbe dalla vita sociale, e alla fine non lo troverebbe più nessuno.

Un altro effetto, imprevisto, del famigerato servizio militare è lo straordinario sviluppo di start-up supertecnologiche, sovente nel campo dell’informatica, che crescono come funghi in tutti i quartieri di Tel Aviv. Anche questo è stato mio oggetto di indagine. E di meraviglia. I ragazzi entrano militari a 18 anni e ne escono a 21. In questi tre anni sono portati a eseguire compiti di grande responsabilità e quindi a salire rapidamente di grado. Alcuni escono con il grado di capitano. Molti compiono un secondo ciclo. Altri tre anni in un esercito operativo dove il singolo ufficiale deve prendere delle decisioni rapide, sul campo, senza esitare. Dopo sei anni, a 24 anni, sono uomini fatti, maggiori, colonnelli, pronti a entrare nella battaglia della vita civile che conducono come un’azione militare. Pronti a diventare dei manager di piccole imprese e a conquistare i mercati internazionali.

Israele un paese forte, conquistatore, senza complessi? E chi lo sa? Sembra.

Grattacieli Tel Aviv

Eppure, se lo si giudica dai suoi grattacieli spuntati, è un paese la cui stessa esistenza dipende esclusivamente dal sostegno, per il momento indefettibile, del good people of America. Di… Reagan, Carter, Clinton, Bush, Bush, Obama, adesso di Trump…

Ma l’America, il good people of America, lo staccherà un giorno il filo? Il filo che la lega a Israele, ma anche ai più feroci nemici di quest’ultimo, i sinistri tiranni delle terre della Penisola Arabica, da sempre fedeli alleati di tutti i Presidenti degli Stati Uniti, Democrates o Republicans?

Chi ci capisce ancora qualcosa? A quale barlume di verità attaccarsi?

Mamma mia! Mi viene il mal di mare. Help! I am getting Sea Sick!

***

Per fortuna, ogni tanto, ecco brillare un lampo di web-ironia.

L’anticlimax that sweeps away all the gloom. Una pernacchietta all’italiana come solo gli italiani ne sono capaci:

Berlump

Dear President Trump,
Compliments for the Election.

We italians are the unic nation in the world in grad of capir
what will happen in America in the next 20 years,
because we have già avut a president with strange hairs,
a lot of sons, many money to spend,
a spropositate passion for the woman’s freign,
Putin’s friendness.

For this motiv, remember us when you will attack the Europe
Because we ospit arabian people, and please don’t bombard Italy,
that we have già abbastanz problem between terremot,
Big Brother Vip, Modà, maltemp
and allenator of Inter.

Kisses.

***

Lift up your sick heart, Leslie! Siamo in Italia!

Il tuo amico Silvano.