Il magma, il fuoco e la legge di Zeus

etna

GABRIELLA VERGARI.

Ignoro se esista allo stato attuale una definizione, non dico esaustiva, ma anche solo parzialmente capace di cogliere la svariata complessità delle implicazioni e applicazioni connesse a ciò che si suole comunemente individuare col termine ‘mito’. È invece evidente notare come psicanalisi, antropologia, strutturalismo, etnologia, religione, abbiano fatto a gara nell’evidenziare aspetti senza dubbio fondamentali ed interessanti, e però molto diversi e perfino discordanti tra loro, di un fenomeno del quale è forse facile nutrire una concezione intuitiva ma non altrettanto agevole condensare e precisare con esattezza la specificità.

Ed ecco che, se da un canto Jung rintraccia nel mito «la primordiale manifestazione dell’anima precosciente», Lévi-Strauss ne ravvisa il fine ultimo nella realizzazione di un «modello logico capace di risolvere una contraddizione» ovverossia di mediare all’interno di una opposizione binaria. E se H. Frankfort guarda alle immagini del mito come «alla forma in cui l’esperienza è divenuta consapevole», quelle stesse immagini J. Campbell le concepisce quali «locuzioni di un linguaggio derivato dai serbatoi del sogno, della visione, veicolo di verità metafisiche, psicologiche e sociali, rivelatrici ed insieme protettrici della psiche». Enzimi prodotti dall’organismo sociale in cui operano, i miti non andrebbero, secondo tale tesi, più ritenuti frutto di invenzione né giudicati in base alla loro maggiore o minore veridicità, bensì valutati grazie alla loro mera efficacia (o inefficacia) di agenti curativi (o patogeni), regolatori della libido, e catalizzatori di benessere spirituale e sociale.

E naturalmente si potrebbe, anzi dovrebbe, prolungare l’excursus, se lo scopo del mio assunto fosse la pretesa di una messa appunto della questione. Poiché invece nulla è più lontano dal mio intento, mi limiterò alla constatazione che qualunque siano i presupposti di partenza e le conclusioni dei numerosissimi interventi in materia, l’incontrovertibile attributo, peculiare di ogni creazione mitologica, sia e rimanga l’aspetto diegetico. Come bene evidenzia il suo stesso etimo, il mito è infatti sostanzialmente un racconto, se non addirittura il racconto per antonomasia, precedente primo, paradigma originario, causa e modalità primigenia di tutto ciò che esiste. Affondando le proprie radici nell’humus della vita, vale a dire nel rapporto dell’io col cosmo, esso non solo attesta verità di ordine magico-religioso ma attraverso una propria inconfondibile simbologia rappresenta anche e soprattutto una ricerca di conoscenza, di chiarezza e consapevolezza nel disordine dell’esperienza. «Leggendo romanzi sfuggiamo all’angoscia che ci coglie quando cerchiamo di dire qualcosa di vero sul mondo reale», sostiene Umberto Eco in una pagina delle sue Sei passeggiate nei boschi narrativi[1]. Se è questa la funzione terapeutica della narrativa, a maggior ragione essa si rivela appannaggio di ogni realizzazione mitologica dall’inizio dell’umanità fino ai giorni nostri. Ed aggiunge Walter Burkter: «Il mito è spesso la prima e fondamentale verbalizzazione della realtà complessa, il principale modo di esprimersi su problemi dai molteplici aspetti e di importanza collettiva[2]».

