Ricorrenze

crisantemi 001

GABRIELLA VERGARI.

Tranquilli, che anche per quest’anno li avrete, i miei fiori.
Candidi di petali, fitti, e rotondi come bocce.
Ve li sto scegliendo con cura, uno per uno, come al solito.
«Una  bella decina», commenta infine l’ambulante, lasciandomi intravedere, nel balenio del sorriso rivoltomi e l’intrico della barba,  una dentatura forte e armoniosa, da giovane sano.
«No, non me li tagli troppo corti», lo fermo,  le cesoie  già aperte a mordere gli steli.
«Sulla tomba devono spiccare» aggiungo quindi tra me e me, a voce così bassa da sembrare soltanto un sospiro, un soffio appena.
Non voglio nemmeno la rafia, né l’involucro di stagnola, perché li preferisco sfusi, i vostri fiori, in modo da  scagliarveli meglio addosso, sì addosso, come le  lacerazioni che vi debbo.
Lo so, allora ero poco più che una ragazza, e lui non vi piaceva, ma questo è solo un  lato, appena un aspetto  marginale della questione, non divaghiamo.
E così, insieme a tanti  altri,  riprendo il  cammino e, senza la scorta di nocchieri e viatico alcuno, mi accingo ad attraversare la striscia di strada che, come un angusto Acheronte eternamente melmoso di poltiglia di foglie e ciarpami, separa la città dei vivi da quella del silenzio. Quindi varco i cancelli, recando  il mio bel mazzo di crisantemi a testa in giù.
Io invece,  la testa,  l’ho  sempre tenuta ben alta,  anche  troppo a sentir voi.
Sì, lo so, le brave figliole certe cose non dovrebbero nemmeno pensarle, dovrebbero invece ubbidire in tutto e per tutto a mamma e papà, ché i genitori  vivono per loro,  fanno qualunque cosa per  loro, si sacrificano per loro e non meritano…
No, di sicuro non meritano.
Ma neanch’io meritavo.
Io che fino a poco tempo prima ero stata la luce dei vostri occhi, le tue viscere, mamma, il respiro tuo stesso, papà.
La piccola, docile Agnese, che si distingueva nel solfeggio, mangiava composta, sedeva per bene  e teneva in bell’ordine stanze e quaderni.
La bimba lieve e carina, che vi teneva la mano per strada e parlava con sussiego distribuendo, al caso, sorrisi misurati e compiaciuti commenti.
Proprio una bambolina, la bambolina di mamma e papà.
E quanto me lo ripetevi tu stesso, babbo, che ero un amore, il tuo amore, la tua fidanzatina, la fatina chiacchierina che rallegrava il  rincasare e ti abbracciava orgogliosa. Il mio grande, possente papà, che non sarebbe mai crollato di fronte a niente, e mi avrebbe sempre protetto da tutto e  tutti. Il mio frangiflutti roccioso, il mio inespugnabile  forte, il mio campione ad oltranza, il mio asso  fatato.

E tu, mamma,  che mi volevi perfetta e mi insegnavi la decenza in una con le buone maniere, pretendendo, intransigente, che rispettassi le forme come avevano da sempre  preteso con te.
Tu, che non alzavi mai la voce, perché non stava bene, e non hai mai voluto indossare i pantaloni, che non erano signorili, e guai ad un ricciolo ribelle ed il filo di perle che sembrava dipinto sui golfini.
Quante volte avrei voluto, in quel tempo, che  quel filo ti strozzasse in gola i commenti taglienti, quelle frecciate sprezzanti con cui catalogavi il mondo, incasellandolo nel tuo personalissimo schedario dei buoni e dei cattivi.
Non mi accarezzavi molto da bambina, ma non appena sono divenuta adulta hai in compenso imparato in fretta a scorticarmi l’anima. Né ne hai mai davvero lesinato l’occasione. Soprattutto quando mi intuivi abbassare per un poco la guardia e mi sentivi più vulnerabile e stanca, una giovane donna avvilita, alle prese con l’esistenza ed un amore difficile.
Lui, bello non era, ma il suo sguardo mi si scioglieva dentro, liquefacendomi il respiro.
Quegli occhi fondi  ed acuti mi dominavano, stregandomi, padroni, ogni  resistenza, e già non ero più io ma avrei potuto varcare qualunque limite e confine per giungere in un altrove mai prima  nemmeno immaginato.
E la sua voce, dalle sonorità  ora profonde e tormentose come il mare che si rivoltola piano e rode la rena, ora più chiare e ridenti come l’ albeggiare d’estate, con quelle consonanti che a tratti gli divenivano roche, come soffocate dagli empiti d’ una passione, oppure fuoriuscivano di getto, come in una raffica che  tuttavia stentava  a tener dietro la furia d’un pensiero.
E quei suoi rari sorrisi che mi illuminavano la terra e me la rendevano amabile e vivibile, il miglior luogo possibile dove crescere e danzare, svilupparsi e prosperare, lusinga  mirabile di futuro.
E quel suo fisico asciutto e scattante, proteso come una sfida in faccia al mondo ed alle sue mediocrità, con quelle spalle  che non si sono mai curvate.
E le sue mani, le sue mani…
Sì, lo so, che non era fatto per me e con lui avrei conosciuto sofferenze e tribolazioni. Ho imparato anche questo, purtroppo. Ma l’ho imparato quando non era più consentito un ritorno e tutto si era già compiuto. Oddio, mi fate ancora usare toni da melodramma! E del resto, conosci tu, mamma, quell’uomo che sappia solo lastricare di viole e carezze le vie della sua donna? Proprio tu, mamma, che non sei mai riuscita a dissimulare il tuo fastidio per le piccole manie di papà, per quel suo essere diverso dal compagno che avresti desiderato lui fosse?
Ma non divaghiamo di nuovo.
Comunque stessero le cose, l’incontrovertibile evidenza era che lui  non andava bene per voi, così anarchico, anticonvenzionale e libero com’era. Voi che la libertà non sospettavate neppure potesse avere un profumo, bene incapsulati come stavate nella routine che avevate scelto una volta e davate da allora per certa, l’unica percorribile per garantire la vostra presenza nel mondo, senza peraltro preoccuparvi di essere o meno ancora in vita.
Ed io…Io ero innamorata, innamorata persa, innamorata come mai avrei pensato  potesse accadere e come non accade di fatto nelle vite di tanti. Innamorata come c’è chi non lo sarà mai e spera di diventarlo. Innamorata come le foglie della luce e gli uccelli del volo. Innamorata come un’eroina da romanzo, come …

