L’ironico disincanto di Guido Gozzano

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Ricordare Gozzano nella serata a lui dedicata presso la SOMS di Mondovì nel centenario della sua morte (avvenuta il 9 agosto 1916) ha rappresentato per chi scrive il tentativo di scrollargli da dosso la sbrigativa etichetta di “crepuscolare” e di “disimbalsamarlo” dalle interpretazioni scolastiche, che di lui propongono sempre e soltanto due o tre testi (Totò Merumeni; L’amica di Nonna Speranza; La signorina Felicita ovvero la felicità, e il più delle volte con tagli consistenti).

Al povero Guido è toccata la sorte del suo “Loreto impagliato”: relegato tra gli autori di secondaria importanza, un curioso cantore delle buone cose di pessimo gusto e del ciarpame reietto; un cenno veloce nella trattazione del programma di letteratura italiana all’ultimo anno delle superiori, quando non addirittura una disinvolta omissione.

Oppure, raffinate ricerche accademiche per addetti ai lavori, quelle che si riservano agli autori di nicchia, estranei al grande pubblico.

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Vale la pena, invece, allargare lo sguardo sulla sua produzione poetica – pressoché tutta realizzata prima dei trent’anni: la prima raccolta poetica è La via del rifugio (1906), scritta a ventitré anni; la seconda ed ultima I colloqui (1911), quando di anni ne aveva ventotto –, accostarsi a liriche che colpiscono per la loro straordinaria originalità, rimarcando – aldilà di tutte le disquisizioni su “falsità” e “sincerità” della sua ispirazione – che uno dei temi più ricorrenti, direi quasi ossessivi, è la consapevolezza di avere avuto in sorte una vita breve, segnata da una malattia che all’epoca non lasciava scampo (solo trent’anni dopo, nel 1946, fu debellata con la scoperta della streptomicina).

Basta leggere “Alle soglie” per comprenderlo: non conosco nessun altro poeta che abbia saputo trasfigurare in poesia una visita medica, con tanto di radioscopia e di prescrizioni di dottori in consulto, che impongono di cercare climi per lui più salutari, di ridurre gli stravizi, senza però convincere il paziente della bontà dei loro rimedi (Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli.).

La Signora vestita di nulla … protende su tutto le dita e tutto che tocca trasforma è la vera “amante” del Poeta, quella il cui incontro egli non riuscirà ad eludere. Ammaliato da tante figure femminili, solo di costei subirà la fatale attrazione.

Cercherà di resisterle, ricorrendo alla fantasia, al vagheggiamento impossibile di un futuro diverso, rappresentato in L’ipotesi, in cui si immagina ultracinquantenne, con un figlio che ha preso il suo posto nella conduzione della Ditta e una figlia che sta per renderlo Nonno e soprattutto una moglie, proprio quella Signorina Felicita!, che continua ad essere beatamente ignorante di faccende letterarie.

Gozzano si perde estasiato (e noi con lui) nell’immaginare la sua casa borghese, la sua cena borghese all’aperto, le chiacchiere con gli amici…. Tanta dolcezza, tanta raffinata ironia, ma la conclusione riporta dolentemente alla consapevolezza di sempre:  Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,/se già la Signora vestita di nulla non fosse per via./ Io penso talvolta…

Qualche verso di Gozzano viene poi sistematicamente estrapolato: è il caso dei meravigliosi Non amo che le rose/ che non colsi. Non amo che le cose/ che potevano essere e non sono state…, sottratti dal più ampio contesto di una delle liriche più belle di tutto il nostro Novecento, Cocotte. La poesia tratta di un ricordo remoto strutturato in più sequenze: lo evoca il luogo, un particolare giardino in cui il bambino di quattro anni ha ricevuto un confetto da una giovane donna a lui sconosciuta, che ha subito informato del gioco a cui giocava e dalla quale ha ricevuto un bacio tra le inferriate; quando racconta di quest’incontro alla madre, costei immediatamente disapprova, ingiungendogli di non parlare più alla cattiva Signorina etichettata come “Cocotte” (nome che il bambino non capisce affatto e sul quale fantastica, pensando al “coccodè” delle galline: tra l’altro il bambino ha etimologicamente ragione, perché il termine  di sapore ottocentesco oggi in disuso – oggi, forse, ne preferiamo altri: “escort”, “olgettina”, ecc… – deriva dal francese cocotte, propriamente “gallina”, chiaramente onomatopeico).

Nella terza e ultima sequenza l’addio dalla “cocotte”, che non risponde alla domanda infantilmente spietata del bambino, avviene ancora con un ultimo bacio, tristissimo.

A tutto ciò il poeta ripensa vent’anni dopo, proprio coi versi su ricordati.

Cosa resta di una memoria infantile dopo vent’anni?

Il sapore dolcissimo, struggente; la riflessione estatica; l’inserire quell’evanescente figura femminile nel “catalogo” (per dirla col Don Giovanni mozartiano) di tutte le altre “dame” gozzaniane (Carlotta, Felicita, ecc…) per acquisire l’unica possibile consapevolezza: di saper amare solo cioè che è passato; di sentirsi dolcemente e disperatamente attratto da ciò che poteva essere e non è stato.

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Ma che esiste ancora e sempre nella Poesia, della quale Gozzano ha autenticamente bisogno, come scrive in una lettera all’amico Carlo Calcaterra:

“Spesso, nelle ore cattive, quando nego tutto, nego talvolta anche la poesia. Questo specialmente mi avviene quando rincaso, stanco della città e della folla, umiliato dallo splendore dell’attività umana: gli edifici meravigliosi, i ponti titanici, i veicoli, le macchine elettriche… E al confronto l’Arte mi appare allora come l’ultima delle manifestazioni umane e la Poesia l’ultima delle arti. Io, che conosco bene questo male, mi chiudo nel mio studio, accendo una sigaretta, tolgo un volume dei prediletti e leggo a voce alta. Dopo qualche istante l’illusione è ricostruita e il Verso mi appare formidabile come il Numero e la Poesia necessaria come la Matematica. E penso allora che un bel sonetto vale più di quattordici colonne di marmo e che un bel canto in terza rima che congiunge due intelligenze dallo stesso sentire è titanico come un ponte ad arcate che congiunge la vita di due città immense.”

Credo e spero che quanto valeva per lui valga ancora, anche oggi,  per noi: la Poesia come Rifugio e come qualcosa di esistenzialmente importante, come (e, talvolta,  forse più) della Scienza.