Tra peccati e virtù: la temperanza e/o tolleranza

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FRANCO RUSSO

Dopo aver frequentato, soprattutto con le parole, peccati e vizi, un po’ di tempo fa avevo deciso di cimentarmi anche con qualche riflessione sulle virtù. Ho scelto una virtù lontanissima dal mio sentire e cominciato a scrivere qualcosa sulla temperanza. Ma se prima di scrivere, come faccio d’abitudine, provi ad andare a leggere quello che ne hanno scritto i più bravi inciampi, inevitabilmente, nella bellezza, imprevedibilità, ricchezza e fascino della lingua italiana. Lingua puttana nel senso più nobile del termine: nasconde e disvela, ammicca e s’imbroncia, imprigiona e libera, sorride e piange, fugge e ritorna. Così, qualche volta, riesce a definire un vizio come una mala pianta ma il suo contrario non è sempre una virtù. Ira ed accidia sono due vizi. Tolleranza ed intolleranza forse. E generano sottofamiglie che facevano dire a Piero Gobetti: ”Ammiro l’intolleranza e odio il settarismo” mentre Goethe: “La tolleranza dovrebbe essere una fase transitoria. Deve portare al rispetto. Tollerare è offendere” e il Marchese De Sade colloca la pietra tombale: “ La tolleranza è la virtù del debole”. E resisto alla tentazione di chiedermi se le “case di tolleranza” fossero sede di vizio o di virtù.   E temperanza e intemperanza? Giocando con le parole mi sono ritrovato a chiedermi – senza trovare risposta – perché temperare significa ammorbidire mentre temprare significa indurire?

Naturalmente indagare, senza una scaletta, una Virtù concede a chi scrive la libertà di scegliersi una o più prospettive e di trascurarne altre. Così ho fatto e dichiaro, da subito, di avere rinunciato a tessere l’elogio della Virtù. Ma ho scelto di andare a cercare in che modo la Temperanza sia stata e sia rappresentata  nella iconografia, in quella “sacra” e in quella “profana”. E l’ho fatto, sia pure molto sommariamente, perché dipinti, incisioni, sculture, immagini da sempre sono simboli e, quindi, ammaestramenti, messaggi, prescrizioni ed il modo con cui gli autori rappresentano l’oggetto ci può dire molto.

Sono partito da Giotto il cui dipinto della Temperanza ho scelto come apertura di queste riflessioni. La Temperanza è raffigurata come una donna che regge, con la mano sinistra una spada e, con la destra, una striscia con la quale lega la spada ma anche, per renderla inoffensiva, la fascia per coprire il taglio. E, fin qui, sembra che sia attiva. Dove non lo è affatto è se se ne guardano le guance, solcate e offese da due briglie che, a mo’ di morso, le impediscono di aprire la bocca e di parlare. Una Virtù molto coatta.

Altra rappresentazione: quella del Pollaiolo, del ’400, nella Sala delle Udienze in Piazza della Signoria a Firenze. Una dama, riccamente vestita, su uno sfondo lussuoso, mescola da due brocche tempestate di gioielli l’acqua calda con quella fredda. Una Virtù nobile e ricca ma anche molto aristocratica, distaccata e lontana.

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Le due brocche da cui escono liquidi vari (acqua calda e fredda, vino ed acqua, dolce ed amaro) ritornano come gesto tipico della Temperanza in molte raffigurazioni anche, per esempio, nel quattordicesimo Arcano Maggiore dei Tarocchi. E qui viene il bello perché, nei tarocchi antichi, la donna mescola da due brocche o da vasi ma, in altri, più recenti, mescola da due coppe e piano piano la coppa diventa simbolo di accoglienza e la donna “temperante” diventa allusivamente “accogliente”. E la donna, molto austera in Giotto o molto nobildonna in Pollaiolo, diventa una figura addirittura sguaiata.

In altre rappresentazioni la Temperanza è contrapposta alla Forza ed in una acquaforte di Pisarri, incisore del ’700, in un Palazzo bolognese, si vede la Forza, con la spada sguainata di fronte ad un grande fuoco che la Tolleranza cerca di spegnere versando acqua dal vaso. La Temperanza che spegne, quindi, le passioni.

Dalle immagini che ricavo da questo sommario ma significativo viaggio nella iconografia della Temperanza non mi sembra di trovare un   allettante invito a praticarla con entusiasmo.

Se mi stacco dalle rappresentazioni e vado a cercare delle definizioni leggo che per Cicerone era “il pieno acquietamento delle passioni e la giusta misura di ogni cosa”, per Buddha “l’apprendere a rinunciare al superfluo” e per San Tommaso “Giustizia, Prudenza e Forza non sono complete se non sono accompagnate dalla Temperanza”. Ed è di qualche significato il fatto che tra i sinonimi latini della “temperantia” ci sia “mediocritas”.

Già, dopo aver pensato molto mi interrogo sul perché la Temperanza proprio non mi prenda e perché non riesca ad essere nemmeno un po’ obiettivo su questa sedicente virtù. Forse, dico forse, mi ricorda, anche per assonanza, la Tolleranza che è un’altra delle virtù che fatico a praticare. O forse no, diciamo che fatico a capire o, meglio, fatico a condividere, almeno nel significato che, di solito, le si dà. Per qualcuno (per molti?) anche bravi cittadini e per il “politicamente corretto” tollerare vuole dire essere pazienti, sopportare tutto, accettare che anche una cosa sbagliata sia accettabile se proviene da un amico o un sodale o un compare o un complice. E questo atteggiamento si coniuga bene con la Temperanza. Tutte e due, però, finiscono spesso per indurre ad atteggiamenti pseudo pacifisti, di non scelta e, soprattutto di non responsabilità. I vecchi democristiani si chiamavano “amici” e non si scontravano mai tra di loro, i vecchi comunisti si chiamavano “compagni” e si difendevano tra di loro anche contro l’evidenza, i vecchi fascisti “camerati”, pronti anche loro a tutelarsi a vicenda. Esempi di tolleranza temperante ma anche di complicità mafiosa.  Questa è solo “storia” infarcita di simboli di malsana “tolleranza”. Ma nessuno di questi pacifici tolleranti  può essere ricordato come esempio di civismo. E, soprattutto non sono stati uomini nè liberi nè di buoni costumi.

Appena ho provato, virtuosamente, ad addentrarmi nella virtù mi sono reso conto che la stessa non è affatto virtuosa e che, a volte, il vizio/peccato può avere in sé un’anima virtuosa. “Dal letame nascono i fior” cantava De Andrè.

E, così, continuo a pensare che essere cittadini veri sia difficile, faticoso ed impegnativo e che, sempre, comporti di scegliere tra il bianco ed il nero. Troppe persone, con la scusa della ricerca di equilibri diventano equilibristi e, cercando improbabili mediazioni, vivono di compromessi e sentendosi in dovere di spegnere passioni e fuochi si sentono deresponsabilizzati e, invocando Temperanza e Tolleranza, evitano di faticare. E, nella loro “aurea mediocritas”, invece di salire almeno un gradino sulla scala della vita stanno fermi.

Ho provato a rileggermi e mi rendo conto che, partito con le migliori intenzioni, non sono riuscito affatto a “frequentare la virtù” come era nelle nobili intenzioni. Nemmeno a parole. E la morale è che, probabilmente, sono costituzionalmente inadatto alla virtù e, pieno di giusti rimorsi, tenterò di fare meglio con un prossimo “peccato”.