È inutile. Tutto questo ve lo avrò già detto e ripetuto un centinaio di volte almeno,  urlandovelo, se necessario, fino alla raucedine, singhiozzandovelo, implorandovi, minacciandovi, sbattendo le porte, cercando, speranzosa, un’intesa. Se non l’avete capito allora, non lo capirete certo adesso che il tempo l’ha ingoiato da tanto e non resta più nient’altro da fare.
Ma allora mamma, allora sì che sarebbe stato importante. Non dico accettarlo, ma se non altro provare, dico solo provare, a comprendere i miei ventidue anni, i miei sogni, i miei entusiasmi, le mie speranze. A tendermi una mano dalla trincea delle  certezze precotte,  dal muro di cinta dei  silenzi risentiti,  dalla barriera invalicabile delle recriminazioni e dei  “così è e così sempre sarà”.
Quella mano! Quanto ho sperato di intuirla seppure tra la filigrana delle tue parole d’accusa, mamma. Quanto mi sarebbe stato necessario che avesse ripreso ad accarezzarmi, come da piccola, i capelli, papà.
E anche dopo, quando tutto si era già compiuto, quanto ho ugualmente sperato potesse un giorno tornare a cercarmi, abbattendo risoluta le distanze, appianando ogni più alta montagna, livellando l’incolmabile. Sogni. Sognavo a vent’anni e ho continuato a trenta e a quaranta, malgrado tutto e malgrado voi.
Quella notte, l’aria fragrava d’ogni dolcezza ed era essa stessa seduzione. La  notte madre di tutte le notti, la notte primordiale d’ogni desiderio e d’ogni invito. Avrei immolato qualunque cosa all’altare di quei richiami. Ho di fatti immolato molto più di quel che credessi.
Notte d’estasi e tormento. Stavo con lui e pensavo a voi, a quel che sarebbe successo quando aveste scoperto che non ero tornata a casa ed ero stata in un altro letto.

