Auschwitz, un simbolo da reinterpretare

Dachau

Dachau

PAOLO LAMBERTI.

Ad agosto ho trovato un paio di ristoranti carini a Berlino (ma si mangia meglio a Monaco o Amburgo): erano nella zona trendy di Oranienburger Tor, e ci sono arrivato con una S Bahn che ha capolinea a Wannsee. E a Monaco più volte ho notato l’importanza della Dachauersstrasse.

Oranienburg e Dachau nascono nel 1933 come KZ, Konzentrationlager, nelle periferie delle città più importanti, primi esempi di quella distruzione dello stato che è lo scopo del nazismo.
Lungi dall’essere uno stato totalitario, la Germania nazista è definita dagli storici più recenti una policrazia: termine educato per indicare un’anarchia feudale, agli antipodi dello stato moderno: è una visione che cancella l’idea, ancor diffusissima, che Hitler sia il culmine dei moderni apparati statali, da riportare magari alla razionalità illuminista, come predicava la scuola di Francoforte.
Al contrario Kershaw e Snyder mettono a fuoco due punti principali: razzismo e policrazia.
La visione del mondo di Hitler è biologico-razziale: esistono razze in conflitto, non stati; anzi questi, con leggi e burocrazie, sono un’invenzione della non-razza, dei parassiti giudei, che prosperano all’ombra della loro protezione. È una visione ecologica, non politica: quello hitleriano non a caso è un governo fondato su Blut und Boden, sangue e suolo, e crea legislazioni “verdi” a protezione della natura.
Perciò Hitler non sottomette lo stato al partito, come in URSS, né lo affianca con un (debole) partito, come Mussolini, ma ibridizza stato e partito, mirando ad assorbire lo stato nell’ideologia: lo dimostra la storia della Gestapo, in origine reparto regolare della polizia prussiana, poi inglobato nell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA, Reichsicherheithauptamt), che unisce sotto Himmler sia la polizia regolare che SS e SD (il servizio di sicurezza della SS, creato da Heydrich).
Il comportamento della Gestapo rivela questa diversità di ambienti: statale o anarchico. In Germania, dove le strutture statali permangono, la Gestapo è formata da poche migliaia di investigatori professionali, in gran parte già nella polizia dai tempi di Weimar, che indagano con scrupolo i cittadini tedeschi (non ebrei, non più cittadini) e spesso chiudono i fascicoli senza sanzioni: una differenza stridente rispetto alle decine di migliaia di agenti della Stasi nella Germania comunista, per una popolazione di meno di un terzo. Nei territori occupati lavora con lo SD e le SS, e si guadagna la fama che ancora la accompagna.
Quindi il Terzo Reich è un insieme di feudi dei vari leader, ciascuno dei quali si occupa di tutto quello su cui riesce a mettere le mani sollecitando il Führer, che è ben lieto di assegnare lo stesso compito a più collaboratori, mettendoli in competizione: di fatto Hitler non dà ordini o disposizioni, indica direzioni generali ed ideologiche, poi si affida al meccanismo che Kershaw chiama “andare verso il Führer”: dai gerarchi più importanti ai semplici cittadini si agisce interpretando queste vaghe indicazioni, e radicalizzando le proprie azioni in competizione con gli altri.
È la stessa personalità hitleriana a creare questo non-sistema: Hitler è un ideologo e un comunicatore, non un politico: e come dimostra Kershaw, è di fatto un “fagnano”: dorme fino a mezzogiorno, poi colazione, pranzo, tè, cena e ancora tè, ogni volta con lunghi monologhi; di spazio per lavorare ne rimane poco. Siamo ben lontani dall’assoluto controllo di Stalin, non a caso formatosi come organizzatore del partito, e dalla retorica della luce accesa a Palazzo Venezia.
La parabola (incompiuta) del Terzo Reich non è quella della formazione di un impero germanico, ma quella della dissoluzione dello stato: come dice Snyder, Hitler non è un nazionalista tedesco, ma un ecologista razzista: alla fine della guerra cercherà di cancellare quello che resta della Germania perché i tedeschi hanno fallito come razza, e il futuro è degli slavi; la natura si è espressa, e va accettata.
Snyder esamina l’Olocausto in rapporto a questa dissoluzione dello stato, con un’ottica stimolante. Dove lo stato rimane presente, come in paesi come la Francia, la Danimarca, la Romania (i romeni massacrano in proprio decine di migliaia di ebrei: ma non permettono ai tedeschi di farlo), la distruzione degli ebrei è parziale: nella stessa Germania ci vogliono 10 anni per passare dai cittadini tedeschi ebrei allo sterminio. La Danimarca è un paese occupato, ma con governo e leggi proprie: il 97% degli ebrei si salva. L’Estonia, simile per dimensione e livello economico (anzi meno antisemita dei danesi), è un paese il cui governo e le cui élites sono state cancellate dall’Urss, e che viene occupato poi dai tedeschi come un non luogo: il 97% degli ebrei è ucciso. E quando singoli diplomatici, svedesi, spagnoli, italiani, giapponesi e persino cinesi, offrono agli ebrei anche solo un visto o un qualsiasi documento ufficiale, i nazisti si fermano; cittadini ebrei inglesi o americani raramente sono toccati.
Poi ci sono situazioni via via meno organizzate: paesi senza governo o smembrati (Olanda o Grecia): 2/3 degli ebrei eliminati. Ex alleati occupati, come Italia o Ungheria, Stati fantoccio come Croazia o Slovacchia: il numero di ebrei che scampa è sempre più esiguo. Infine ci sono le “terre nere”, come le chiama Snyder: territori da colonizzare, che per Hitler non sono neppure stati, come la Polonia o l’Urss; o stati già cancellati dai sovietici, come quelli baltici. Qui, e non ad Auschwitz, avviene la maggioranza delle stragi, in uno spazio vuoto, senza strutture statali: il Lebensraum, destinato a fornire alla razza tedesca cibo e spazio, in un vuoto ideologico che lo sterminio deve trasformare in un vuoto reale.

