Inquietudini

balena 001

GABRIELLA VERGARI.

Bene, proverò a ripetervelo: non ho mai, e sottolineo mai, ingoiato quel burattino, Pinocchio,  o comevattelappescasichiama.
Né lui, né suo padre, né la sua settima generazione.
Ho letto e riletto la citazione e so per certo che non si parla di me, ma di un pesce-cane.
Bella genia, quella! Ci credo che sia da sempre riuscita a sopravvivere ad ogni tipo di sconvolgimento ed attacco: la definirei anzi proprio il portato ultimo della “squalitudine”, questa  abilità di restare al mondo e nel mondo, inghiottendosi gli altri.

Ma non divaghiamo e torniamo al punto.
Com’è allora, vi chiederete, che soprattutto i bambini addossino a me la  responsabilità d’ avere tenuto prigioniero il loro burattino preferito? Credo sia imputabile ad un certo cartone animato, ma io, lo ripeto, non c’entro, con questa  sorta di rito iniziatico. Sono un pesce perbene, dunque non vado in giro ad ingurgitare pezzi di legno inquieti e disubbidienti, mi cibo di plancton e  krill, ogni tanto anche di qualche calamaro gigante ma è decisamente raro.

Né tantomeno mangio gli uomini: mi restano letteralmente nella pancia, come è accaduto a quell’altro inquieto di Giona il profeta, che ho tenuto dentro per tre giorni e tre notti. Ma lì era la volontà di Dio a compiersi, dando il suo inequivocabile segno di ciò che sarebbe avvenuto col Figlio. Perciò direi che tutto l’episodio a suo modo mi onora, mettendo in evidenza la mia capacità di coniugare il simbolismo del mondo superiore con quello inferiore, mostrandomi placenta ed avello insieme, cielo e terra congiunti nei due grandi archi di cerchio che compongono la mia sagoma.

Mica male, per una che discenda da un quadrupede.
Sì, avete capito benissimo.
Un quadrupede (una specie di lupo o forse di orso), cui evidentemente la terra non  bastava.
Avete presente quell’ammasso nero e pietroso da cui tutti i terrestri prendono vita ed a cui un giorno torneranno? Troppa staticità.
Decisamente no, non faceva per lui.
Lui era inquieto, voleva altro. Andava, veniva, fiutava, odorava, tornava sui suoi passi, girava, cercava, oh sì se cercava: era assolutamente quel che di meglio gli riuscisse di fare. Finché, cerca oggi e cerca domani  – 50 milioni di  anni fa non c’era poi forse così tanto da fare -  non s’imbatté nell’immensità.

Quando mia nonna me lo raccontava  – quanto raccontano e tramandano da sempre le nonne di tutti i tempi, altro che gli storici! – faceva qui una piccola sosta, socchiudendo gli occhi.
E nell’improvviso silenzio di quella pausa, io lo sentivo tutto il respiro dell’oceano.
Profondo, lento, sicuro, sconfinato.
Così cercavo d’immaginare cosa dovesse aver provato questo mio inappagato progenitore al suo primo contatto con l’acqua. Cosa gli sarà apparsa, che avrà mai pensato, avrà poi galleggiato o sarà inizialmente calato al fondo? Vallo a sapere! Purtroppo col passato è sempre la stessa solfa: riusciamo a ricostruire a stento i fatti, figuriamoci le emozioni, i sussulti, i brividi o i pensieri.

E poi, mi chiedo, chissà com’era l’acqua di tanto tempo fa, solo una distesa gelida ed indistinta o già ripartita in conche a tratti  più tiepide ed accoglienti?
Poco importa, tutto sommato.
Importa invece che nuota oggi ed immergiti domani, da mammiferi dotati di pelo lupino ed orecchie canine, ci siamo, come ho già detto, trasformati in pesci.
Enormi, giganteschi, smisurati al punto che perfino gli oceani sembrano a volte appena sufficienti a contenerci. E noi ne siamo divenute signore e padrone.
Grigie, azzurre, franche, comuni, un po’ più piccole, un po’ più grandi, megattere, capodogli, sempre e comunque balene, cetacei, ovvero terrore e ricchezza dei marinai.

E già, perché nella vita non basta dar risposta alle proprie inquietudini, bisogna anche (o forse soprattutto) saper fare i conti con quelle degli altri. Il che spiega in poche parole perché sia veramente difficile trovar pace, anche quando scegli gli abissi o frapponi tra te e il resto del mondo distanze ultime ed estreme
Rien à faire, posso ben testimoniarlo, a partire dagli antichi, che interrogandosi sul nostro conto, hanno cominciato a configurare scenari immaginifici e sconvolgenti.
Per cui ne siamo uscite malconce ma pure in qualche modo nobilitate. Ci hanno dipinto come creature mostruose e fameliche, è vero, però ci hanno anche dedicato una costellazione, la costellazione della Balena, niente di particolarmente luminoso od eclatante, ma pur sempre un segno di distinzione, se permettete.
Per non dire della grande valenza cosmogonica che abbiamo assunto ai loro occhi come reggitrici del mondo che, poggiato sull’acqua, avrebbe traballato  al ritmo dei nostri dondolii. Né va dimenticata la balena delle meraviglie che condusse ai montanari d’una lontana regione orientale il Bambino salvifico, liberatore dal male.
Insomma, fin qui transeat.