È quindi naturale, che movendo da tali esigenze di razionalizzazione e rappresentazione, l’immaginario degli antichi, ed intendo qui alludere più specificatamente all’immaginario ellenico, abbia trovato particolare alimento nella grandiosità delle dinamiche cosmologiche e cosmogoniche, meglio se dialetticamente e drammaticamente contrapposte tra loro. Le antinomie cielo/terra, acqua/fuoco, luna/sole, vita/morte, hanno così finito per incarnare i più significativi poli di aggregazione dei molteplici motivi di cui la tradizione mitologica greca, ma direi classica tout-court, ci è stata prodiga, con marcato e insistito riferimento a certi luoghi già naturaliter privilegiati di per sé: per limitare l’indagine alla sola Magna Grecia, si pensi ad esempio ai Campi Flegrei, alla Mofeta de Palìci, alle montuosità in genere e alla Sicilia nel suo complesso.  Grazie al proprio particolare modello di combinazione degli opposti, i vulcani hanno in tale ottica ricoperto un ruolo primario, fornendo un’affascinante ed intrigante sollecitazione che nel caso dell’Etna si è addirittura trasformata nella maestosa raffigurazione di precari equilibri sempre imprevedibilmente prossimi alla rottura.
Nutrice di ghiacci perenni e pungenti, quale la dipinge Pindaro nella I Pitica, (vv. 20 ss.)[3], ed insieme culla e ricovero del fuoco primordiale (si rammenti la connessione con la figura di Efesto ma anche con quella dei Ciclopi, che secondo alcuni erano proprio figli diretti del Sole, come rappresenterebbe il loro fatidico occhio, terzo o unico che sia), groviglio di intricati ed insondabili condotti sotterranei ma pure scaturigine di acqua e di fiumi (da ciò deriverebbe ad esempio lo sfortunato amore di Aci e Galatea), fonte ora di devastanti distruzioni ora di vita e feracità, l’Etna è sembrato affatto racchiudere ed alimentare, nel suo alveo, tutte le antitesi più vitali dell’animo umano, comprese quelle della fissità e della mutevolezza. Caratteristiche, quest’ultime, ben colte anche da Strabone che nel sesto libro dei suoi Gheographikà così le sottolinea: «Le terre intorno al vulcano sono nude cineree coperte di neve di inverno. In basso sono invece occupate da foreste e piantagioni di ogni specie. La sommità del monte appare soggetta a frequenti cambiamenti dovuti all’azione del fuoco […] Queste variazioni necessariamente causano modifiche non solo per quel che riguarda i condotti sotterranei ma anche le aperture, talvolta numerose, che sono sulla superficie [...]. Appaiono fiamme che di notte lampeggiano dalla sommità e di giorno sono coperte dal fumo e dalla caligine [...]. Quanto alla lava, essa rappresenta una disgrazia nel momento in cui sopraggiunge, ma si rivela successivamente un beneficio per la campagna, perché la rende fertile e capace di produrre una vite eccellente […] nonché radici che ingrassano il bestiame al punto da farlo soffocare».

Colosso dall’indole incostante e dalla potenza terrifica ma non necessariamente o solamente malefica, è quindi naturale che l’Etna si sia configurato, per gli antichi, quale fulcro di molteplici episodi mitologici o leggendari, nati sulla scorta della dialettica sterilità-morte versus fertilità-vita.
Tanto che a fronte delle varie descrizioni di una flora mostruosa, colma di rami recisi e prestamente rinverditi, alcuni autori vi hanno non a caso situato le fasi salienti del ratto di Persefone – la grotta di Ades sarebbe stata individuata da alcuni proprio alle pendici del monte -, laddove piuttosto
concorde è la tradizione che vuole accesa a cratere etneo la fiaccola di Demetra alla ricerca della figlia rapitale.
Ma ciò che meglio attesta il dualismo, prima citato, morte-vita è forse una variante della vicenda di Deucalione e Pirra secondo la quale i due superstiti dal diluvio, un diluvio in qualche modo universale, avrebbero dato impulso alla vita nuova proprio muovendo dalle pendici etnee. E, ovviamente, il primo re della terra rinnovata sarebbe stato Aristeo, figlio di Deucalione (vd. Igino) ed inventore della vigna.
Al motivo della conciliazione dei contrari vero ed autentico mostrum naturale rimanderebbe del resto anche lo stesso nome di Etna, ispirato a quello della ninfa siciliana che sarebbe intervenuta come arbitro nella contesa accesasi tra Demetra ed Efesto per la sovranità sull’isola, trasparente allusione alla lotta periodicamente ingaggiata dalla fecondità naturale dei nostri terreni contro le devastazioni della lava.
Slanciato, verticale, prossimo quasi al cielo, l’Etna è però anche, se non soprattutto, superba metafora della contrapposizione tra altezza e profondità, così da essere consacrato tanto agli dei superi, ai quali si bruciavano incensi o si erigevano templi – famosissimo tra gli altri quello di Zeus Aitinaios -, tanto alle divinità sotterranee, per propiziarsi le quali si gettavano nel cratere oggetti preziosi e pare perfino vittime umane. A tal proposito ricorderò che, secondo tale versione, l’Etna poteva rifiutare l’offerta nel caso in cui non le fosse gradita e che per questo, indignata all’oltraggio del filosofo Empedocle, ne avrebbe ‘sputato fuori’ il sandalo.