Quando sono tornata, all’alba, per un attimo ho sperato.
Ho sperato che capiste, che poteste far finta di niente, che perfino non ve ne foste accorti
E le circostanze sembravano quasi rafforzarmene la certezza.
Nessun segno d’alterazione. Nessuno ad attendermi  fuori, nessuna tendina scostata, nessun viso sconvolto dalla trepidazione o dal risentimento.
Nulla di nulla. Nulla di nulla.
Un’alba come tante d’un giorno come tanti.
No, non statemi ora a dire che non avevate chiuso occhio e quella notte era stata la più tetra della vostra vita. E non tiratemi in ballo le convenzione del pre-sessantotto  e  “gli altri tempi ”.
Non è questo il punto, non direi proprio.
Tanto per cominciare il sessantotto era ormai alle porte ma dei tempi voi non ne avete mai avuto che la pallida vostra percezione e dei mutamenti non vi siete quasi del tutto accorti.
Il punto era invece che avevo tradito le vostre aspettative, deviando dai percorsi che mi avevate già scelto.
La Delusione delle Attese, il peccato dei peccati per le brave bambine e le figlie modello, l’Onta Infamante se altre mai.
Solo che non mi avete lapidato. Non in modo materiale, quantomeno.
No, avete preferito eliminarmi dalla vostra esistenza, cancellandomi come l’errore che mai si sarebbe voluto commettere, estirpandomi dal vostro orticello conchiuso come un tralcio tralignato,  radiandomi fuori dal vostro mondo ben assettato come …
C’è stato un tempo in cui sarei anche andata avanti per ore in questo gioco delle metafore e ne avevo pure realizzate delle creative ed immaginifiche, di cui riuscivo perfino ad andar fiera. Ma oggi, oggi è inutile proseguire, tanto voi  avete capito benissimo il concetto e chissà che non ve ne siate addirittura compiaciuti  quando avete meditato il Castigo.
O l’hai scelto di getto, mamma? L’hai accettato come inevitabile, papà?
Sì, lo ammetto, non credo sia stato facilissimo nemmeno per voi lasciarmi dietro la vostra  porta. E chissà quale bizzarra interpretazione del ruolo genitoriale vi ha consentito di assistere sempre più irremovibili al mio strazio.
È per questo che non ho mai voluto dei figli, ne ho avuto paura grazie a noi e a tutto quello che ci era successo.
In una sola notte mi avevate annientato il passato, falciandomi via. Ma non ero un fiore caduto e nemmeno una Peccatrice, come forse vi sarebbe piaciuto divenissi, per marcire avvinghiata alle mie aberrazioni. Ero soltanto una giovane donna…, ma  mi sto ripetendo, questo infatti ve l’ho già detto
Quanto al resto, tu, papà, dovresti conoscerlo meglio, visto che sei andato dopo poco ad occupare quella lapide in alto che sovrasta, almeno in questo, quella della mamma.
Una sepoltura discreta e decorosa, da dove non lasci moniti né sorridi ai vivi, visto che ti manca la fotografia e da morto sei così certo più anonimo che da vivo. Ma che dico, da morti siamo tutti più anonimi ed equiparati.
Chissà che ne hai pensato, mamma, quando l’hai provato.
Ma andiamo con ordine, che ce n’è voluto, prima.
“Il dolore uccide”, mi avevi spesso ripetuto e perciò ti saresti forse augurata una bella fine per crepacuore, così  che a macerarmi l’anima  non  bastasse  il peccato ma mi si aggiungesse anche  il pregevole peso del rimorso.
Certo però si è che tu sei  sopravvissuta.
Tuo malgrado, dicevi, e la voce mi giungeva alle orecchie, attraverso canali che non ignoravi. Sapevi, infatti, che io restavo comunque all’ascolto, clandestina e reietta, ma  mai  distante davvero. Così,  la morte di crepacuore ti sei gloriata di attribuirla al babbo, perché tanto bella opportunità  non andasse comunque sprecata e riuscisse  in ogni modo ad inoculare il suo veleno.
Ed io ho espiato, altro che se l’ho fatto, punendomi e fustigandomi con i cilici più sofisticati, proprio l’ultimo ritrovato della  scienza  in materia, non c’è da dubitarne.
E poi un giorno ti ho visto. Da lontano. Il tempo e la vita non ti avevano davvero risparmiato, ma ti ho riconosciuto lo stesso, dura e nodosa come un tronco d’ulivo, disseccata dal tuo cupo rodìo ma ancora indeflettibile. Davvero una bella testimonianza di pervicacia e perseveranza.
Come avrai fatto, mamma, a non  lasciarti sfiorare neppure per poco dalla tentazione del dubbio, a non chiederti mai  dove stesse veramente la ragione, se fossero sempre uniche le verità?

E così, oggi, che è il due novembre del duemilauno, bella data rotonda, sono qui, insieme a tanti altri, che vi porto i miei fiori. No, non temete, non  mi tratterrò a lungo, né ve li infilerò nel vasetto. Come tutti gli anni ve li scaglierò da lontano sulla tomba. E pazienza che non sia un bel gesto e non stia bene. È una cosa da niente rispetto a tutto quello che c’è già stato e poi dura un attimo, il tempo di  accostarmi un secondo e calibrare opportunamente il lancio, come nello shangai, quando si fa la  gettata e si mette bene al centro l’imperatore.  Solo che il mio, d’imperatore, non c’è più, andato via da tanto anche lui.
Ma questa è un’altra storia, non divaghiamo nuovamente.

E tranquilli, che nemmeno quest’anno mi fermerò per un breve suffragio, non credo vi serva e comunque non ne ho la voglia.
Ma ecco ormai che ci siamo.

Il lancio è perfetto, perfetto davvero, grazie all’esperto movimento del polso, ed i crisantemi ricadono sul marmo non troppo scomposti. Piuttosto che scagliati sembrano anzi deposti da una mano pietosa e leggera. Per il resto, credo che solo una signora mi abbia notato, tanto che con la coda dell’occhio la scorgo osservarmi a bocca aperta mentre ripercorro il vialetto e mi accosto all’uscita.
Non credo capirà, né me ne interessa poi tanto. Per lei resterò un enigma, l’enigma dell’anziana signora che va lanciando crisantemi su una tomba di famiglia. Voi invece avete capito benissimo, lo so, e anche se così non fosse, non me ne curo più,  che ci sono abituata.

E allora, buona commemorazione dei defunti, mamma, eterno riposo, papà, e alla prossima, che, a Dio piacendo, io non mancherò…

tratto da: GABRIELLA VERGARI, L’isola degli elefanti nani, AG Edizioni, Catania 2003 

(pubblicato originariamente il 2 novembre 2016)

illustrazioni di Franco Blandino