Nel nome della rosa – 2

La rosa nella letteratura.

6 rosa penelope

GABRIELLA MONGARDI.

Il profumo reale e metaforico della rosa impregna di sé tante pagine della letteratura, fin dalle origini della poesia lirica occidentale. Cominciamo con un frammento della celebre poetessa greca del VII a.C. Saffo.

Diapositiva1 Saffo

Qui la rosa è la rosa, è uno degli incantevoli fiori che le amiche intrecciavano insieme per creare corone da mettersi al collo, ma si carica di intense suggestioni perché è guardata con struggente nostalgia, nella prospettiva del ricordo, ed evoca un tempo, una stagione della vita irrimediabilmente finita e rimpianta: è l’uso di quel verbo al passato (cingesti) che trasforma le rose e gli altri fiori in emblemi araldici di una raffinata, e perduta, intimità …

Sei secoli dopo, a Roma, ci sarà un poeta che vorrà essere l’equivalente romano di Saffo e del suo conterraneo Alceo: Orazio. Nelle sue odi troviamo una rosa “tardiva”, fuori stagione, e per  questo più preziosa,  addirittura troppo preziosa per il poeta della “simplicitas”, della misura, per il poeta che scrive:

Diapositiva2 Orazio

Se in Orazio la rosa diventa qualcosa di eccentrico, di eccessivo e pertanto da evitare, nelle Metamorfosi di Apuleio le rose simboleggiano il primo grado di iniziazione ai misteri di Iside. Siamo nel II d.C.: Apuleio è un autore africano, un intellettuale bilingue (greco-latino) brillante e colto, tipico esempio della cultura “moderna” della sua età. Le sue Metamorfosi sono un’opera nuova nella letteratura latina, un romanzo misto di avventura, magia, allegoria, in cui le rose giocano un ruolo importantissimo. Quando infatti, dopo mille peripezie, il protagonista Lucio, trasformato in asino per uno scambio di pozione magica, prega la dea Iside di restituirgli sembianze umane, essa gli appare dicendo: «Eccomi, sono qui, pietosa delle tue sventure, eccomi a te, soccorrevole e benigna. Cessa di piangere e di lamentarti, scaccia il dolore, grazie ai miei favori ormai già brilla per te il giorno della salvezza. Sta’ ben attento, invece, agli ordini che ti do: il giorno che sta per nascere da questa notte, come vuole un’antica tradizione, è consacrato a me. In questo giorno cessano le tempeste dell’universo, si placano i procellosi flutti del mare, i miei sacerdoti, ora che la navigazione è propizia, mi dedicano una nave nuova e mi offrono le primizie del carico. Dunque, con animo puro e sgombro da timore, tu devi attendere questo giorno a me sacro.  Infatti ci sarà un sacerdote. in testa alla processione, che per mio volere porterà intrecciata al sistro una corona di rose. Senza esitare tu fatti largo tra la folla e segui la processione, confidando in me, poi avvicinati a lui come per baciargli devotamente la mano e afferrargli le rose. Vedrai che in un attimo ti cadrà questa brutta pelle d’animale che anch’io già da tempo detesto». Così avviene: grazie alle rose della dea, Lucio riacquista sembianze umane e si avvia sulla strada dell’iniziazione.

Quando nel Medioevo, all’inizio del sec. XII, nascono le nuove letterature nelle lingue romanze, la rosa ispira la poesia trobadorica delle corti provenzali in lingua d’oc, e verso la metà del ’200 un poema allegorico in lingua d’oil, che porta la rosa già nel titolo, il Roman de la rose. L’opera è concepita come un’ars amandi  e fornisce una specie di codice o summa dell’amor cortese. Ebbe larghissima fortuna in tutta Europa e anche in Italia, dove fu tradotta e rielaborata nel Fiore di quel Ser Durante che oggi è quasi unanimemente identificato con Dante. Il titolo è dovuto al fatto che la donna amata è rappresentata da una rosa in boccio scoperta dall’io-narrante in un giardino in un mattino di primavera. Il poema narra le varie tappe del percorso, pieno di ostacoli, che l’innamorato deve compiere per cogliere la rosa, cioè per conquistare (anche fisicamente, s’intende) la donna.