Ma, l’ho premesso, con le inquietudini non si riesce a starsene tranquilli (che razza di inquietudini sarebbero, altrimenti?).
Ed eccola, allora, l’altra bella vicenda del Leviatano divoratore del sole, bestia apocalittica ed alleata del caos, che non avrebbe dovuto avere nulla in comune con noi, dato che è un serpente, o forse un coccodrillo mitico o un drago terrifico, eppure tante volte ci ha nociuto inducendo una grande confusione in chi era propenso a scambiare la nostra mole per minaccia devastatrice.
Quando si dice le campagne diffamatorie!
Per non dire di quelle propagandistiche che ci hanno trasformato in barili di olio ambulante (pardon, volevo dire navigante ) o in boutique di corsetteria o in filiali di profumeria (mai sentito parlare degli straordinari poteri dell’ambra grigia?).
Al grido di: «Laggiù soffia!» ci hanno davvero sterminato. Lo capisco che Moby Dick ci sia impazzita (o non era più pazzo Achab?).
A migliaia di centinaia siamo così state arpionate, uccise, maciullate, ridotte a carcasse sanguinolente e smembrate, di cui molte volte non sono state risparmiate neppure le ossa, intagliate ad arte per pegno d’amore o puro svago o moto creativo.
E non mi tirate in ballo l’epopea o la cultura della “caccia”, perché altrimenti mi dimentico della  mia sostanziale mitezza e vi caccio giù per la gola io, malgrado i fanoni ed il mio disgusto per la carne umana.

Ok, eravamo più deboli e abbiamo perso.
Ma no, ora si scopre che agli uomini non andava bene neppure questo. Volevano ammazzarci e guadagnarsi da vivere sulla nostra pelle  ma non volevano proprio che sparissimo dall’universo (alla faccia della coerenza, io dico).
Perciò (non è inquietudine questa) ora fanno il mea culpa e si battono il petto.
Così adesso, in fondo meglio tardi che mai, siamo addirittura diventate una specie protetta e ci si preoccupa moltissimo del nostro felice stato o degli sventurati casi di arenamento. Ci sono perfino campagne ambientaliste ed animaliste che ci hanno preso sotto la loro ala tutoria. E tutto andrebbe molto meglio se… (ce n’è sempre uno, come vedete) non ne avessero escogitata un’altra delle loro.

Whalewatching.
Magnifica parolona, rotonda e sonora, parente a un di presso dell’altra da cui ha tratto ispirazione, ovvero birdwatching,  l’osservazione degli uccelli.
In pratica,  una sorta d’ applicazione del famoso adagio della Mamma Rocca, “si guarda ma non si tocca”.
Sì, ma quanto si scoccia, altro che!
Mai una volta, da quando è cominciata, che se balzo fuori dall’acqua per un’improvvisa ispirazione o per un’innocente sbirciatina non incappi nell’obiettivo di macchine fotografiche, telefonini, grandangoli ed altre diavolerie immortalanti. E se il laggiù soffia un giorno ci atterriva, ora mi incupisce il presto, riprendila o il guardala, mamma/ papà/ caro/ cara/Adalgisa/ Venturino/ecc…
Mill’anni che rimetto la testa sotto e mi eclisso.
Guai poi a lanciarmi nei salti acrobatici che sono, è vero, una nostra autentica e sorprendente spettacolarità, ma soprattutto uno dei non numerosi modi con cui noi balene riusciamo a celebrare la vita, secondo un codice di cui gli altri non hanno (e non a caso) ancora ben compreso il riposto significato.
Peggio che andar di notte.
Se poi mi metto a cantare, magari pure nella speranza che mi passi, ecco subito selve di microfoni e riproduttori sonori, che a dir poco mi inibiscono (hai visto mai una stecca!).
Insomma, un incubo osservatorio ed assistenzialistico, ma pur sempre incubo.

E allora mi chiedo, se la terra ci è andata stretta e gli oceani ci si stanno restringendo, niente niente che si debba finire a migrare sulla luna, la grande Balena bianca del cielo?

Inquietudini è tratto da Species. Bestiario del Terzo Millennio, Boemi (Ct), 2012

Per leggere altri racconti compresi in quella raccolta cliccare sul tag SPECIES

illustrazione di Franco Blandino