Sirene, chimere e altri animali

Sotto il segno del granchio

GABRIELLA VERGARI.

Che non sarebbero state rose e fiori lo sapeva.
Glielo avevano profetizzato i professori con un risolino di compatimento.
Glielo avevano ripetuto i genitori, sempre più ansiosi per il suo futuro.
Glielo avevano cantilenato, sprezzanti, i fratelli, ferocemente convinti della pochezza delle sue risorse mentali.
Glielo avevano ribadito, mille e mille volte, gli amici, inorriditi ed affascinati insieme, dalla prospettiva di studi noti per essere tanto impegnativi e complessi.
Glielo aveva scandito, e con un velato tono di minaccia, perfino il nuovo dirigente, che già lo conosceva di fama, essendo il padre di un suo compagno delle medie.
Ma non aveva voluto sentire ragioni e si era impuntato: o il liceo classico o niente.
E già pregustava il momento in cui avrebbe sbandie­rato sul naso del suoi detrattori un diploma difficile anche per gli alunni modello. Sarebbe stato il suo trionfo, una sorta di riscatto moral-­culturale.

E adesso, non aveva che da ringraziare se stesso se la sua vita era diventata un inferno. Se per lui, che già impiegava ore a comporre in corretto italiano, le versioni dal latino si erano rivelate un ostacolo insormontabile. Se neanche nei suoi sogni più rosei si sarebbe aspettato di poter mai tradurre più di due righi di greco.
Ma era colpa sua se gli autori antichi si muovevano disinvolti nelle panie di lingue impossibili, che sembravano create proprio per turbare la pace di innocenti studenti? se, giusto quando si riprometteva di prestare maggiore attenzione, il mondo lì, fuori dell’au­la lo attirava con infinite ed allettanti lusin­ghe? se, nel bel mezzo di una spiegazione im­portante, lo assaliva, all’improvviso, il pensie­ro del granchio messo nell’acquario, o del gattino salvato il giorno prima o del rospo temporaneamente nascosto nel cassetto e tutto ciò gli impediva di concentrarsi a dovere? se, ogni volta che i fratelli si divertivano a tormen­tarlo, era costretto a tralasciare i compiti, per impegnarsi in spasmodici corpo a corpo a dife­sa dei suoi spazi vitali?
Nessun adulto ragionevole – ne era certo – avrebbe potuto, in coscienza, biasimarlo per questo, ma la sua esistenza non era costellata di adulti ragionevoli e si consolava all’idea che il fato, prima o poi, si sarebbe stan­cato di tenerlo in balia del suo maligno capric­cio.
Fortuna che, in tanto guazzabuglio di im­pulsi, voglie, ribellioni e desiderio di riscatto, l’insegnante non gli era ostile: a volte anzi sembrava che perfino lo capisse. Ma non si faceva illusioni: già da molto aveva imparato, e a sue spese, che i professori un’anima non ce l’hanno!
Difatti, come se il travaglio invernale non fosse bastato, era stato condannato a sudare anche d’estate sui libri. Un bel sacrificio, certo, ma la posta in gioco era alta e lo sapeva: se avesse fallito all’esame per l’assolvimento del debito, tutto sarebbe andato perduto, e senza tante cerimonie.

Così, eccolo adesso, nel solito banco, alle prese coll’ennesimo, indecifrabile passo di greco. Ma era  pronto, prontissimo, a dare battaglia. Non avrebbero vinto, malgrado tutte le loro dannatissime vi­cende mitiche, i loro animali parlanti, gli im­probabili e didattici apologhi, le creature mo­struose e polimorfiche, le imprese belliche e gli aristocratici eroi!
Roba da non credere, ancora Ulis­se, il poliedrico Laerziade, insopportabile pro­tagonista di innumerevoli ed insulse avventu­re, che lo avevano fatto penare non poco duran­te quel suo primo anno al ginnasio! Questa volta, però, sarebbe stato diverso, avrebbe ven­duto cara la pelle!
Deciso e determinato, co­minciò quindi a consultare il dizionario: ce l’avrebbe fatta!

Dalla finestra aperta entrò un moscone e, dopo un’accurata ricognizione dell’aula, si andò a posare sul banco, accanto a lui. La circostanza gli strappò un sorriso. Si aspettava un’insidia del fato, ma non l’avrebbe mai immaginata così banale ed abusata. Che diamine, tentarlo con un trucco buono per uno scolaretto alle prime armi! No, non sarebbe caduto in quella facile trappola e continuò a dedicare tutta la sua attenzione alla versione.
Strano, però: in barba a tanta risolutezza il suo sguardo, quasi ne fosse calamitato, con­tinuava a posarsi sull’insetto. Quanto più anzi si sforzava di ignorarlo, tanto più si sorprende­va a spiarne i movimenti, ad osservarne il corpo peloso, ammirarne i colori, apprezzarne la mobilità delle zampette ed il velluto del capo. Che avesse sottovalutato il suo eterno avversario? Allontanò, reciso, quell’inquietan­te sospetto e cercò di proseguire imperterrito.