Nel Medioevo la rosa è celebrata non solo dalla lirica profana ma anche dalla letteratura mistica: per il Cristianesimo la rosa, potenziando all’infinito il suo valore simbolico, diventa il simbolo dei doni pentecostali dello Spirito Santo, di Cristo, della Madonna, ed è associata a varie figure di sante. Ma la rosa cristiana più illustre della letteratura è la “candida rosa” dell’Empireo, una metafora, l’immagine concreta utilizzata da Dante per descrivere lo spettacolo indescrivibile che contempla a questo punto del suo viaggio: la folla dei beati seduti a cerchio intorno al lago di luce (che è Dio), come petali di una rosa intorno al suo centro.

Diapositiva3 Dante

In questi versi, con questa sequenza di immagini, tocchiamo i vertici lirici della Commedia: prima una similitudine ritmata in maniera quasi scenografica su primavere luminose e fioriture incantate: «nel modo in cui il fianco di un colle si riflette in un lago ai suoi piedi, come per ammirarsi compiaciuto del rigoglio di erbe e fiori a primavera, così le anime beate, disposte in innumerevoli gradini intorno alla luce, si specchiano in essa»; poi, sotto la vista sempre più potente di Dante, il lago sboccia in una smisurata rosa – eterna, non caduca, questa – che fiorisce nel giardino fuori del tempo e dello spazio dell’Empireo. Dante dapprima ce ne dà le dimensioni eccezionali: «il mio sguardo non si perdeva nella vastità e nella profondità di questo fiore, perché nel luogo che è governato direttamente da Dio le leggi fisiche non hanno applicazione: vicinanza o lontananza non modificano per niente la nitidezza della visione». Dopo l’immensità, il colore della rosa, sfumato velocemente con impareggiabile finezza: la melodia allitterante digrada dilata redole odor di lode percorre le nervature della terzina pervenendo al centro del fiore e converte per così dire in musica, grazie alla ripetizione dei suoni D-L-R-A-E-O, la maestosità della rosa dei beati.

Anche il mutamento di prospettiva segnato dalla civiltà umanistico-rinascimentale, con il passaggio dal teocentrismo all’antropocentrismo, dalla dimensione verticale a quella orizzontale, si esprime perfettamente nel profumo delle rose che sbocciano a “mezzo maggio” nel “verde giardino”di Angelo Poliziano. Siamo nella seconda metà del Quattrocento, nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, culla di quell’Umanesimo che, col Rinascimento, rappresenta il massimo contributo italiano alla civiltà europea – e alla corte del Magnifico opera uno dei principali  esponenti di quella fioritura artistico-letteraria, appunto il poeta-professore Angelo Poliziano. Poesia, filologia, cultura filosofica, musicale e artistica in lui si intrecciano indissolubilmente e convergono in una visione tutta terrena e laica dell’uomo e della vita: l’uomo ha solo la sua “virtù” e la sua dignità come strumento per orientarsi nel mondo, e l’arte, in particolare la letteratura, è il vertice della sua attività, la suprema  manifestazione della sua nobiltà spirituale e della sua tensione civilizzatrice. Ma nelle sue opere non troviamo soltanto la celebrazione degli ideali umanistici di poesia, virtù e gloria; temi fondamentali sono anche l’esaltazione della bellezza, dell’amore e della giovinezza, che compaiono appunto in questa poesia.

Diapositiva4 Poliziano

In Poliziano il tripudio della fioritura primaverile evoca, metaforicamente, la giovinezza;  coglier la rosa  per farne ghirlande quando apre tutti i suoi petali, «quando è più bella, quando è più gradita» significa godere delle gioie della giovinezza e della vita; la sfioritura della rosa – che a quel tempo non era rifiorente – allude al declino irreversibile della giovinezza, alla precarietà della vita («prima che sua bellezza sia fuggita»); il messaggio conclusivo, l’invito a cogliere «la bella rosa del giardino» «mentre è più fiorita» è l’equivalente del carpe diem oraziano, è l’esortazione a godere il presente e i suoi piaceri perché “ruit hora” – e il senso dell’inesorabile scorrere del tempo, della labilità, dell’effimero vela di sottile malinconia questo quadro di esuberante pienezza vitale.