Le ragioni di questa ambivalenza altezza/profondità, dei superi e dei inferi, vanno come è ovvio ricercate nel reverenziale rispetto degli antichi per tutto ciò che travalicasse i limiti dell’umano dominio, ma anche nel loro si direbbe ‘sospetto’ per i fenomeni più inconoscibili, dall’evoluzione misteriosa ed insondabile. Per questo la mitologia classica ha identificato in Tifeo (o Tifone) l’essenza magmatica e terrigena del vulcano, riuscendo ad attribuire solo ad un essere smisuratamente mostruoso, dalla furia selvaggia ed indomita, le infinite, straordinarie ma indeterminabili potenzialità di un’energia pura e incoercibile quale è quella tellurica.
Alto al punto da sfiorare col capo le stelle, capace di toccare con una mano l’Occidente e con l’altra l’Oriente, spaventoso nell’aspetto per le sue cento teste di drago e le innumerevoli vipere attortegli al corpo, Tifeo palesa infatti le caratteristiche ideali per una tale personificazione, coniugando a quelle dell’incommensurabilità anche le proprietà della violenza primitiva e rivelandosi degno figlio del Tartaro e della Terra (Gea), nonché padre dei discendenti più funesti, quali i venti più impetuosi, il cane Orthros, Cerbero e l’Hydra di Lerna (generati con Echidna, la vergine dei serpenti, nel paese degli Arimi.) Ma ciò che rende ancor più interessante la sua figura ai fini del nostro discorso è che in essa si delineerebbero i tratti del drago ittita Illuyanka e quelli del dio fenicio Set, fratello, ma soprattutto antagonista, di Osiride. Nelle rispettive vicende mitologiche, entrambi tali personaggi entrano in conflitto con la divinità dominante e prima di ricevere l’immancabile sconfitta, sancita dalla relativa punizione, riportano delle momentanee vittorie addirittura culminanti nella mutilazione dell’avversario. Set giunge perfino a fare a pezzi Osiride, disperdendone per la terra d’Egitto le varie parti del corpo che poi saranno recuperate, riportate all’unità originaria e ricostruite dall’amore di Iside.
Tutto questo dunque, a mio parere, dimostra come la tremenda contesa di Tifone con Zeus per il domino del mondo, narrata da Esiodo nella Teogonia (vv. 820 ss.)[4], non vada inquadrata nell’ambito di un ordinario conflitto tra potenze equivalenti, ma si carichi di ulteriori valenze ed indichi, finalmente, lo scontro tra lo scatenamento del caos, del disordine, della materia lasciata alla propria scomposta, primigenia energia, ed il superiore sovrastare del divino, inteso come ordine, legge, equilibrio e giustizia. E’ Pindaro, in particolare, a fornire una conferma di tale ‘lettura’ del mito. Nella Pitica I[5] egli infatti celebra la vittoria del tiranno Ierone, ricordando il trionfo di Zeus sul proprio formidabile terrigeno avversario (vv. 17 ss.):

Ma tutto ciò che non è amato da Zeus freme ascoltando il canto delle Pieridi in terra e sull’immenso mare, e freme colui che giace nel Tartaro orribile, il nemico degli dei, Tifone dalle cento teste. Egli fu nutrito, un tempo, nel famoso antro cilicio: ora le sponde che contengono il mare e dominano Cuma opprimono, con la Sicilia, il suo petto villoso.  Lo tiene fermo la colonna del ciclo, l’Etna ricoperto di neve, nutrice di ghiacci perenni e pungenti. Da essa, dai suoi penetrali, sono rigettati i fiotti più puri del fuoco inaccessibile; durante il giorno ne fuoriescono  torrenti che versano cortine incandescenti di fumo, ma nelle tenebre una fiamma rosseggiante trascina in vortici, fin nelle profondità della pianura  marina, i massi di pietra con strepito immane. E’ Tifone, questa bestia mostruosa, che fa scaturire tali getti di fuoco terribili: spettacolo prodigioso, che  lascia increduli gli occhi, che suscita stupore a sentirlo narrare. Egli è là, prigioniero fra le cime dell’Etna folte di scuro fogliame, mentre il letto su cui giace  strazia coi suoi aculei tutta la sua schiena. Zeus, che ci sia concesso di essere nella tua grazia, di tè che regni su questo monte, su questa fronte di una terra feconda, da cui ha preso nome la città vicina, Etna che ha ricevuto gloria dal suo nobile fondatore [...] .
Forte della propria ideologia, il poeta gode dunque e si compiace della devastante sconfitta di Tifone, il nemico degli dei, ma soprattutto l’attentatore, lo scompaginatore, dell’ordine olimpico, l’antagonista di Zeus, ridotto ad una rabbiosa impotenza dai fulmine divino, vero instrumentum regni e stigma di indiscussa sovranità. Nessuna pietà per il colosso dalla schiena straziata, dal petto villoso oppresso, dalla possanza prostrata. Egli, che un giorno giunse perfino a privare Zeus dei tendini delle mani e dei piedi, deve pagare lo scotto della sua tracotante ferocia con una punizione tanto più esemplare quanto più grave è stata la hybris che l’ ha generata. Bisognerà attendere altri versi, e più precisamente quelli del Prometeo Incatenato[6], di non sicura paternità eschilea – come alcuni sostengono e da recente B. Marzullo[7] ha ribadito – per sentire altri accenti (w. 345 ss.):