Il moscone, dal suo canto, non dava segni di impazienza.
Stava lì, incuriosito, studiando­lo, con tutta calma, dalla sua postazione.
Si domandò perplesso per quanto ancora avrebbe retto al supplizio: quella sfida – lo sentiva — stava diventando pericolosa e non si sarebbe conclusa che con la disfatta totale di uno dei due.
Che si fosse sbagliato sull’ingenuità della trappola e quell’esca celas­se, in realtà, un amo letale?
Decise di attaccare per primo e, contravve­nendo a tutti i suoi principi nonché all’assoluto rispetto per il mondo animale, scacciò l’insetto con la mano, ma quello, nient’affatto risentito, contrattaccò levandosi in volo e prese a ronzar­gli allegramente intorno, proprio ad altezza di naso, in una sorta di profferta amichevole. Che fare? Con un ultimo, disperato appello alle sue risorse tentò, ma invano, di resistere, poi, sco­raggiato dall’inutilità dei suoi sforzi, si conse­gnò all’invito di quelle irresistibili evoluzioni e posò la penna.

Il suono della prima campana giunse, sgra­dito ed inatteso, a riportarlo alla cruda, amara realtà.
Realizzò con una fitta d’angoscia di aver già sprecato una buona metà del tempo a sua disposizione. Sfida o non sfida, doveva fare in fretta se voleva consegnare.
Per una volta ancora, l’ennesima, riprovò a concentrarsi sul testo, nel tentativo di tirare le fila dell’ingarbu­gliata matassa che gli stava davanti. Da quel che aveva capito – e non era affatto granché – Ulisse si trovava impegnato in un confronto con le sirene. Che mai poteva legare esseri tanto diversi tra loro?
Si guardò attorno. I suoi compagni di cordata parevano procedere spediti: solo qual­cuno, di tanto in tanto, girava, furtivo, gli occhi nella speranza di carpire un suggerimento. Ma lei era implacabile: non le sfuggiva nulla, acci­denti! Avrebbe dovuto farcela da solo.

Trovò, per pura coincidenza, un soggetto, ci appiccicò alla bell’e meglio un predicato, ci accoppiò il primo sostantivo sot­tomano – chissà che non fosse, proprio, il fatidico complemento oggetto? – ipotizzò un senso… ma quando tutto sembrava volge­re al meglio (perfino il moscone si era deciso a volar via), ecco che il fato tornò a farsi beffe di lui.
Percepì con orrore che al centro del testo doveva campeg­giare qualcosa come un’infinitiva. E se così era, aveva finito. Game over: su quello scoglio si sarebbe arenato per sempre, le sue gracili forze non sa­rebbero mai bastate a cavarlo da quel­la secca mortale.

Prossimo al naufragio, ma non definitivamente affondato, decise di rischiare il tutto per il tutto.
Alzò, dunque gli occhi dal foglio e si accorse, per caso, che una delle ragazze aveva già finito.
Con un lento, calibrato gioco di sguardi cercò di captarne l’ attenzione, le chiese soccorso, le fece capire quale fosse il passo dannato, la supplicò di un aiuto.
Quella sembrò, dapprima, nicchiare, forse timorosa di un rimprovero.
Poi, quando lui aveva quasi perso le speranze, tornò a cercare i suoi occhi, gli fece intendere di stare in campana, che avrebbe aspettato il momen­to opportuno per dettargli la frase.
E, final­mente, dopo un’eternità, il momento giunse e, con labbra di rosa, la bocca amica si aprì a modulargli un alito di salvezza. Ma era troppo di­stante e già la megera intimava.
Disperato, si abbarbicò a quell’unico, lie­vissimo soffio di vita e buttò giù, in tutta fretta, la tra­scrizione di quei suoni fatati che per un attimo gli avevano additato la via della speranza.
Fu così che all’incredulità dell’attoni­ta insegnante, al posto di un banale ma corret­to: “… le sirene inducevano i naviganti a rima­nere”, si palesò un più melodioso ed arcano: “… le sirene dulicean marganti ac climanene“!

tratto dalla omonima raccolta, Solfanelli (Chieti), 1993