Pochi anni dopo, presso un’altra corte, quella degli Estensi a Ferrara, sboccia un’altra celebre rosa letteraria, quella di Ariosto nel poema Orlando Furioso, che riprende il significato carnale della rosa del già citato Roman de la rose.

Diapositiva5 Ariosto

La prima ottava è occupata da una descrizione veramente regale della rosa, alla cui bellezza tutti – natura e esseri umani – rendono omaggio: ma la rosa qui è solamente il secondo termine di paragone… Siamo nel I canto del Furioso, l’ouverture dell’opera – e come in musica, l’ouverture contiene in embrione i temi che il poema svilupperà: la narrazione si apre infatti con la fuga di Angelica intorno a cui si orchestrano i temi della ricerca e dell’attesa delusa. Tutti i personaggi che compaiono nel racconto cercano qualcosa o qualcuno: Angelica cerca la libertà, il cavaliere cristiano Rinaldo cerca prima il cavallo, poi Angelica che ama, poi di nuovo il cavallo; il saraceno Ferraù cerca prima l’elmo, poi Angelica, poi di nuovo l’elmo, quindi Orlando; il protagonista delle due ottave che vi ho letto, il re saraceno Sacripante, cerca anche lui la bella Angelica, ma crede di essere arrivato tardi, di non poter più essere il primo a “cogliere la rosa” di Angelica. Per questo medita fra sé e sé facendo della rosa il simbolo della verginità, che alla donna dovrebbe stare a cuore addirittura più della vita – ma al di sotto si avverte l’ironia sottile del narratore ariostesco nel mettere a nudo la fisicità del desiderio che sta alla base del sentimento amoroso, l’ossessione della “prima volta” che acceca Sacripante. E la similitudine della rosa, con la dimensione assoluta, di tutto o nulla, in cui si colloca, “profuma” dello sguardo disincantato e indulgente insieme che l’Ariosto rivolge ai suoi personaggi, che si aggirano nella selva in cerca di qualcosa che non troveranno mai, come nel mondo gli uomini si affannano ad inseguire progetti, sogni, ambizioni la cui realizzazione è nelle mani del Caso, mettendo a repentaglio l’unico bene che veramente posseggono, ossia la ragione, la misura, il senso della realtà…

Alla rosa dedica un celeberrimo elogio nel suo capolavoro, il poema ‘enciclopedico’ Adone (1623), l’autore barocco Giambattista Marino, spiegandoci il perché del suo colore rosso vivo. Chi parla è la dea Venere, che si era punta il piede con le spine di un cespuglio di rose bianche, era stata curata da Adone e se ne era felicemente innamorata. Il sangue della dea aveva però imporporato la rosa.

Diapositiva6 MarinoDiapositiva7 Marino

Marino scrisse moltissimo, con uno stile virtuosistico volto a spiazzare le normali attese del lettore a colpi di figure retoriche, metafore, iperboli davvero imprevedibili, che gli procurarono uno strepitoso successo ai suoi tempi. Per il gusto moderno risulta forse un po’ pesante, ma un grande del ’900, lo scrittore argentino Jorge Louis Borges, lo ammira moltissimo e ne fa il protagonista di uno dei suoi racconti, Una rosa gialla (da L’artefice, 1960).