perché non vorrei, nella mia sventura, che per questo altri molti sortissero patimenti! No certo, poiché mi angosciano le sorti del fratello Atlante (…). E il figlio della terra, abitator degli antri cilici, pietà provai a veder, tremendo mostro dalle cento teste, a forza soggiogato, il furente Tifone: contro tutti gli dei insorse, terror sibilando con le mascelle orrende; dagli occhi scintillava un fulgor di gorgonie onde abbatter con la forza la tirannia di Zeus. Ma su lui venne l’insonne dardo di Zeus, il fulmine che s’abbatte spirando fiamma, il qual lo sbigottì nelle superbe sue spavalderie: in pieno cuor colpito, fu nel vigor fulminato e incenerito. E ora, inutile e inerte tronco, giace vicino a un marino stretto, sotto le radici dell’Etna compresso, (…). Donde sgorgheranno un giorno fiumi di fuoco, con selvaggi morsi divorando i vasti campi dell’ubertosa Sicilia: tale furore esalerà con caldi getti d’insaziabile tempesta infuocata. Tifone, benché carbonizzato dal fulmine di Zeus. [... ]

Ma la versione del Prometeo che il grecista Marzullo ha curato per l’INDA nel 1994 traduce addirittura il sintagma « la tirannide di Zeus» con l’espressione: « quel fascista di Zeus », senza avvalersi di mezze misure per designare il dispotismo del dio. E del resto, lo si interpreti pure come si voglia, il termine tyrannis gioca nel testo un ruolo negativo ed è considerato nella sua accezione peggiore. Poco importa pertanto che esso provenga da un ‘dissidente’. Prometeo, provato da un castigo forse ancora più doloroso di quello dello stesso Tifone, eppure proteso all’affermazione della propria libertà di scelta e autodeterminazione. Tirannico e infatti tutto ciò che non voglia (o non sappia) confrontarsi con l’altro da sé, nella volontà di dialogare o inglobare al proprio interno l’opposizione. E poiché ogni tirannia e destinata a peritura esistenza, ecco che il poeta prima e la storia poi dimostrano come quello di Zeus non si possa in alcun modo considerare un definitivo trionfo dell’ordine e della razionalità sul caos primordiale e le dinamiche telluriche. Si tratta al più di una temporanea vittoria pur sempre destinata a fare, dell’ Etna, non già l’emblema dell’assoggettamento dell’elemento infero a quello supero -o, per dirla con Nietzsche, del dionisiaco all’apollineo-, bensì il sigillo del bilanciato incontro tra il cielo e la terra. Un incontro certo sofferto, spesso dissolto o sul punto di dissolversi, eppure sempre in qualche modo capace di riproporsi con il fascino che le parole di Johann Heinrich Bartels, uno dei grandi viaggiatori stranieri, paiono rappresentare a perfezione: « La terra e il mare sembravano rendere omaggio all’Etna che, come un dio, abbassava lo sguardo su queste bellezze e di tanto in tanto con voce maestosa parlava col tuono ai suoi vassalli.»

da: Atti del Premio-Convegno “Brancati-Zafferana” 1997-2002 a c. di R. Verdirame, SicGymn., N.S. a. LVI n.1 (2003).


[1] Cfr. U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano 1995, p. 107.

[2] Cfr. W. Burkert, Mito e rituale in Grecia, Bari 1987, pp. 38-39.

[3] A. Puech, Pindare, Paris 1952, tome II.

[4] Hésiode, Théogonie, Les Travaux et les Jours, texte établi et trad. par P. Mazon, Paris 1928.

[5] Ed.  cit.

[6] Eschilo, Prometeo Incatenato, a c. di M. di Branco, Milano 1996.

[7] B. Marzullo, I sofismi di Prometeo, Scandicci 1993.