Auschwitz

Non è il caso di Auschwitz. Per i tedeschi è un simbolo anche comodo: lo vediamo come un luogo sperduto, un punto isolato in mano a pochi criminali. In realtà nasce come l’ultimo dei KZ, al pari di Dachau, e si trova per i nazisti in Germania: quella parte della Polonia è annessa al Reich con il nome di Warthegau. Auschwitz ha quindi una esistenza semiufficiale, come Dachau, e non è uno spazio nel nulla come ad esempio Treblinka. Non a caso vi vengono costruiti impianti industriali gestiti dall’Amt VI delle SS (l’ufficio economico) in associazione con i grandi gruppi industriali privati, i Konzern; in uno di questi laboratori sopravvive il chimico Primo Levi.
È un simbolo comodo anche per noi: ci finiscono gli ebrei occidentali (francesi, olandesi, italiani), i prigionieri sovietici e quelli politici; i superstiti sono molti e spesso sono uomini e donne di cultura, a loro dobbiamo il grosso delle testimonianze (situazione analoga per i Gulag: Arcipelago Gulag di Solzenitsin testimonia dei luoghi meno radicali, solo Salamov parla della Kolyma). Così, dietro questo simbolo così visibile, per gran parte di noi spariscono nell’ombra le due fasi precedenti dello sterminio, ancora più brutali e più compromettenti. La seconda fase è quella dei campi di sterminio (Vernichtungslager e non KZ), Sobibor, Chelmno, Treblinka, di cui rimangono poche decine di superstiti. Ma quella più scomoda è la prima fase, lo sterminio di un milione di ebrei nei primi mesi dell’Operazione Barbarossa, nei modi più brutali e primitivi.
È poi un simbolo molto comodo per i russi, che vi si presentano insieme come vittime e liberatori. Così si può dimenticare che quasi un milione di cittadini sovietici ha collaborato con i tedeschi: e che la prima fase dello sterminio ha visto un ruolo significativo di baltici, polacchi, ucraini, russi. Vi sono baltici ed ucraini che hanno fucilato ebrei in quanto borghesi nella prima metà del 1941, al servizio del NKVD; nella seconda metà dell’anno hanno fucilato ebrei come membri di una non razza per conto delle SS e del SD. In terre già occupate dai sovietici i tedeschi hanno portato l’assoluzione perfetta per i collaborazionisti: ebrei e bolscevichi coincidono, perciò chi li uccide non può essere bolscevico.
Nell’opinione oggi dominante Auschwitz è il simbolo dello stato totalitario, della tecnologia disumana, della perversione della scienza; l’interpretazione appunto della Scuola di Francoforte.
Ma la tecnologia del Terzo Reich va cercata altrove, nelle autostrade, nelle automobili e soprattutto nelle armi: al termine della guerra in Germania hanno inventato i missili balistici (le V2, o meglio A4), i missili da crociera (le V1), gli aerei a reazione, i fucili d’assalto, i sottomarini non più solo sommergibili, i gas nervini. A parte le armi nucleari, sono gli arsenali di oggi. Invece lo sterminio usa come strumento più sofisticato un pesticida; e prima il banale monossido di carbonio, e prima ancora armi da fuoco o addirittura bastoni o vanghe: niente di molto differente dalla Cambogia di Pol Pot o dal Ruanda.
Ma soprattutto Auschwitz è il simbolo della dissoluzione dello stato, delle “terre nere”, di quanto succede quando si cancellano la cittadinanza, la burocrazia, l’impersonalità della legge: non a caso Schmitt, grande giurista ma anche pesantemente compromesso con il nazismo, diceva che la legge nasceva dal Führer.
Reinterpretare così Auschwitz oggi mi sembra particolarmente importante: perché questo inizio di millennio è caratterizzato dagli stati falliti, dal moltiplicarsi dei non-luoghi che sfuggono ad ogni autorità statale, dal graduale indebolirsi del concetto di cittadinanza. Non è lo strapotere della tecnica, come diceva Heidegger, a minacciare nuove Auschwitz: sono la frammentazione, il populismo, il razzismo. E soprattutto la competizione per l’ecologia: in un mondo stravolto da esplosione demografica e cambiamenti climatici, il pensiero dell’ecologista razziale Hitler rischia di suonare sinistramente attuale.

Bibliografia:
Ian Kershaw, Hitler: A Biography, Norton (ed. Kindle), New York 2010
Timothy Snyder, Terra nera: L’olocausto fra storia e presente, Rizzoli, Milano 2015
Frank McDonough, Gestapo. La storia segreta. Protagonisti, delitti e vittime. La verità sulla polizia di Hitler, Newton Compton, Roma 2016
Daniel J. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, Mondadori, Milano 1997