Illazioni su di un prefetto

Ponzio Pilato (Duccio di Buoninsegna)

PAOLO LAMBERTI
Maurizio Bettini, Elogio del politeismo: Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche, Il Mulino
Aldo Schiavone, Ponzio Pilato: Un enigma tra storia e memoria, Einaudi.

Flavio Giuseppe, nella Guerra giudaica, racconta che in occasione di una Pasqua Pilato, che di norma saliva a Gerusalemme per sorvegliare la festa, lasciò che la sua coorte di auxilia (l’unica regolare di cui disponeva in tutta la Giudea) marciasse dietro le insegne, militari insieme e religiose.
Gli Ebrei li accolsero con tumulti e sassaiole; Pilato portò i suoi soldati nella Torre Antonia, fece depositare le armi e distribuire bastoni, e lanciò i militari contro la folla; secondo lo storico giudaico, vi furono 3000 morti, cifra da prendere con moltissima prudenza.
Pagato il doveroso tributo all’orrore per la strage e il militarismo, due fatti mi sembrano più significativi.
Il primo è che i soldati non proibivano la religione ebraica né volevano convertire chicchessia; l’episodio invece mette bene in luce come l’intolleranza religiosa sia non una deviazione ma un elemento costitutivo dei monoteismi.
A questo proposito illuminante è il libro di Bettini.

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Dell’inutilità delle buone idee
Maurizio Bettini, Elogio del politeismo: Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche, Il Mulino
Bettini è un formidabile antichista, che ha esplorato il classico con l’occhio del filologo (eccellente) e ancor più dell’antropologo, sottolineandone l’alterità ed insieme mostrandocene il fascino. A fianco dei suoi libri maggiori, da tempo in opere più snelle, dove l’erudizione è ben celata, chiude il cerchio riportando tra noi il confronto con l’alterità dell’Antico. Qui tocca non un, ma IL punctum dolens del presente: lucrezianamente, “tantum religio potuit suadere malorum“. Il libro svolge in forma sciolta ed elegante una serie di considerazioni sulle virtù della religione classica, (non politeismo: Bettini mostra come il lessico che usiamo per il sacro dei Greci e dei Romani sia inquinato alle radici), sulle loro potenzialità represse: pluralismo, traducibilità, curiosità, cittadinanza degli dei altrui, contrapposti alla “distinzione mosaica”, al dio unico e geloso dei monoteismi (divertente, l’uso che facciamo del plurale per una parola come monoteismo: in realtà l’unico monoteismo vero che conosco è quello di Parmenide…). Peccato che proprio la forma mentis monoteista renda i saggi ragionamenti di Bettini del tutto superflui: se non riescono neppure ad andare d’accordo all’interno del medesimo monoteismo…
Il secondo punto riguarda il carattere di Ponzio Pilato, prefetto di Giudea. Non procuratore, come nei Vangeli, ma prefetto, come si definisce in una iscrizione trovata a Cesarea.
Nel Nuovo Testamento appare un uomo incerto e tormentato, che agisce forzato da chi lo circonda; un ritratto che ha ispirato la sua bellissima figura tracciata da Bulgakov nel Maestro e Margherita, per me il più bel romanzo novecentesco.
Non dissimile è il ritratto che ci dà Schiavone, sia pure fondato su attente ricerche e su grande erudizione.