Diapositiva8 Borges

Che cosa ammirò Borges di Marino? Sicuramente lo attrasse la tensione “catalogatrice” della sua poesia, la concezione della parola, della lingua come di una sfida alla realtà: la “poetica della meraviglia” per cui Marino è famoso nasce proprio dalla sua volontà di rinnovare una lingua poetica sentita come stanca, obsoleta, inadeguata, per piegarla a dire la realtà profonda delle cose – che la scienza sperimentale nascente, con Copernico e Galileo, aveva insegnato essere radicalmente diversa dall’immagine che i nostri sensi ce ne danno. È questo impulso a dare un nome nuovo a cose che sono cambiate, andando contro la ‘realtà dell’apparenza’, la radice dell’esplosione metaforica – arditissima, anche innaturale o addirittura urtante – che caratterizza l’opera di Marino; è anche per questo che l’Adone non ha più niente di epico, cioè di narrativo, ma è una collana di divagazioni mitologiche e soprattutto di descrizioni “naturalistiche” in cui brilla il virtuosismo linguistico dell’autore: in sostanza un grandioso catalogo di “cose”, barocco fino alla più intima fibra – nel tentativo di adeguare la lingua alla realtà, la parola alla cosa. Ma, come Borges insegna, tale tentativo è infinito, cioè destinato a fallire: l’essenza della rosa rimane sempre al di là della parola, che si approssima ma non tocca mai la meta: «Noi possiamo menzionare o alludere, ma non esprimere»

In Borges la rosa dà addirittura il titolo ad una raccolta di poesie del 1975, La rosa profonda, ed è un tema ricorrente nella sua produzione. Per concludere ho scelto, tra i suoi testi in cui compare la rosa, la poesia Il deserto (da La cifra, 1981).

 Diapositiva9 Borges

Il nesso tra le due parabole che Borges in questa poesia racconta (in terza persona), quella di Ierocle che deve affrontare un deserto e rifiuta di fare scorta di acqua, e quella di un uomo abbandonato da una donna che rifiuta un ultimo incontro con lei, è un’analogia abbastanza intuitiva, facile da cogliere: il deserto in cui deve entrare Ierocle equivale alla solitudine che attende l’uomo, una volta che la donna se ne sarà andata; entrambi dicono: «Se la sete deve bruciarmi, che già mi bruci», intendendo Ierocle la sete in senso letterale, l’uomo la sete come metafora del desiderio insoddisfatto, del rimpianto, della nostalgia. La parabola di Ierocle occupa la prima parte del testo, l’altra l’ultima parte; al centro, c’è… la rosa, e l’uso della prima persona: questi quattro versi centrali contengono la chiave per spiegare le parabole, proprio grazie alla rosa e al suo valore simbolico. Quella che qui Borges enuncia, nella forma di un intenso racconto condotto in prima persona “per emblemi” (l’inferno, i littori del dio, la rosa soprattutto), è una legge psicologica: quando ci si trova “sprofondati nell’inferno” di una situazione totalmente negativa, il ricordo della felicità, della bellezza che si è goduta in passato (la rosa) diventa un ulteriore tormento: per questo i due personaggi delle parabole rinunciano all’ultimo sorso d’acqua, all’ultimo incontro – preferiscono non cogliere la rosa, per non doverla poi atrocemente rimpiangere. O no? Perché la poesia non finisce con il verso Questa è un’altra parabola, che chiuderebbe in un cerchio perfetto il discorso.  Ci sono ancora due versi al presente, che fungono da conclusione e commento del racconto al passato: «Nessuno sulla terra  ha il coraggio di essere quell’uomo», e che ci fanno pensare che l’uomo ha “guardato” la rosa, anche a costo di soffrire la pene dell’inferno, perché senza la rosa dell’amore, della speranza, dell’illusione, la vita sarebbe un deserto intollerabile, e non meriterebbe di essere vissuta. Meglio soffrire una perdita, che non avere niente, da perdere… Meglio inebriarsi fino all’estasi del profumo della rosa, pur sapendo che è destinato a svanire.

Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. Con questo esametro si chiude il grande romanzo di Umberto Eco a cui ho rubato il titolo per questa mia passeggiata tra le rose fiorite nel giardino della Letteratura – “qualche cosa che approssima ma non tocca”, come le parole di cui è fatta. Ma il compito della Letteratura non è quello di cogliere l’essenza delle cose, bensì quello di ‘cantare’ la loro – e nostra – caducità…

QUI Il nome della rosa – 1