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Bello ma teologico
Aldo Schiavone, Ponzio Pilato: Un enigma tra storia e memoria, Einaudi.
Schiavone appartiene alla grande tradizione dei giuristi classicisti come Arangio Ruiz e De Martino. Ius sulle origini del diritto romano è un libro bellissimo, e anche qui possiamo apprezzare erudizione ed intelligenza: utilissima la bibliografia ragionata finale. Ma la tesi di fondo, di un Pilato affascinato da Gesù al punto da condannarlo per permettergli il compimento della sua missione, mi sembra più teologia che storia. Anche un grande storico si trova a dover congetturare ad ogni passo, per la fragilità e l’ambiguità delle fonti. E forse porta il peso di duemila anni di tradizione, vista da Gerusalemme.
Guardando invece Pilato con l’occhio di Roma, viene la tentazione di lasciarsi andare ad illazioni.
I governatori romani sono avidi, brutali e corrotti; spesso inefficienti e a volte codardi; persino giusti e capaci. Ma incerti e introspettivi …
Pilato non esita a deporre il Sommo Sacerdote; prova persino a finanziare un acquedotto per Gerusalemme (che ne aveva bisogno) con i fondi del Tempio: ovviamente i lamenti arrivano fino a Roma. Non si infrange impunemente uno dei due comandamenti condivisi da tutte le religioni, ovvero “pagate le decime” (l’altro è “armiamoci e partite”).
Però Pilato governa la Giudea per 10 anni, tutti gli altri prefetti rimangono in carica di media un biennio. Sopravvive persino alla caduta di Seiano, l’onnipotente prefetto del pretorio di Tiberio.
Era un cavaliere, e un militare (come lo immagina Bulgakov): il nome Ponzio rimanda al Sannio (Ponzio era il condottiero sannita vincitore alle Forche Caudine). Se diventa prefetto di Giudea nel 26 d.C., probabilmente nasce tra 15 e 10 a.C. Quindi gli inizi della sua carriera militare coincidono con la grande rivolta pannonica del 7-9 d.C., che impegna nei Balcani non solo le legioni danubiane, ma truppe da tutto l’Impero. A guidare i romani è Tiberio, figliastro di Augusto, il miglior generale tra gli imperatori giulio-claudi; a lui i militari sono fedelissimi, soprattutto se provenienti dal ceto equestre, che Augusto ha trasformato nella spina dorsale dell’amministrazione imperiale. Ne è testimone Velleio Patercolo, ufficiale autore di una breve storia di Roma che culmina in un elogio incondizionato di Tiberio (con buona pace di Tacito). E anche Pilato sarà uno di questi uomini, e quindi dietro ai molti anni in Giudea ci deve essere l’imperatore in persona, e la sua fiducia.
Dapprima giovane ufficiale (comes) di stato maggiore, Pilato sarà diventato comandante di una coorte legionaria (tribunus angusticlavius), poi di una coorte di truppe ausiliarie (un comando più importante, erano unità più autonome) e infine di un’ala ausiliaria (reggimento) di cavalleria, o di un’unità mista di fanteria e cavalleria ausiliarie (cohors equitata). Probabilmente questi comandi lo portano in Oriente, fornendogli esperienza di queste terre. Tra un comando e l’altro, avrà avuto incarichi logistici e amministrativi (utili al patrimonio personale), e anche diplomatici: né sarà rimasto privo di esperienze tra exploratores e speculatores ( i servizi segreti militari).
La Giudea, circondata da staterelli autonomi (come la Galilea) e città greche (la Decapoli, Cesarea), è una destinazione difficile: incline alla ribellione, con una popolazione che ha comunità in tutto l’Impero e (peggio) anche tra i Parti, chiusa in una cultura xenofoba e ostile al mondo ellenistico-romano (un Afghanistan dell’epoca), è però strategica, perché collega la Siria, caposaldo dell’esercito romano in Oriente, e l’Egitto, proprietà personale dell’imperatore, che ne trae il proprio patrimonio e il grano per sfamare Roma.
Non certo un comando da affidare per dieci anni ad un uomo insicuro che si piega alla folla.
Schiavone spiega le sue esitazioni durante il processo a Gesù, come sono testimoniate dai Vangeli, con un’oscura percezione di un cambiamento radicale. In maniera più laica, penserei invece al classicamente romano divide et impera. Infatti Pilato, invece di eliminare anche apostoli ed altri seguaci, come sarebbe logico, si limita a decapitare il movimento.
Così aggiunge un altro elemento al caotico panorama di sette, gruppi, partiti che dividono gli Ebrei, e che daranno origine, durante la ribellione del 66-70 (quindi molti anni dopo, il sistema funziona), ad una feroce guerra civile tra fazioni, pur durante lo scontro con i romani (come oggi in Siria).
Del resto credo che Pilato avesse percepito la natura composita di una nascente “Chiesa” che non è mai stata cattolica (ovvero unitaria), in cui, come testimoniano Atti e lettere paoline, c’erano i tradizionalisti guidati da Giacomo, fratello ed erede di Gesù, capace di convivere con gli altri ebrei a Gerusalemme fino al 62; gli ellenisti, come Stefano (non a caso il primo ad essere eliminato, troppo vicino al mondo esterno, come dimostra il nome greco) e poi Paolo, infine Pietro, che se ne andrà da Gerusalemme per l’ostilità ebraica e probabilmente di Giacomo.
Se si deve concedere uno sguardo profetico al “quinto procuratore della Giudea, Ponzio Pilato” (Bulgakov), gli si può concedere che abbia intravisto un futuro in cui Roma avrebbe potuto inglobare anche quel particolare profeta. In fondo il vicario di Cristo parla la lingua di Pilato, abita a Roma sui resti di un palazzo di Nerone, è pontefice come Augusto, guida un impero diviso in diocesi come Diocleziano, veste come Giustiniano, la sua teologia si regge su Platone ed Aristotele. Direbbe l’imperatore Giuliano: “Abbiamo pareggiato, Galileo!”